Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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CAGOIA E LE «TESTE-DI-FERRO»

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CAGOIA E LE «TESTE-DI-FERRO»

Cittadini, soldati,

in Roma colpita dalla pestilenza come quando la covavano le tenebre medievali, nella lugubre Roma dove Cagoia buffonescamente parla della sua scampata morte alla compiacenza supina e suina dei suoi naturali mezzani, nella Roma delle talpe senz’occhi e delle oche senz’ali si crede che noi siamo costernatissimi e che le vie di Fiume non sono omai attraversate se non da tristi ombre.

La prima ondata di riso monta dalla folla: e la giovinezza

di Fiume mostra i denti nello scroscio.

«Chi è Cagoia?» voi mi domandate. «Chi è Cagoia

Il nome passa di bocca in bocca. La folla ha già compreso.

Stasera io sono di ottimo umore. La notte scorsa, a cena dagli Artiglieri, avevo il capo fasciato. Ora eccomi senza benda. L’acqua di Fiume basta a guarire tutti i mali. Indeficienter. Sono di ottimo umore, e voi anche. La città è in festa, come se fosse annessa. E, in verità, se bene l’annessione sia stata conclamata tre volte, ciascuno stasera ha voglia di riconfermarla per la quarta volta. Io, per esempio, giacché sono alla solita ringhiera, la riconfermo; e credo che potrò anche arrivare sino alla settima, per amore del numero perfetto, ma non oltre.

Il popolo grida: «È troppo, è troppo.» Il popolo grida:

«Ora basta

È lecito ridere, o popolo di Fiume abbeverato di acqua vivida e limpida come il riso dei fanciulli.

Vi voglio dire chi è Cagoia.

Vi voglio anzi chiedere un battesimo. Vi sono battesimi di rigenerazione e vi sono battesimi di abominazione. Ascoltatemi.

Il popolo non contiene la sua allegria, nella curiosità di quelche è per seguire. Poi si acqueta e si fa attentissimo.

Cagoia è il nome di un basso crapulone senza patria, né sloveno, né croato, né italianizzante, né austriacante, che fece qualche chiasso a Trieste nei moti del 3 e del 4 agosto. Condotto davanti al Tribunale, interrogato dal giudice, egli rinnegò ogni fede, rinnegò i sozii, rinnegò sé stesso; negò di aver gridato «Abbasso l’Italia» e altri vituperii, dichiarando di non saper neppure che una certa Italia esistesse; giurò di non saper nulla di nulla, protestò di non voler saper nulla di nulla, fuorché mangiare e trincare, sino all’ultimo boccone e all’ultimo sorso; e concluse con questa immortale definizione della sua vigliaccheria congenita: Mi no penso che per la pansa.

Un grande scroscio di risa si propaga e risuona fino agli ultimi venuti per le vie d’accesso. Tutti i visi dei soldati brillano rivolti in su come quando stavano a guardare un velivolo austriaco abbattuto da un nostro «asso».

È una grande parola storica, Fiumani.

È una parola sublime da tatuare, col blu di Prussia, sul ventre sublime di colui che non si nomina.

Mi no penso che per la pansa.

È una sentenza da introdurre in uno dei cartigli che ricorrono nel fregio dipinto da Giulio Aristide Sartorio nel vuoto di Montecitorio, dove siede un Cagoia «più vero e maggiore».

Quello di Trieste è decaduto. Quello di Roma è sempiterno.

Mi no penso che per la pansa.

Fiume non pensa che per l’arditezza. Fiume è l’Ardita d’Italia. A Fiume non ci sono fanti, non ci sono cavalieri, non mitraglieri, non artiglieri, non marinai. Non ci sono se non Arditi. E gli Arditi sono tutti saliti di un grado: sono tutti Arditissimi.

A ogni frase la folla grida e si agita con una giocondità che il Generale di Robilant chiamerebbe orgiastica.

Ma Cagoia crede di poter vincere perché riesce tuttora a imbavagliare e ad ammanettare l’Italia sostenuto dai soli quaranta vóti dei suoi caporettai putrefatti: Cagoia dominedio rotondo, incoronato di carabinieri e di poliziotti come di cherubini e di serafini destituiti d’ogni verginità: Cagoia foggiato di ghiotterìa come certi idoli di tribù selvagge sono foggiati di sterco risecco.

A questo punto l’allegria dei Fiumani e dei soldati riduce il discorso a un dialogo potente fra la voce d’un solo e la voce di tutti.

Popolo di Fiume, combattenti di Fiume, battezziamolo. Sia questo il suo nome, da stasera e per sempre.

Il nome è gridato da un coro formidabile.

Ma come si può battezzare una simile lordura che per farsi ben custodire è attenta perfino al nome appropriato del Generale in servizio? Quel Generale, se non erro, si chiama Lordi. Hanno un fato anche i nomi dei Generali preposti alla nuova Guardia Regia.

Ma come dunque si battezza l’immondizia irremovibile?

Una voce grida: «Sputandoci sopra.»

Il consenso unanime si manifesta con un immenso clamore.

Ridiamo, compagni.

Non siamo mai stati tanto sereni, tanto sicuri, tanto allegri.

Ieri, a un Ardito scuro e asciutto come il suo pugnale, che stava considerando lo stemma di Fiume, domandai: «Che significa Indeficienter

Mi rispose pronto: «Significa Me ne infischio, signor Comandante

Sì, nel latino di Fiume che è il solo buon latino parlato oggi in Italia, Indeficienter significa proprio Me ne infischio.

Laggiù, a Roma, Cagoia e il suo porcile non imaginano quale schietta ilarità susciti in noi quello spettacolo di sopracciglia corrugate, di pugni grassocci dati a tavole innocenti, di menzogne puerili, di rampogne senili, di minacce stupide, di ringoiamenti goffi, in confronto della nostra risolutezza tranquilla, della nostra pacatezza imperturbabile.

Noi ripetiamo: «Qui rimarremo ottimamente

Essi non sanno in che modo cacciarci.

Noi confermiamo il nostro proposito giovine e maschio.

Essi sempre più s’impigliano, come vecchie cispose, nei loro gomitoli e nelle loro matasse.

Ridendo su dal vasto cuore, noi diciamo: «Ora comincia il bello

Essi non osano neppure di grattarsi la pera per paura di sconvolgere il sottil lavorio dei capelli fissati dal cerotto su la indissimulabile calvizie.

La mia è nettissima.

Quando il Comandante si scopre con un gesto di brusca

ironia, tutta la folla è sollevata da un solo grido.

E ha la durezza del ciottolo ben levigato dal torrente.

Il Dio degli Eserciti m’ha detto: «Ti darò una fronte più dura delle fronti loro.»

E non l’ha detto soltanto a me. L’ha detto a ciascuno di voi.

Ci sono più di quarantamila teste dure oggi, in Fiume. M’inganno?

Cittadini e soldati rispondono con un urlo.

Se da stasera e per sempre il nemico lucano si chiama Cagoia, tutti gli Italiani di Fiume si chiamano Teste-di-ferro.

Non ci fu mai, nella storia di tutte le lotte umane, una condizione simile a questa.

In tutte le lotte, dove il sangue è lo splendore mistico della forza, dove la vita intera è posta per pegno, la gloria può essere da ambo le parti, la gloria può balenare su la fronte dei due avversarii. Perfino sul Grappa, perfino al Piave, ci poteva essere gloria per l’Austriaco pronto a ben combattere e a ben morire.

Ma in questa lotta singolarissima la gloria è da una sola parte. E dall’altra parte non è, non può essere se non l’infamia.

Qualunque cosa dicano o tentino o facciano i servitori di Cagoia e gli Alleati e l’Associato, la loro infamia è certa. Ma tutto quel che noi facciamo, in dedizione d’amore e in purità di sacrifizio, è nobile nei secoli, è una gloria per i secoli dei secoli certa.

Cittadini, soldati, Arditi di Fiume, Arditi d’Italia, alla gogna Cagoia e i suoi servitori e i suoi complici.

Alalà!

Salute e gloria alle Teste-di-ferro!

Alalà!

Pel giorno prossimo in cui Vittorio Emanuele III vorrà entrare in Fiume d’Italia per essere d’Italia due volte Re!

Eia, eia, eia! Alalà!

L’acclamazione scoppia da tutta la città inebriata, e sembra che non debba mai più placarsi. Dai cittadini e dai soldati si rinnova il giuramento «contro qualunque evento, contro qualunque fortuna, contro qualunque pericolo». Canzoni improvvise a vergogna di Cagoia sono cantate per le piazze e per le vie, nella notte rischiarata dai più bei lampi che abbiano mai scoperto alla vista di Fiume le isole

fedeli dentro il Carnaro in tempesta.

27 settembre 1919.



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