Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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AGLI ITALIANI DEGLI STATI UNITI

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AGLI ITALIANI DEGLI STATI UNITI

Fratelli, ve ne ricordate? Non ci doveva essere più oceano tra questa Patria dolorosa e la grande colonia filiale. Non ci doveva essere più l’Atlantico fra la Patria che sanguinava sotto l’urto del nemico e quella che sovrabbondava sotto il vostro lavoro. Quando la gente che vi ospita riconobbe alfine per nemico il nostro nemico, riconoscendo alfine la santità della nostra guerra, parve che vi ristampasse e vi ribattezzasse nella verità della causa una. Il Capo degli Stati Uniti parve sollevarsi sopra gli uomini per convertire in atto le grandi parole escite dalla sacra bocca di Abramo Lincoln in quel cimitero di Gettysburg santificato due volte dalle ossa dei morti e dal sangue dei combattenti. Parve estendere a tutta la terra la sentenza che l’eroe aveva posta su la nazione: «Io dico che il mondo, con l’aiuto di Dio, deve avere una nuova nascita nella libertà

Ve ne ricordate? Avevamo dovuto patire la legge di tutti i sacrifizii redentori in terra. Avevamo dovuto patire il tradimento e la rinnegazione. Avevamo dovuto sopportare la percossa, l’ingiuria, la vergogna, tutti gli strazii. Ed eravamo rimasti in piedi, con le nostre armi in pugno. Avevamo stretto i denti sul nostro dolore, mutandolo in ferreo proposito. Avevamo fatto il patto con la vittoria e con la morte.

Avemmo la vittoria, la massima delle vittorie, con le nostre forze sole. Per la quinta volta salvammo il mondo.

Vi dissi: «Siamo due volte italiani, oggi. Due volte italiani siete oggi anche voi, nella terra della vostra pena comune e della vostra conquista cotidiana

Ma, svampata la prima ebrezza, dimesso il primo orgoglio, che accadde?

L’armistizio male imposto c’incolse a un tratto come una pestilenza senza scampo. All’improvviso tutto si pervertì, s’infermò, si corruppe. Il crepuscolo degli eroi fu rapido come una nebbia in palude. Il sangue non ebbe più splendore, né peso. Nessuno parve si ricordasse che c’era chi aveva dato il sangue, chi aveva dato il pianto per giustificare la speranza dell’uomo. L’uomo si sentì un’altra volta disperato. La terra ridivenne la vecchia tavola aleatoria dove i potenti e i mercanti giocarono le spoglie sanguinose. La tunica senza cuciture «tessuta tutta d’un pezzo di cima in fondo», che gli antichi crocifissori avevano lasciata intiera, i novissimi non si peritarono di stracciarla.

Voi sapete la storia dell’anno oscuro che sta per compiersi, da ottobre a ottobre.

Ma voi anche sapete che, nell’oscuramento di tutte le forze ideali, v’è un luogo solo nel mondo ove rimane accesa la bellezza eroica. Ed è un luogo d’Italia.

Voi sapete il martirio di Fiume, voi sapete la costanza di Fiume, voi sapete la volontà di Fiume.

Siamo tre volte italiani, oggi. Tre volte italiani siete anche voi, nella terra dove si onora la veggente giustizia e dove si sta per commettere una cieca ingiustizia.

Siamo italiani nella Madre dolorosa, nella vittoria indistruttibile e in Fiume martire.

Perché Fiume oggi non è un mucchio di case in fondo a un golfo nascosto, non è un luogo di approdo e di traffico, non è una gente paziente che soffre e che aspetta. È uno spirito, è una forza spirituale senza limite, contro cui nulla possono gli eserciti e le flotte; è l’onore della nostra coscienza; è l’onore di tutta la coscienza umana. Sopra le compromissioni, le corruzioni, le sopraffazioni, sopra le vendite e le compere, sopra le ipocrisie e le frodi, è il supremo appello al diritto.

E l’appello al diritto è un diritto quando chi sorge, anche solo, anche male armato, ha la costanza eroica necessaria ad affermarlo, e a sostenerlo.

Fiume libero Comune italico da secoli, pel vóto unanime dei cittadini e per la voce legittima del Consiglio Nazionale dichiarò liberamente la sua dedizione piena ed intiera alla Madre Patria, il 30 ottobre 1918. Per dieci mesi patì tutte le violazioni e tutte le profanazioni, costantissima. Quando il sopruso stava per essere consumato, quando la città fedele stava per essere consegnata all’avversario come vittima al carnefice, quando stava per essere ridotta una boccheggiante agonia italiana dentro un cerchio spietato, noi devoti sopraggiungemmo a salvarla. Risoluti a combattere e a morire, potemmo evitare lo spargimento di sangue con la protezione del nostro Dio. Non offendemmo la disciplina, non fummo sleali verso il Re. Obbedimmo al Re, obbedendo alla volontà sovrana della Patria. Tutto il popolo schietto è con noi, tutto l’Esercito giovine e sano è con noi.

E so che voi, Italiani degli Stati Uniti, siete con noi, tutti. Ne abbiamo ogni giorno i segni più chiari, le testimonianze più nobili.

Raccogliete di dall’Oceano il grido di Fiume e sollevatelo.

Fiume è oggi tra voi vivente e presente come la bandiera delle vostre corporazioni e dei vostri sodalizii. È l’appassionato viso d’Italia, è il doloroso sguardo d’Italia.

Che farebbe il popolo della bandiera stellata se taluno volesse strappare una stella alla sua costellazione? Che direbbe e farebbe il popolo dell’Unione se taluno osasse intromettersi negli atti della sua potenza? Se taluno, per esempio, pretendesse di discutere e di sentenziare sopra il caso difficile del Messico?

Ci può essere tuttora il dubbio su l’italianità di Fiume anche nei più ostinati e nei più ignoranti? Se Fiume non fosse schiettamente italiana, come avrei potuto io occuparla con un pugno d’uomini, senza colpo ferire? Come potrei tenerla da quattro settimane, in un ordine, in una disciplina, in una serenità, in una concordia che non poté mai conseguire il regime degli Alleati?

Vi porta questo messaggio un grande cittadino americano che, fin dal principio della guerra, si mostrò coraggiosissimamente devoto alla nostra Causa e considerò l’Italia come la sua patria seconda, e la difese e la sostenne a viso aperto. Serbate nella vostra memoria e nella vostra riconoscenza il suo nome: Whitney Warren.

Egli viene a voi da Fiume. Egli ha veduto la città nel giubilo e la città nel lutto. Egli ha veduto tutto un popolo fuso in un’anima sola dall’ebrezza della libertà, e mille e mille mani agitare lo stesso lauro, e mille e mille gole gettare lo stesso grido. Egli ha veduto tutto un popolo silenzioso e composto, lungo le vie, all’ombra delle bandiere abbrunate, piangere i nostri primi morti, piangere i due giovani aviatori che in mezzo alla terra dell’ardore avevano acceso il rogo del loro sacrifizio, piangere la coppia alata che in mezzo alla città aveva acceso il suo olocausto. Egli ha qui riconosciuto il viso della gioia italiana, ha riconosciuto il viso del dolore italiano, l’uno e l’altro scolpiti con quella stessa forza inimitabile che lo straniero ammira in una figura toscana o in una figura lombarda.

Chi può dunque più dubitare dell’italianità di Fiume? Non v’è ignoranza che non s’illumini, non v’è ostinazione che non s’arrenda. Per anni ed anni, oppressori ed avversarii hanno cercato di falsare l’anima e la storia di questo popolo ammirabile. Ma la menzogna è vinta, ma la frode è sconfitta. La perversione e la demenza del mondo sono sopraffatte da una verità imperiosa come un comandamento. Fiume è d’Italia, non può essere se non d’Italia.

L’opposizione della Francia è scossa, l’opposizione dell’Inghilterra muta colore. La generosità del popolo francese si solleva, e supera gli uomini di Stato vacillanti. E il popolo inglese, che nei secoli onorò la giustizia, non più si ricorda di quel suo poeta ebro della bellezza e della sventura d’Italia, il quale cantò i suoi canti «prima dell’alba»? Egli anche oggi parla, con la voce dell’Italia povera e delusa, all’Inghilterra che dalla lotta esce carica di preda: «O madre di Cromwell, o terra che nutristi Milton, puoi tu venire come un’amica verso i miei nemici e tendere la mano ai miei traditori

Omai tutti sanno che la questione di Fiume è una questione di alta e di bassa finanza. Non si tratta di principii sacrosanti né di alcuno fra i quattordici punti troppe volte e troppo crudamente violati. Si tratta di un grosso e losco affare. Chiedetene notizia a Giorgio Herron. Chiedete al probo Giorgio Herron i nomi di quelli che, a proposito del baratto di Fiume, egli chiama «banchieri diplomaticamente privilegiati».

Può il popolo americano permettere che la pura vittoria d’Italia sia lacerata dagli artigli d’un branco di rapinatori? Può il popolo americano permettere che, per favorire cotesto branco, sieno disconosciuti e calpestati i diritti dei vincitori, i diritti dei morti e degli invalidi, i diritti del patimento e della pazienza, i diritti della costanza e della speranza, del sangue e del sudore?

Chiedetelo voi, fratelli, alle genti di Giorgio Washington, a cui date il vostro lavoro assiduo e la vostra devozione fedele.

Chi ha vinto l’Austria? Chi, per vincere l’Austria e per aiutare l’Intesa, ha levato cinque milioni di soldati? Chi ha lottato di anno in anno con uno sforzo che s’accresceva quando più si assottigliavano i soccorsi promessi? Chi ha preso tutto sopra di sé il cómpito di tener testa a uno tra i più potenti eserciti del mondo, in séguito al tradimento russo? Chi ha assalito e distrutto l’intero esercito austriaco, in battaglia campale, affrettando la resa dell’altro avversario e il pieno trionfo degli Alleati?

Per qualche tempo il Governo dell’Unione aveva fatto divario fra barbaro e barbaro, aveva separato nemico da nemico, aveva distinto impero da impero. Aveva dichiarato la guerra al Tedesco e non all’Austriaco. Aveva lasciato da parte appunto il nostro avversario immediato, quello che noi avevamo a faccia a faccia nell’Alpe e nel Carso.

Non bisogna dimenticarlo.

L’Unione non riconobbe per nemico il nostro nemico se non dopo la nostra sciagura, se non dopo quella sciagura che io ho chiamata «la dodicesima vittoria».

Ora la vittoria è costata all’Italia un milione di morti e di mutilati, un altro milione di feriti e d’invalidi: due milioni d’Italiani puri, senza mescolanzecolori. L’America su la nostra fronte non ha avuto se non un morto e quindici feriti, in combattimento.

L’Italia ha patito la rovina di una vasta provincia che era il più puro fiore d’Italia, la più sincera figura terrestre dell’anima italiana. Ha gettato nella fornace i tre quarti della sua ricchezza totale. Dopo aver portato il giogo della guerra, porta penosissimamente il giogo della pace. Vive da mesi e mesi come se la lotta non fosse stata interrotta, continua a soffrire i tormenti delle annate più dure.

Ma l’America rigurgita di ricchezza. L’emblema della nostra antica Venezia dogale è divenuto il suo emblema: la cornucopia traboccante di dovizia terrestre e marina. Essa ha conseguito, con la guerra, il dominio del mondo.

Come può quindi negare alla sua alleata dolorosa e sanguinosa l’aiuto che è chiesto non soltanto in oro ma in ispirito?

Per la guerra, la sua massa enorme e ottusa di ricchezza e di potenza non s’era trasfigurata in spiritualità ardente e sperante? La razza dei pionieri non era apparsa a un tratto come «una razza di passione e di tempesta» eretta in faccia al futuro più grande di tutto il passato?

Può questa immensa forza morale mettersi al servigio dei «finanzieri privilegiati» per opprimere una nobilissima nazione che alla Causa dell’Uomo ha dato senza misura il suo sangue e i suoi beni?

Mentre questa nazione – che ha pagato largamente il suo debito di sangue, che ha pagato e pagherà largamente il suo debito di orosoffre tutte le privazioni come se per lei la guerra durasse o come se fosse vinta invece di essere vincitrice, può dal Campidoglio di Washington partire verso il Campidoglio romano questa minaccia odiosa? «Rinnegate quel che fu la diritta volontà della vostra guerra, quel che fu il pegno dichiarato, posto tra voi e il nemico. Abbassate il vostro diritto pel quale avete combattuto soli, pel quale avete patito soli, pel quale soli avete rifatto interamente le vostre forze e il vostro coraggio tre volte. Ripudiate e tradite i vostri fratelli, la carne della vostra carne, l’angoscia della vostra angoscia; ridateli in mano al cancellatore e al carnefice; ricondannateli a servire e a perire; fateli schiavi di schiavi. Umiliate, davanti al barbaro, davanti al nemico che voi avete sconfitto, venti secoli di cultura latina e di gloria latina, i documenti e i monumenti secolari di Roma e della Dominante, il nome e l’onore d’Italia. Fate questo, o noi v’impoveriremo e vi affameremo

Ci dev’essere dunque, fratelli, sempre un capestro sospeso sul collo dell’Italia nell’Adriatico? Il destino di Nazario Sauro è dunque il nostro destino?

Non è vero. Non può esser vero. Fermamente crediamo che non può essere. Ditelo al popolo che vi ospita e vi adotta; ditelo anche in nome di quel poeta combattente che, nel celebrare la marcia dell’America in armi, si ricordò della vecchia canzone di John Brown. Ditelo in nome del difensore di Fiume, per quel ramoscello di lilla offerto da Walt Whitman alla bara di Abramo Lincoln.

Non irromperà dal sepolcro dell’aedo leonino una parola per noi, che sia «come una parola sgorgata dal cuore caldo della terra»?

Egli aveva gridato un giorno: «O libertà, disperino pur gli altri di te. Non io di te sarò mai per disperare

Dispereremo noi?

Quando l’America si mise in marcia, la grande bandiera republicana parve divenire una costellazione di primavera come le Pleiadi, un segno propizio ai naviganti armati e inermi, uno spiritual segno per tutte le nazioni insorte a difendere la più bella causa che l’uomo abbia mai avuto per combattere.

Noi siamo qui, in Fiume italiana, un pugno d’insorti a difendere quella stessa causa. Qui noi vogliamo rimanere a combattere e a morire per quella causa che fu la causa dell’America armata: per una ragione ideale, per una rivendicazione eroica.

E noi siamo risoluti a resistere, contro ogni avversità di fortuna e di uomini. Teniamo e terremo la città fino all’ultimo. Siamo risoluti a finire di fame nelle sue vie, a seppellirci sotto le sue rovine, a bruciar vivi nelle sue case incendiate, a riderci di tutte le minacce e a incontrare le morti più crudeli.

C’è, di dall’Oceano, un popolo libero, giusto e generoso; e c’è un arbitro potente e tenace che, avendo predicato la giustizia, non teme di commettere un’ingiustizia. C’è, di dall’Atlantico, un popolo che non desidera se non di moltiplicare le sue opere nella pace ristabilita sul suo continente; e c’è un arbitro imperioso e inquieto che non teme di riaccendere la più iniqua delle guerre nell’Europa devastata e insanguinata.

Ogni indugio aggrava il pericolo.

Ci sono quaranta milioni di Italiani che hanno penato e lottato per salvare tutto ciò che nei secoli nati da Roma fu la nobiltà dell’uomo libero. La fame li minaccia? la miseria li minaccia? li minaccia la guerra civile?

Riconoscere un qualunque giogo, prima di aver combattuto con le unghie e con i denti per scuoterlo e spezzarlo, è il segno certo della servitù.

I difensori di Fiume non possono riconoscere il giogo, né vorranno mai sottomettersi. Essi sono tutti Latini; ciò è dire: uomini liberi.

La causa dell’America in armi fu la causa loro. La causa della nobile America, non immemore della parola che risonò nel cimitero di Gettysburg, è la loro causa.

E, se nuovo sangue debba essere versato, o fratelli, quel sangue ricada sul capo che il destino sembra aver già percosso.

Addì 12 ottobre 1919: nell’anniversario

dell’America scoperta da un Italiano.

Gabriele d’Annunzio



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