Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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ITALIA E VITA

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ITALIA E VITA

[xxiv ottobre mcmxix]

Fiumani, Italiani,

oggi, or è un anno, la vergine Vittoria – quella medesima che nel Solstizio adusta aveva falciato le mèssi d’Italia e i battaglioni imperialiscoteva dalle sue penne la brina d’autunno e, pontato il piede nudo su l’erba dell’argine nutrita di sangue, spiccava dalla riva destra del Piave quel volo stupendo che poi doveva essere arrestato dall’armistizio infausto.

Fiumani, gente generata dalla fedeltà e dal coraggio, chi di voi non balza al ricordo di quei dieci giorni strazianti e divini?

Già cinque giorni dopo, il 29 di ottobre, quando il bollettino austriaco millantava la resistenza eroica dell’esercito sul Tagliamento a rendere «vani tutti gli sforzi dell’avversario», quando il pericolo era tuttavia imminente e ancor possibile la vendetta, voi spiegaste nel vento del Carnaro il tricolore italiano, in faccia ai Croati che dal governatore ungaro avevano ricevuto il potere civico per inizio di quella frode più tardi proseguita sopra le navi imperiali in Pola nostra.

Ve ne ricordate, Fiumani?

Quella prima bandiera coraggiosa, allargata dall’aspettazione e dalla passione di dieci mesi, è stasera il nostro cielo, è distesa sul nostro capo, s’inarca al nostro soffio, è gonfia del nostro destino.

Nel bianco è scritto «Italia o morte». V’è segnato il primo grido, il grido del popolo armato di sola volontà e di sola fedeltà contro le mitragliatrici delle bande croate, che crepitarono giorno e notte nelle vie cittadine. Tutte le baionette di Zagabria non ebbero ragione dello spirito inerme. Tutte le minacce e tutte le violenze barbariche non fecero abbassare lo sguardo d’una delle vostre donne intrepidesgomentarono la sfida d’uno dei vostri fanciulli spavaldi. Sul lastrico della piazza e su la soglia delle case la vita era gettata in pegno come sul campo di battaglia. Lo spirito di sacrifizio udiva appressarsi sopra le acque il rombo della Vittoria, e non dubitava, e non s’arrendeva. Vi pareva che la foce del Piave e la foce del Tagliamento sboccassero nel Carnaro e lo colorassero. Nella notte del 31 i due vostri messi andarono disperatamente a scoprire il viso della Patria vittoriosa attraverso la nebbia dell’Adriatico, e incontrarono davanti a Pola i due affondatori temerarii, i due estremi eroi marini.

Le ore contarono per secoli, in un’agonia penosa e gaudiosa. Tutti trepidarono ma nessuno dubitò. L’àncora della prima nave italiana, gettata nel porto, parve non mordere il fondo salso ma affondarsi nel vostro vivo petto da cui non si potesse mai più salpare. Era il 4 di novembre: i volti splendevano come le bandiere, le grida e i canti erano un solo coro, la gioia della dedizione era bella come il rapimento del sacrifizio.

Non eravate se non Italia, non volevate essere se non Italia. Il medesimo sangue profuso nell’Alpe nel Carso nel Veneto nel Friuli gonfiava le vostre vene e chiedeva di essere donato.

Ve ne ricordate, Italiani?

E il 10 di novembre, quando il Re approdò a Trieste e non approdò a Fiume, quando la maestà del Re consacrò l’Istria di ponente e non consacrò la ròcca del Carnaro e il suo arcipelago, tre cittadini furono inviati dal popolo a recare la deliberazione del Consiglio, che non suscitò se non «una eco profonda» nel petto regale.

Quella «eco profonda» pareva già creare il mito doloroso di Fiume, il mito di chi chiama e risponde a sé stesso, il mito di chi cerca e s’inganna, il mito dell’illusione e della delusione.

I marinai non sbarcavano; i liberatori non apparivano. Dove s’era arrestata la Vittoria? Chi la tratteneva?

È destino che voi dobbiate comperare ogni vostra gioia a prezzo di dolore, fratelli, e sempre patire un’eternità d’angoscia per un attimo di giubilo.

E ogni volta la vostra pazienza sublime ripete: «Non importa

Il 17 di novembre giunsero i soldati nostri, e non erano liberatori ma parvero. Non portavano la libertà ma portavano la speranza.

E da anni, per un’anima fiumana, che è la speranza? Per la moltitudine degli uomini la speranza ha mille e mille volti fuggevoli. Per voi ebbe fino a oggi un solo vólto, un vólto immobile, come quello del vostro santo sul vostro altare. Voi sapete quale.

Tutte le ghirlande offerte ai soldati, tutti i fiori da voi avvolti alle armi, tutta la fronda che giuncò le vostre vie, non volevano incoronare se non quella speranza mai consunta ma giovine sempre come son giovini ogni mattina alla vostra vista le isole del Carnaro.

Nel Campidoglio di Roma il podestà, divenuto primo sindaco di Fiume, fece sacramento alla Madre di tutte le genti latine e per voi rinnovò il grido «Italia o morte». Ripetere quella sentenza in quel luogo era come inciderla in una lapide solenne e perenne.

Infatti, sùbito dopo, il Consiglio Nazionale si costituì nei suoi poteri e assunse il governo della città, del porto e del distretto, proponendosi di esercitarlo fino alla sanzione del plebiscito.

Erano passati dieci giorni, quando – a rendere più gravi su i cittadini il fastidio e l’onta di tollerare l’intrusione di truppe straniere – il Comando francese volle istituire nel porto una sua base navale. E le nuove torture incominciarono.

Quella base non era se non un pretesto alla sopraffazione fraterna. Documenti inoppugnabili oggi lo dimostrano. Non era necessaria; non era utile. Per l’armata francese d’Oriente non furono trasportate se non poche tonnellate di merce, che avrebbero potuto passare per Salonicco o prendere la via di Gravosa attraverso la Bosnia.

Allora si vide una volontà aperta lottare contro il sopruso cotidiano, contro la calunnia odiosa, contro l’ingiuria bassa, contro ogni sorta di insidie e di forzamenti. Allora si vide una gentilezza latina, schietta come nel vostro Comune del Trecento, libera come quella che ornava la vostra antica Loggia, risplendere contro la ribalderia d’una soldataglia ubriaca alleata col nemico contro l’alleato. Allora si vide la dignità opporsi alla bestialità, la verità semplice opporsi alla falsità laboriosa, la fede invitta opporsi alla perfidia mutevole.

E si videspettacolo di pietà inaudito – si vide una mano di continuo tesa a fare una offerta non accettata.

Un cuore profondo ha detto: «La più bella riconoscenza è di chi dona e non di chi riceve

Non l’ha detto per Fiume? non l’ha detto per voi?

Voi donate sempre, e sempre siete riconoscenti, fratelli; e sempre siete misconosciuti.

Intanto le vostre rappresentanze presso il Governo italiano e presso la Conferenza non cessavano dal patrocinare, con una fede armata dei più netti argomenti, l’annessione, sempre l’annessione.

Chi di voi non si ricorda del 26 d’aprile? Due giorni innanzi, i nostri delegati avevano abbandonato con animo di vinti la tavola delle sorti dov’erano rimasti seduti fin dal primo giorno con animo di vinti. Ma il popolo italiano s’era sollevato; ma la volontà nazionale alfine aveva parlato, aveva comandato.

La vostra sollevazione fu la più fiera, la vostra volontà fu la più alta. Il vostro dolore e il vostro furore, contro il divieto iniquo, si indurirono in un giuramento così fermo che io posso mostrarvelo di qui come inciso in una tavola di bronzo. «Il popolo di Fiume saprà far rispettare fino all’estremo la sua inviolabile volontà di essere unito all’Italia

Fino all’estremo. Non era questo il vostro proposito vero? Ditelo. Non è questo, oggi, il vostro proposito vero? Ditelo.

C’era laggiù chi riempiva d’oro monetato le bigonce che noi avevamo riempito di sangue. C’era laggiù chi trattava un popolo vittorioso come una genìa di mendicanti. E i mendicanti non si ribellavano ma tendevano la palma e si lagnavano molto sommessamente.

Anche una volta la voce di Fiume fu animosa, fu disdegnosa. Sola si levò contro le rinunzie e contro i baratti. Confermò «il plebiscito del 30 ottobre 1918 come un fatto storico e giuridico indistruttibile, per cui la città e il suo territorio sono da allora virtualmente uniti all’Italia».

Fiumani, il vostro orgoglio si alza per voi. Il vostro orgoglio è in piedi.

Se si sono dileguate dalla vostra memoria le parole che seguono, io ve le rimemoro perché ne siate orgogliosi. In esse, soltanto in esse, è l’inspirazione e la giustificazione dell’atto compiuto dalla legione di Ronchi il 12 settembre.

Ecco le parole di sfida. Ecco, Fiumani le vostre parole di sfida. «Chi, ciò non ostante volesse mutare questo stato di fatto, venga ad imporre il mutamento con la violenza

Riconoscete d’aver parlato così, il 18 maggio 1919?

Ascoltate ancóra voi stessi. «Il popolo di Fiume, conscio che la storia scritta col più generoso sangue italiano non si ferma a Parigi, attende la violenza da qualunque parte essa venga.»

Riconoscete d’aver detto questo?

«L’attende con animo sereno e risoluto, per avere – nell’atto che in tal modo si compie – la conferma dei sentimenti veri degli Alleati e per costringere ognuno di essi ad assumere la responsabilità che la storia gli assegna

Siete voi, grandi fratelli eroici, siete voi che avete parlato così, siete voi che avete lanciato questa sfida a un’autorità carica di tanti errori, di tante ingiustizie e di tante menzogne.

Noi non siamo venuti se non a sostenervi nel vostro proposito, noi non siamo venuti se non a far nostra la vostra rivolta, noi non siamo venuti se non a portarvi la nostra testimonianza e le nostre armi.

Il 18 di maggio Fiume dichiarò: «Spetta a me sola decidere della mia sorte. Il mio diritto è dimostrato, è manifesto, è inoppugnabile. Non riconosco a nessuna potenza, neppure all’Italia, la facoltà di disporre della mia terra e della mia gente. Ho deciso. Se c’è chi si opponga, venga a sostenere la sua opposizione con la violenza. Attendo

Questo i Fiumani nati in Fiume e i Fiumani in Fiume eletti dichiarano oggi, senza aggiunger verbo.

È vero o non è vero? La cosa è netta o non è netta? La nostra volontà è o non è una con la vostra?

Quattro mesi innanzi che la legione di Ronchi giungesse nella città irta di lauri, voi eravate insorti ma non avevate le armi. Noi vi abbiamo portato le armi, per opporre la violenza alla violenza.

Io vi avevo detto: «Riconoscere un qualunque giogo, prima di aver combattuto con le unghie e coi denti per scuoterlo o per spezzarlo, è il segno certo della servitù

Dirlo a voi era superfluo. Avendo scosso l’antico giogo, eravate risoluti a scuotere il nuovo.

Ma ecco che il nuovo giogo, con quell’arte della falsificazione che è insigne nel venerando concilio di falsarii chiamato Conferenza per la Pace, ecco che il nuovo giogo ha un nome di libertà: Fiume «città libera».

Non vedete il buon truffatore Ruggero Gothardi, a voi ben noto, fregarsi le sudice mani? A Parigi, egli sembra il più diligente cooperatore di Tomaso Tittoni. Si tratta di un vecchio disegno cincischiato che da una parte e dall’altra è rimesso fuori con una certa aria di pulitezza e di comodità. Lo conoscete bene.

Ora Fiume non può essere una città libera ma vuole essere una città dell’Italia libera, con tutta la sua terra, con tutto il suo mare, con tutto il suo arcipelago.

Fiume è l’estrema custode italica delle Giulie, è l’estrema ròcca della coltura latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco. Per lei, di secolo in secolo, si serbò italiano il Carnaro di Dante. Da lei s’irraggiarono e s’irraggiano gli spiriti dell’italianità per le coste e per le isole, da Volosca a Laurana, da Moschiena ad Albona, da Veglia a Lussino, da Cherso ad Arbe.

Se Fiume divenisse città libera e non città della libera Italia, ogni impronta italiana scomparirebbe in breve giù giù per la riva orientale dell’Istria e per l’arcipelago; e la terra divota di San Vito avrebbe penato lottato sperato e aspettato invano.

Voi lo sapete, voi lo sentite. L’istinto profondo della razza vi avverte che una falsa libertà è peggiore d’una servitù rivoltosa.

Fiume «città libera» diverrebbe in breve un covo di trafficatori, di sensali, di usurai, di politicastri e di bastardi. La sua bella faccia scolpita dalla passione e scavata dalle lacrime si abbrutirebbe come una di quelle che guatano bieche verso di lei dalla riva sinistra dell’Eneo. La sua mano maschia, tesa verso la Patria nell’atto del dono perpetuo, si ritrarrebbe col sacchetto dei trenta denari. Tradirebbe sé stessa.

Potrebbe tradire sé stessa colei che temeva di essere tradita? Ditemelo.

Potrebbe fallire alla sua verità colei che della sua verità ha fatto il suo sacramento? Rispondetemi.

Potrebbe rinnegare la sua anima colei che della sua anima ha fatto il fuoco impenetrabile di tutti i suoi focolari? Parlate.

Voi medesimi non sapete quanto sia grande la vostra Causa. Un mestatore ottuso e basso ha potuto dire che non si tratta se non di un episodio fugace; ma egli sarà, più che smentito, percosso ed abbattuto dall’evento, contro cui non può e non potrà operare, contro cui nessuno può e potrà operare se non stupidamente e inutilmente.

Come oggi il Governo si chiama Sgoverno, così la Conferenza si chiama Impotenza. A tutte le sue transazioni e retrocessioni – tra la vana minaccia contro la Germania per il passaggio delle truppe polacche attraverso Danzica e l’ordine vano rivolto ai Rumeni per lo sgombero dell’Ungheria – essa aggiunge la vanità di quei suoi inviti a denti stretti, che ci riguardano e non ci riguardano.

«Perché facciamo la guerrachiesi una sera a una radunata di reclute del ’99, dietro un argine del Piave divenuto confine tremendo. «Per riacquistare un serto di alpi, la falce di un golfo, un grappolo di terra appeso nel mare, un orlo gemmato di spiaggia latina? Sì, certo, anche per questo. Ma la grande causa non è la causa del suolo, è la causa dell’anima, è la causa dell’immortalità

La causa del suolo ha i suoi limiti. E, poiché soltanto a Fiume oggi si parla franco e rude fra tanto balbettio senile, persistiamo nella franchezza e nella rudezza.

I legionarii hanno ripetuto più volte, con l’arme al piede, la sentenza romana: Hic manebimus optime, «qui molto bene resteremo».

E noi non lasciamo nulla d’intentato perché la sentenza si propaghi per tutti i nostri presidii, a levante e a ponente.

Se l’Italiano prende radice dove si trova – e l’Italiano ha una divina facilità di radicarsi e di fiorire anche nel terreno più ingrato –, l’Italia può soggiungere un’altra sentenza romana: Possideo quia possideo, «posseggo perché posseggo».

Non avete voi udito parlare d’una sottile striscia litoranea, d’un esiguo passaggio per pedoni modesti, che dovrebbe congiungere la terra di San Vito a un’altra stretta zona di costa istriana? Noi abbiamo visto più d’una volta, nella guerra, un braccio o una gamba al taglio d’una scheggia di granata rimaner penzoloni per un solo filamento rosso, per la fibra d’un muscolo o per il cordone di un tèndine, mentre il corpo si dissanguava a fiotti e la faccia del ferito si faceva smorta.

Tenete in mente l’imagine. Fiume è piena di gloriosi mutilati; ma non sarà mutilata, pur rimanendo gloriosa per sempre.

La causa del suolo ha i suoi termini. A settentrione di Fiume, essi debbono includere Idria, affinché la torbida Balcania non prema le spalle di Gorizia e di Tolmino. Il distretto di Idria, per secoli di tradizione storica e per evidenza di figurazione terrestre, appartiene al corpo d’Italia. Sta su la linea del displuvio. Per il valico di Circhina e per il valico del Pero s’apre verso il Regno. Non ha in sé una fronte salda, ma forma un baluardo ben proteso dell’alpe di Tarnova. Se Idria è nelle nostre mani, Gorizia rimane protetta. Se ci è tolta, Gorizia rimane esposta al cannone jugoslavo. Ma ci è contesa principalmente per quel proposito feroce d’immiserirci e di asservirci, che i nostri Alleati non si curano neppure di dissimulare. L’Italia non ha materie prime. Se possedesse Idria, ne avrebbe almeno una: il mercurio, di cui è ricchissimo il distretto. Ma la insaziabile fauce anglosassone vuole ingoiare anche l’argento vivo che prende il nome dal dio dei ladroni.

Come Idria, Postumia spetta a noi. Se non la tenessimo, il flutto della gente balcanica, il flutto della barbarie schiava, giungerebbe a una ventina di chilometri dalle mura di Trieste. Col distretto di Postumia lasceremmo in mano degli Schiavi meridionali il valico di Longatico, quello di Nauporto e forse quello di Prevaldo, che costituiscono da tempo immemorabile la vera Porta d’Italia, la soglia latina calcata dalle incursioni boreali e orientali dei Barbari di ogni evo. E il cittadino di Trieste libera, salendo su una delle colline che incoronano San Giusto, potrebbe domani scorgere a occhio nudo sopra la Porta d’Italia la bandiera di quel nemico che non cessa e non cesserà mai di agognare il grande porto incurvato verso il mare dogale.

Rinunziata Postumia, è anche rinunziato San Pietro del Carso col suo nodo ferroviario quasi equidistante da Trieste e da Fiume, per cui chi lo domina ha in piena signoria la corrente commerciale.

Rinunziato San Pietro del Carso, è anche rinunziato il distretto di Castelnuovo che comprende una larga zona di terreno carsico. L’avversario così occuperebbe la cresta del Carso mediano, dal Monte Aquila al Monte Maggiore; dominerebbe la valle del Timavo soprano, togliendo a Trieste tutti i suoi disegni d’acquedotti e d’opere idrauliche; minaccerebbe da presso la ferrovia fra Trieste e Pola distruggendone il valore strategico; indebolirebbe la fortezza navale. Noi perderemmo inoltre il baluardo costituito dal Monte Auremiano, dal Monte Toro e dal Monte Nevoso, che è la nostra fronte necessaria; e il confine assurdo, come un tempo era quello del Friuli, parrebbe tracciato da un agrimensore melenso che dividesse campagne e doline fra clienti distratti.

Fiumani, Italiani, la causa del suolo ha questi termini. Non bisogna temere di nominarli. Senza Idria, senza Postumia, senza Castelnuovo, il confine d’Italia resterebbe aperto a tutte le insinuazioni e a tutte le violenze; e non soltanto Fiume ma tutta la Venezia Giulia sarebbe ridotta «una boccheggiante agonia italiana dentro un cerchio spietato».

E le isole, Fiumani? E il nostro dolce arcipelago che ogni mattina ci rinfresca la vista col suo cilestro che è come l’oltremare dei pittori veneti? E Lussino e Cherso e Veglia, che nella notte di Buccari sentii vivere e ansiare contro il mio cuore, prossime come i torpedinieri e i cannonieri che stavano con me allato allato su tre tavole di ponte?

Vi ricordate della canzone aspra che si addolcisce al fiato delle isole notturne?

Il profumo dell’Italia

è tra Unie e Promontore;

da Lussin, da Val d’Augusto

vien l’odor di Roma al cuore.

Improvviso nasce un fiore

su dal bronzo e dall’acciaro.

Eia, patria del Carnaro!

Alalà!

Un alalà per le isole vostre, Fiumani! Un saluto per Arbe, un saluto per Pago!

Facciamo silenzio. Ascoltiamo. Giunge all’anima, attraverso il Carnaro, il suono della Granda, il richiamo della campana che Battista da Arbe volle fondere col miglior metallo per lasciare alla sua città nativa un ricordo dell’arte sua, un segno musicale del suo amore.

Che dice la campana di Arbe?

Dice: «L’isola nostra è in un seno morto del Carnaro. Ci dimenticate, fratelli? Siamo pochi, superstiti dell’italianità percossa; pochi ma tenacissimi. Ci condannate, fratelli? La condanna è segnata nelle rovine che ingombrano la nostra città piccola dalla quadratura italica. La condanna è sospesa su i settecento Italiani, che furono settemila. Le case dei Barbari sorgono dalle nostre rovine, e ci sembra che alle loro pietre siano mescolate le ossa dei nostri padri e che il loro cemento sia stemprato col sangue della nostra piaga

La campana piange e dice: «Non ci dimenticate, non ci abbandonate, fratelli. Voi avete atteso e a voi sono giunti i messi della libertà. Noi abbiamo atteso, e nessuno è ancor giunto. Riviviamo la giornata di novecento anni or sono quando il Doge si partì di Malamocco per difendere Arbe dall’artiglio del re croato. Le antiche parole del giuramento ritornano dal profondo. È dolce riavere nella bocca il sapore della lontana voce paterna. Voi lo sapete. Il Vescovo il Conte il Popolo, raccolti nel santuario del Duomo, conclamarono: “Giurando giuriamo e promettendo promettiamo la perpetua sommissione dell’isola, e di corrispondere annuatim cinque libbre di oro obrizio e seta serica. E questo atto di promissione rimanga in perpetuo nella sua forza.” Non cinque libbre di seta serica o d’oro obrizio ma tutta l’anima nostra offriamo a chi verrà per liberarci come Ordelafo Faliero ci strappò al re croato. Non ci dimenticate, fratelli. Non ci lasciate perire. Siamo anche noi gente latina, devota al nome latino. Siamo stati anche noi fedeli, vogliamo essere anche noi fedeli sino all’estremo. Abbiamo lottato, vogliamo lottare. L’alluvione atroce discende dalla Lika, incessantemente. Non c’è scampo per chi non lotta. Chi parla dei nostri ulivi, delle nostre querci, dei nostri cespi di salvia e di timo, della nostra mitezza? Che c’importa, se non siamo Italiani in terra d’Italia? Vogliamo insorgere, vogliamo combattere. Siamo con voi, siamo per voi. Ecco il nostro sangue. Non lo rifiutate. Prendetelo

Così dice la campana di Arbe, così dice la Granda: voce della sua gente. E gli altri tre campanili della città di San Cristoforo suonano a consiglio. E tutte le campane dell’arcipelago stanotte suonano a consiglio, anche quelle di Pago che è il nostro ponte verso Zara la Santa, il nostro ponte verso quella Dalmazia diletta che le armi d’Italia accolse inginocchiata su le sue rive veneziane.

E tutte fanno lo stesso richiamo, fanno lo stesso lamento.

La loro gente, la gente nostra, per tutto il Carnaro, e giù per tutto quell’altro arcipelago, e per tutta quell’altra spiaggia latina, e lungo quelle Dinariche ove il contado canta canzoni invocanti contro la «trobojniza» jugoslava il tricolore italiano, la gente nostra sa che la causa di Fiume è la causa dell’anima, è la causa dello spirito immortale.

Vi sovviene di quel che fu gridato per la Pentecoste, quando più eravate oppressi?

«C’è da una parte un famoso sepolcro farisaico, imbiancato di fuori; e dall’altra c’è uno Spirito.

C’è da una parte un famoso banco di usure ricoperto con un finto lenzuolo di Arimatea; e dall’altra c’è uno Spirito.

C’è da una parte una gente inclinata a rinunziare a dimenticare a condonare ad acconciarsi a rassegnarsi; dall’altra c’è uno Spirito

Per ciò Fiume fu invitta. Per ciò oggi è invincibile.

Noi potremo tutti perire sotto le rovine di Fiume; ma dalle rovine lo Spirito balzerà vigile e operante. Dall’indomito Sinn Fein irlandese alla bandiera rossa che in Egitto unisce la Mezzaluna e la Croce, tutte le insurrezioni dello spirito contro i divoratori di carne cruda e contro gli smungitori di popoli inermi si riaccenderanno alle nostre faville che volano lontano.

L’impero vorace che s’è impadronito della Persia, della Mesopotamia, della nuova Arabia, di gran parte dell’Africa, e non è mai sazio, può mandare su noi quegli stessi carnefici aerei che in Egitto non si vergognarono di fare strage d’insorti non armati se non di rami d’albero. L’impero ingordo che guata Costantinopoli, che dissimula il possesso di almeno un terzo della vastità cinese, che acquista tutte le isole del Pacifico sotto l’Equatore con le enormi ricchezze, e non è mai sazio, può adoperare contro di noi gli stessi «mezzi di esecuzione» adoperati contro il popolo smunto del Pundjab e denunziati dal poeta Rabindranath Tagore «tali da non aver paragone in tutta la storia dei governi civili». Noi saremo pur sempre vittoriosi. Tutti gli insorti di tutte le stirpi si raccoglieranno sotto il nostro segno. E gli inermi saranno armati. E la forza sarà opposta alla forza. E la nuova crociata di tutte le nazioni povere e impoverite, la nuova crociata di tutti gli uomini poveri e liberi, contro le nazioni usurpatrici e accumulatrici d’ogni ricchezza, contro le razze da preda e contro la casta degli usurai che sfruttarono ieri la guerra per sfruttare oggi la pace, la crociata novissima ristabilirà quella giustizia vera da un maniaco gelido crocifissa con quattordici chiodi spuntati e con un martello preso in prestito al Cancelliere tedesco del «pezzo di carta».

Fiumani, Italiani, il 18 maggio 1919, quando gridaste in faccia al Consiglio Supremo che la storia scritta col più generoso sangue italiano non poteva fermarsi a Parigi e che voi attendevate di piè fermo la violenza da qualunque parte essa venisse, voi annunziaste il crollo del vecchio mondo.

Per ciò la vostra causa è la più grande e la più bella che sia oggi opposta alla demenza e alla viltà di quel mondo. Essa si inarca dall’Irlanda all’Egitto, dalla Russia agli Stati Uniti, dalla Romania all’India. Essa raccoglie le stirpi bianche e le stirpi di colore; concilia il Vangelo e il Corano, il Cristianesimo e l’Islam; salda in una sola volontà di rivolta quanti uomini posseggano nelle ossa e nelle arterie sale e ferro bastevoli ad alimentare la loro azione plastica.

Ogni insurrezione è uno sforzo d’espressione, uno sforzo di creazione. Non importa che sia interrotta nel sangue, purché i superstiti trasmettano all’avvenire, con lo spirito di libertà e di novità, l’istinto profondo dei rapporti indistruttibili che li collegano alla loro origine e al loro suolo.

Oppugnare in me, oppugnare in voi la speranza nel giorno prossimo è tentativo stupido e vano.

Per tutti i combattenti, portatori di croce che hanno salito il loro calvario di quattr’anni, è tempo di precipitarsi sopra l’avvenire.

Cittadini di Fiume, il vóto che vi è chiesto non vi è chiesto perché si pensi di poter oggi foggiare gli strumenti della vostra novella vita civica. Non è questa l’ora delle lotte singolari, non dei dissidii, non dei sospetti, non dei rancori. E i nomi non valgono. Nessun nome vale fuorché quello della Città Olocausta.

Non v’è chiesto un vóto: v’è chiesto un fuoco più forte d’ogni altro vostro fuoco, v’è chiesta una fiamma più alta di ogni altra vostra fiamma. V’è chiesta la fusione magnanima della concordia, per la nostra causa, per la causa che trascende il nostro numero e il nostro potere.

Abbiamo ascoltato la campana di Arbe in attesa e in tristezza. Abbiamo ascoltato la Granda: bel nome per una voce che debba essere udita di lontano.

Quando Battista il fonditore, fervido all’opera nella passione della città sua, si accorse che non bastava il metallo, turbato si rivolse ai cittadini: gittò grido a tutto il suo popolo. E i cittadini, uomini e donne, accorsero; e gittarono a gara tutti gli ori e tutti gli argenti nella fornace che ruggiva. E la Granda ebbe «un’anima d’oro, d’argento e d’amore»; la Granda ebbe una voce inimitabile, che tocca nel profondo quanti la odono e anche oggi si distingue fra tutte nel Carnaro della Terza rima.

Popolo di Fiume, non t’è chiesto il vóto della scelta, il vóto pel tuo ordine civico di domani. T’è chiesto il vóto per un solo nome, il vóto per la tua anima. T’è chiesto un atto di amore e di fervore, un atto di unanimità solenne, una parola che sia degna di tutte le altre tue parole eroiche, una voce che s’oda per tutto il tuo mare e giunga all’altra sponda e passi su Roma sorda e vada più oltre, e si propaghi in tutto quel Mediterraneo che portò i misteri umani e divini del Caucaso e del Calvario, e trascorra ancor più oltre, e superi il termine dell’Ulisse dantesco, e valichi l’Oceano, e penetri nel cuore balzante di tutti gli uomini liberi.

Vi sono molte aurore che ancóra non nacquero.

Gloria alla Terra!



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