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IL TRÀPANO
Il 30 ottobre scorso (nello stile politico il valore delle date è considerevole) il 30 ottobre scorso, il dottore Orazio Pedrazzi reduce da Parigi, dopo avere esposto a Gabriele d’Annunzio lo stato esatto della questione fiumana nello spirito tremolante della nostra Delegazione e nello spirito borbottante della Conferenza, gli chiese quale fosse per lui la «via d’uscita».
La proposta e la risposta dovevano essere pubblicate senza indugio nella Gazzetta del Popolo di Torino, alla quale furono inviate la sera stessa.
La stupida e turpe censura nittiana impediva la pubblicazione di questo importantissimo documento.
Eccolo.
«Tornato da Parigi dove avevo voluto rendermi conto della situazione diplomatica in cui si trovava la questione di Fiume, ho esposto a Gabriele d’Annunzio le condizioni disgraziate in cui s’era posta, per gli errori commessi, la Delegazione italiana.
«La Delegazione, gli ho detto, è chiusa in un vicolo cieco. Valutando leggermente l’impresa di Fiume, si è caricati sulle spalle un peso ed una responsabilità che non può sopportare. Costretta a ricondurre nell’Adriatico una situazione legale, ed essendo impossibilitata a farlo, la Delegazione dovrà abbandonare la Conferenza della Pace se voi, Comandante, non le offrite una tavola di salvezza.»
«La risposta è fiorita sùbito, con quella generosità e con quella genialità che invano si cercherebbero nelle sfere della diplomazia ufficiale.
Parla il Comandante:
«La via d’uscita c’è, ed è ben larga, ben chiara, ben diritta. È quella medesima per cui entrammo in Fiume la mattina del 12 settembre.
«Bisogna finalmente riconoscere che, dalla prima ora a oggi, c’è sempre stata una sola via maestra: la mia; e che per le viottole tortuose e scure seguite dagli altri non si poteva giungere se non a ritrovarsi contro l’ostacolo cieco.
«Nessuno può accusarmi d’aver mancato di chiarezza, di fermezza e di lealtà. Fin dalla prima ora io ho preso su me tutto il carico.
«Quando mi accorsi che il Governo persisteva nel suo errore di giudizio e lo aggravava accettando dal Consiglio Supremo il mandato di ristabilire l’ordine in Fiume da me tenuta, io adoperai i mezzi più rudi per collocarlo davanti alla realtà.
«Giova rimettere sotto gli occhi distratti degli Italiani la mia dichiarazione del 20 settembre. Eccola:
Oggi 20 settembre il Comando l’Esercito il Consiglio e il Popolo hanno confermato solennemente l’annessione per la terza ed ultima volta, ponendo in pegno la vita e ogni bene.
Fiume il territorio il porto la ferrovia appartengono all’Italia.
La nazione non si lasci più illudere e ingannare. La nazione sappia che nulla potrà vincere la risolutezza del nostro proposito.
Il Ministro degli Esteri, prima di fare le sue dichiarazioni al Parlamento, voglia considerare questa realtà ineluttabile.
Qualunque sua dichiarazione, che differisca da quella su esposta, è inutile. Non potrà essere accettata né attuata mai.
È mio debito di lealtà, verso il mio paese, parlar chiaro e fermo.
«La “realtà ineluttabile” – su cui il Governo doveva poggiarsi per riceverne forza e ardire – fu invece falsata, deformata, menomata col metodo che omai tutti conoscono. Io rimasi tranquillo. In nessuno dei miei rischi avevo mai serbato tanta pacatezza. Ne fanno fede i miei testimonii. Prevedevo lucidissimamente quel che era per accadere, quel che infatti è accaduto. E non mi lasciavo smuovere, non mi lasciavo deviare.
«Ora la via d’uscita per l’Italia è una sola: la mia.
«Tralascio ogni recriminazione e ogni rammarico. Ancóra una volta parlo chiaro e fermo.
«Il 24 ottobre, in una radunata di cittadini, ricordai le parole rivolte dal popolo alla Conferenza il 18 maggio 1919: “Il popolo di Fiume, conscio che la storia scritta col più generoso sangue italiano non si ferma a Parigi, attende la violenza da qualunque parte essa venga.”
«Il 26 di ottobre, con una votazione plebiscitaria e perfettamente legale, il popolo confermò il suo proposito; che è quello dell’esercito.
«Oggi, 30 ottobre, primo anniversario della deliberazione solenne, la Rappresentanza municipale di Fiume l’ha risuggellato, in una cerimonia svolta dal principio alla fine con quella forza calorosa che dà al popolo fiumano il primato nella dignità civica.
«Ora io, servendomi dei miei poteri e interpretando la volontà dei cittadini e dei combattenti, propongo:
Il Governo d’Italia rimetta alla Conferenza per la Pace il problema di Fiume, restituendo un mandato non eseguibile senza spargimento di sangue fraterno e senza pericolo di guerra civile propagata in tutta la nazione.
Quando il mandato sia restituito, il Governo di Fiume rivendica l’onore di rimaner solo responsabile del suo atteggiamento davanti alla Conferenza e davanti al mondo.
Il Capo del Governo di Fiume accetta fin da ora intera questa responsabilità e si prepara a respingere con la violenza la violenza da qualunque parte essa venga.
«Ma, se ci sono orecchi impenetrabili, adopreremo il tràpano.
«Ieri appunto un erudito fiumano mi ricordò il verso che sotto la figura del tràpano scrisse il Bargagli: Volgendo e rivolgendo dritto fóra.
«E io mi rammento d’aver veduto in Siena dipinto nella facciata di una casa il tràpano sopra un diamante in punta col motto: Nulla senza fatica. Chiedo perdono al diamante.
«E anche mi rammento d’aver detto ai piloti della “Serenissima”, il 9 d’agosto, primo anniversario dell’impresa di Vienna, queste parole che offro alla considerazione degli avversarii: Avrà ragione chi non fu mai stanco e non sarà mai stanco.»