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per la Pentecoste, quando il martirio di Fiume era all’estremo limite del patire umano, fu detto come Fiume apparisse nel torbido mondo la sola città vivente, la sola città ardente, la sola città d’anima, tutta soffio e fuoco, tutta dolore e furore, tutta purificazione e consunzione: un olocausto, il più bello olocausto che si era mai offerto da secoli sopra un’ara insensibile.
E fu detto il nome giusto della città non essere Fiume ma Olocausta: perfettamente consumata dal fuoco tutta.
Oggi come ieri essa è infatti l’Olocausta, la cerchia del sacrifizio totale, la ròcca del consumato amore: quella che riempie di fuoco le occhiaie bianche di tutti i nostri morti marini radunati nel Carnaro a mirarla e a bearsi.
è vero che l’amore vince ogni cosa avversa e crea contro gli stessi fati l’evento ineluttabile. Creata dall’amore, una volontà divina conduce le forze adunate in questa riva angusta per opporsi alla perversione e alla demenza del mondo. Nei nostri corpi miseri, nelle nostre anime umili abitano e operano le forze eterne. E non siamo noi gli artefici della grandezza, ma una grandezza ideale trascende i nostri pensieri e i nostri atti, sovrasta a noi e al mondo. E tutto si compie secondo un’armonia imperiosa, per cui la sciagura e la morte assumono una bellezza necessaria cioè creatrice.
In mezzo alla Città Olocausta questi due giovani Italiani hanno acceso il loro olocausto, in mezzo alla terra dell’ardore questi due giovani Italiani hanno acceso il rogo del loro sacrifizio. Era necessario che la rinnovata volontà di lotta e di resistenza fosse consacrata da una morte fiammeggiante. E questi due giovani Italiani sono caduti sopra il cuore della città, sono spirati sopra il cuore della città, si sono consumati sopra il cuore della città. Il loro amore s’è convertito in fuoco durevole, la loro fede s’è convertita in fuoco perpetuo.
Credete voi che il rogo sia stato spento? Credete voi che si possa domare una tale vampa?
Ieri, dalle finestre, dai balconi le donne di Fiume gettavano l’acqua su l’incendio, e piangevano. Piangevano le lacrime nuove, piangevano il pianto già pianto: il pianto già pianto per quell’altro italiano alato che primo precipitò nel suolo di Fiume dal cielo di guerra, in un agosto lontano, e s’ebbe la sua sepoltura e il pellegrinaggio votivo e le votive ghirlande. Ma veramente la pietà delle donne si travagliava a spegnere la fiamma?
La fiamma non sentì l’acqua; non sentì se non le lacrime. E le lacrime delle donne di Fiume sono un doloroso aroma che eccita la fiamma e la profuma per sempre.
C’era là, nel meriggio, tra le case pallide, un incendio di legni, di tele, di metalli, di essenze. C’è qui, nel vespro, un incendio di anime, che dura, che perdura, che non può estinguersi.
Gloria a chi ha aggiunto il fuoco al fuoco!
Gloria alla coppia alata che ha offerto il primo olocausto di libertà all’Olocausta!
Gloria ai due messaggeri celesti che, nella vicenda delle ore brevi, hanno appreso al nostro spirito come questa da noi vissuta sia la vita sempiterna!
Cittadini di Fiume, scopritevi. Soldati d’Italia, presentate le armi.
Tenente Aldo Bini, Brigadiere Giovanni Zeppegno, Italiani dell’Italia novissima, primizie del fuoco, primizie della morte, giovine coppia alata e giurata, ordino che sia distesa su la bara duplice la grande bandiera dei fanti, la bandiera su cui fu fatto e rinnovato il giuramento unanime.
Aldo Bini, da fante tu combattesti al Sabotino: al Sabotino, dove l’impeto «fu come l’ala che non lascia impronte». Da fante tu combattesti al Faiti, dove fu osato l’estremo sforzo verso la mèta d’oriente.
Miei piloti, ammantate i due feretri. Compiete il rito nel segno di quella croce che fa l’ombra della macchina alata con le sue doppie ali traverse fra la prua e i timoni.
Popolo di Fiume, seniori del Consiglio, questi primi nostri morti noi li consegniamo alla terra sacra, alla terra libera. Custoditeli.
E tenete per fermo che tutti, come questi due arsi confessori della fede, vogliamo per fede morire.