Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'urna inesausta
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«IN ALTO IL FERRO!»

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«IN ALTO IL FERRO

Arditi, non voglio salire su quel pergamo imbandierato. No. Sono venuto per guardarvi in faccia, da compagno a compagno. Mi pianto sul selciato, come voi, su questo vecchio selciato consunto, in questa piazza che è come l’arengo del Comune risorto, che è come il cuore ripalpitante della Città di San Vito. Popolani e combattenti fanno un’anima sola, come nella mattina della «santa entrada»; e c’è nell’aria quello stesso odore di lauro.

Arditi, parlo breve e netto, poiché alla cote di Fiume avete riaffilato il doppio taglio dei vostri pugnali e bene riaguzzato la punta.

Il ferro non parla. Se parla, è laconico. L’arme corta ha una parola sola: piuttosto che una parola, un guizzo. E il resto è silenzio.

Ridirvi ancóra quanto io vi ammiri e quanto io vi ami è superfluo. Ve l’ho già detto cento volte. E l’altra sera, alla mensa dei vostri ufficiali, parlavo anche a voi assenti. Avevo il mio cuore nudo in palma di mano. L’ho anche oggi. È vostro. Lo sapete.

E il vostro è mio. Lo so.

Arditi, gli antichi savii dicevano impenetrabile la fiamma.

Fiamme nere, bisogna che voi siate impenetrabili.

Voi sapete quanto è accaduto.

Cagoia, quello delle vostre nuove canzoni crudeli, ha fatto un colpo di mano se non un colpo di Stato: un colpo di mano che non somiglia per nulla ai nostri. Ci sono colpi di mano consigliati dalla vigliaccheria più sconcia. Ne conosciamo.

Cagoia ha fatto intorno alla sua epa la gran radunata del disfattismo bolcèvico e giolittiano. All’improvviso ha sciolto il Parlamento, sostenuto da pochi vóti dei più fetidi disfattisti di quella Camera italiana al cui paragone è una ròcca di pudicizia la camera del bordello dove l’altra sera alcuni di voi trattarono galantemente una piccola banda di alleati ritardatarii che non potevano risolversi a lasciar Fiume senza raccogliere in quel luogo publico le ultime informazioni atte a illuminare la Conferenza perplessa.

Dopo avere sciolto il Parlamento, Cagoia ha inventato il pericolo jugoslavo, ha sparso intorno alla sua epa il terrore della nuova guerra. Voi sapete che da due notti attendiamo l’aggressione. Il ritardo si deve a un contrattempo. I questurini della Guardia Regia, travestiti da ceffi serbi o croati nei sotterranei del Palazzo Braschi, dovevano passare occultamente la linea d’armistizio per capitanare l’assalto. Il primo, creatura prediletta del cagoietto Quaranta, ha avuto la sfortuna d’esser preso da noi all’approdo. Cosicché gli altri, per cautela, hanno rinunziato a sbarcare. Si dice che vadano errando per l’Adriatico, come quel famoso carico di sbirri maltesi bilingui destinato a proteggere il gentil saccheggio croato nella notte del 12 settembre. Nel nostro mare navigano dunque in perpetuo due vascelli-fantasmi della polizia interalleata. E i miei esploratori aerei – i soli che oggi abbiano ali robuste e vista acuta, in tutto il Regno – mi riferiscono di non aver scoperto nel paese croato se non una pacifica abbondanza di pecore.

Siamo disposti a comperarle.

Però la storiella nasconde una trappola: una trappola puerile, che vi farà ridere.

I Comandi dell’«altra parte», obbedienti alle istruzioni di Cagoia, cercano il mezzo di confonderci e di ingoiarci. Ecco in che modo ragionano:

«Sotto la minaccia dell’aggressione jugoslava, l’esercito ribelle e l’esercito regolare si salderanno in una sola massa di difesa e di offesa. Sarà una grande riconciliazione marziale. Le truppe di Fiume, rapite dall’ardore di combattere, lasceranno la città. Noi la occuperemo. E quando il Comandante ritornerà coi suoi uomini polverosi e sanguinosi, troverà insediata nel Palazzo la seconda incarnazione del Generale Pittaluga buon’anima

Ridete, figliuoli. Non ho mai visto tanti denti bianchi, tante dentature perfette di giovani leoni. Ridete. Sganasciatevi anche. Noi siamo a Fiume, restiamo a Fiume, difendiamo Fiume, teniamo Fiume contro tutto e contro tutti. E non vogliamo saperne di conciliazioni ambigue e di promiscuità sospette.

Oggi, più che mai, chi non è con noi è contro di noi.

C’è un solo Esercito veramente italiano: quello di Fiume. E resterà compatto.

Fiamme nere, siate impenetrabili.

Oggi si compie la terza settimana dal nostro ingresso vittorioso. Se fino a oggi abbiamo potuto talvolta rilasciare la vigilanza, da oggi dobbiamo stare di continuo all’erta; e dobbiamo esser pronti a rispondere con le rappresaglie più crude a qualunque tentativo perfido dell’«altra parte».

Parlo di certi Comandi, non parlo dei soldati che son tutti «fiumani» anche dall’«altra parte».

Arditi, vi ricordate di quella vostra canzone?

Bel battaglione di Fiamme nere,

non c’è frontiera pel tuo destin.

Il vostro destino è la vittoria, su l’Eneo come sul Piave. E il vostro destino è oggi il destino di Fiume, Arditi. E, se per Fiume ci può essere una frontiera a levante, non ce ne potrà mai essere una a ponente. È manifesto.

Come vi dissi l’altra sera: «Ora comincia il bello

Vigilanti, silenziosi, spietati, deliberati a tutto: pugnali forbiti, bombe manevoli.

si ordisce, qui si ardisce.

E io mi propongo di condurre questo nuovo periodo di lotta non da Ardito ma da Arditissimo, quale volle chiamarmi uno dei vostri capi immemore; che, dopo avervi rimproverato la santa ribellione, ebbe la tristezza di tornarsene di e oggi forse inscrive il suo nome onorato in una lista riveduta e permessa da Cagoia tiranno di lardo che si paragona alle montagne di macigno! Ridete ancóra.

Ma le elezioni le faranno i combattenti. E il fiore dei combattenti è in Fiume di San Vito. E da Fiume partirà la parola d’ordine.

A noi!

Fiamme nere, in pugno il ferro, in alto il ferro!

Alalà!

Quando il Comandante cessa di parlare, e intorno a lui cessa il clamore delle Fiamme nere e della folla, un mutilato si avanza. Con parole ardenti di devozione e di dedizione intiera egli offre all’Arditissimo l’insegna di guerra: la corta daga cinta di lauro e di quercia. Con mani tremanti appunta l’insegna al braccio, sotto quella dell’aviatore. Tutti sono commossi; molti si sforzano di trattenere le lacrime; uomini e donne del popolo piangono, mentre il

Comandante mutilato abbraccia e bacia il compagno.

Egli dice:

Si compie così il vóto supremo di tutta la mia vita di combattente. A Caposile il pugnale, in Fiume l’insegna. E il riceverla da un mio compagno mutilato accresce la mia commozione religiosa. Egli me l’ha appiccata alla manica, me l’ha profondamente impressa nel braccio vivo. Umile e altero, in lui stringo al mio cuore voi tutti.

3 ottobre 1919.


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