Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'urna inesausta
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L’URNA INESAUSTA

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L’URNA INESAUSTA

[xix decembre mcmxix]

Fiumani, fratelli, perché queste grida? perché questo furore? perché quest’angoscia?

La voce di Fiume s’è mutata. Non la riconosco più. La voce di Fiume s’è fatta aspra come s’è intorbidata la sua acqua. Quando giungemmo, nel bel settembre, la vostra acqua cristallina pareva guarisse ogni nostro male. Io stesso fui sùbito guarito della mia febbre. Ve ne ricordate? Vi ricordate di quella sera d’ebrezza, quando riapparvi davanti a voi guarito, e ristabilimmo l’antico arengo, e il discorso non fu se non un dialogo potente fra la voce d’un solo e la voce di tutti, e la nostra forza e la nostra gioia divennero un coro unanime sotto il cielo balenante, e insieme ridemmo, e insieme cantammo, e insieme sfidammo l’uomo e il destino?

Ve ne ricordate?

Non s’era mai veduta al mondo un’armonia d’amore pari alla nostra. Di continuo il cuore traboccava come l’urna della vostra insegna. Ogni occasione ci valeva per versare la piena; e l’abbondanza non diminuiva mai. Ve ne ricordate? Tutto pareva accadere per conoscenza e per virtù d’amore. Tutto pareva miracolo.

Di che male subitaneo siamo infermati oggi?

L’acqua di Fiume era limpida e salutare: ci rinfrescava la gola e l’anima. Un giorno scoprimmo che s’era infettata. Un fante ne bevve, e s’ammalò. Un cittadino ne bevve, e s’ammalò. Alcuni ne morirono.

Era un segno del cielo?

Che beveraggio abbiamo tracannato oggi per sentirci tanto infermi, tanto miserabili?

Fiume è a un tratto assalita da una febbre maligna, come al principio dei contagi mortali.

In una sera d’allegrezza e di fierezza, in una delle ultime sere di settembre – ve ne ricordate? –, io vi rappresentai Roma colpita dalla pestilenza come quando la covavano le tenebre medievali, vi rappresentai la Roma delle talpe senz’occhi e delle oche senz’ali, la Roma lugubre dove l’odio furbo s’inveleniva invano contro il nostro proposito giovine e maschio.

Tutti ci sentivamo immuni, tutti ci sentivamo sani e incorruttibili.

Siamo stati ora invasi dalla pestilenza romana? È bastato un semplice contatto per prendere in noi l’infezione malvagia?

Fratelli, fratelli, è certo che non abbiamo mai tanto sofferto. Nei giorni peggiori, nei giorni più crudi, nei giorni più disperati, non abbiamo mai tanto sofferto.

Una delle vostre donne ammirabili, una di quelle che s’erano distese sopra le bandiere e s’erano abbrancate alle ruote delle carrette quando i Granatieri stavano per abbandonare la città, una di quelle, stroncata dal dolore, bruciata dalle lacrime, aveva detto umilmente: «Non abbiamo sofferto abbastanza.» E s’era preparata a più patire.

Quella sua parola l’avevano raccolta gli Angeli e l’avevano recata al conspetto del Santo dei Santi. Era la più alta parola dell’amore umano. Ma pensava ella che saremmo giunti a questo patimento, all’orrore di questo patimento? Ditemelo.

Abbiamo la bocca amara, abbiamo la gola arsa. Abbiamo il cuore stretto come un pugno iroso. Abbiamo masticato l’ira e il rancore. Abbiamo scagliato ingiurie, abbiamo ricevuto ingiurie. Abbiamo accusato e siamo stati accusati. Abbiamo difeso la menzogna come si difende la verità. Abbiamo difeso la verità come non si difende se non la menzogna. Quando credevamo di aver compiuto un dovere, abbiamo avuto nel cuore la tristezza del rimorso. Del rimorso abbiamo fatto acredine per combattere contro gli altri, e non abbiamo combattuto se non contro noi stessi.

Che è mai accaduto? che è questa miseria? che è questa demenza?

Da quattro giorni soffriamo come non avevamo mai sofferto. Ma chi ha sofferto più di tutti? chi è oppresso oggi dal più gran peso?

Abbiate compassione di me come io ho compassione di voi, fratelli.

Cerchiamo di veder chiaro; cerchiamo di dire una parola pacata; cerchiamo di riconoscerci.

Ci sono le stelle sopra il nostro capo. Vedete? Le stelle non avevano mai brillato nel cielo orientale di Fiume come in queste notti insonni.

Nelle notti di settembre noi le avevamo nel cuore, ne avevamo stellata l’anima. Ora brillano come non mai, ma sembrano più distanti.

Soltanto la preghiera può riavvicinarle. Ridiscenderanno in noi e ci illumineranno, se la preghiera monderà il nostro cuore triste.

Cerchiamo di veder chiaro. Cerchiamo di ritrovare la verità.

Perché ho io chiesto il vóto solenne del popolo, prima di porre la mia sanzione su ciò che fu deliberato dal Consiglio?

Nel presentare al Direttorio le proposte del Governo io non avevo mancato di esprimere con la mia consueta sincerità il mio giudizio e il mio sentimento.

Su per giù, avevo detto questo. Il Governo dichiara che intende mantenere integra la linea d’armistizio, ma rifiuta di aggiungere – in palese o in segreto – la parola «definitivamente». L’armistizio non è se non una condizione passeggera. La fine dell’armistizio abolisce la linea segnata. Chi può dire oggi dove sarà ritratto, sotto la sopraffazione implacabile degli Alleati e dell’Associato, il confine di ponente e di settentrione?

Il 24 di ottobre, nel mio discorso al popolo, io affermai quali fossero per noi i termini giusti. Dissi che, senza Idria, senza Postumia, senza il nodo ferroviario di San Pietro, senza Castelnuovo, il confine resterebbe aperto a tutte le insinuazioni e a tutte le violenze; e che non soltanto Fiume ma tutta la Venezia Giulia sarebbe ridotta «una boccheggiante agonia italiana dentro un cerchio spietato».

Tutto il popolo si sollevò in un consentimento unanime.

Ora il Governo non vuole impegnarsi – sia in palese, sia in segreto – neppure per il tratto di ferrovia che da Fiume per San Pietro del Carso va a Trieste; e tanto meno per il tratto che va a Longatico.

In quella medesima sera d’ottobre il popolo giurò la sua fedeltà alle sue isole come le isole l’avevano giurata a lui. Ora in queste proposte, fondate su la precarietà dell’armistizio, non si fa cenno né a Veglia né ad Arbe; e il resto dell’arcipelago rimane esposto al solito arbitrio che non disarma. In quella sera udimmo parlare la campana di Arbe. Oggi la Granda non può dire se non questo: «Fratelli, ci avete abbandonato

Ma anche tutti i campanili dalmati possono mandare questo lamento verso il Carnaro.

Il 14 di novembre noi sbarcammo a Zara per opporci alla ignominiosa intimazione wilsoniana contenuta nel documento a me noto e da me reso publico. Il 15 di novembre ritornammo da Zara sopra una nave inghirlandata e fummo accolti dall’allegrezza trionfale di tutto il popolo.

L’impresa era stata compiuta per obbedire alla volontà di Fiume che fu sempre «contro il baratto».

Dalla ringhiera dissi: «Consentireste voi che la servitù dei Dalmati fosse il prezzo della salvezza di Fiume

Mi rintrona tuttavia nell’anima il grido del popolo: «Mai! Mai!»

Anche dissi: «L’atto magnanimo compiuto dall’Ammiraglio Millo ricongiunge la causa di Fiume alla causa della Dalmazia. Non v’è oramai se non una causa unica: quella dell’Adriatico italiano. E Fiume ne è la custode, la mallevadrice e la guerriera. Non ci sono più due nodi e una spada. C’è un solo nodo e c’è una sola spada. La spada oggi, meglio che mai, la teniamo in pugno per l’elsa. Chi la falserà? chi la spezzerà

Mi rintrona tuttavia nell’anima il grido del popolo: «Nessuno. Mai!»

Ora queste proposte rompono di nuovo l’unità: non considerano se non Fiume e il suo territorio immediato. Fiume resta di nuovo disgiunta dalla causa adriatica, e non soltanto separata dal mare dalmatico ma dal suo stesso Carnaro. Fiume era una chiave potente. La chiave è gittata in fondo al suo porto franco dov’è per arrugginirsi come quell’àncora della «Emanuele Filiberto» che fu salpata dopo un anno e che ora è coricata sul letto di cemento come una povera cosa morta.

La linea d’armistizio, se non è dichiarata «definitiva», non è più stabile di quelle rughe che l’onda segna su la sabbia e che un’onda più gagliarda cancella.

Siatemi indulgenti se io non prendo oggi su me, come altre volte, tutto il peso della deliberazione. Comprendete il mio strazio, e compiangetelo.

Si dice che i legionarii sieno stanchi. Non è vero.

Si dice che il popolo sia stanco.

Ditemi voi se è vero.

Si dice che questa è una vittoria, se si consideri l’atteggiamento che il Governo ebbe fino a ieri contro di noi.

Si dice che questa è la mia vittoria.

Ma per me non si tratta di cantare una vittoria; si tratta di spegnere una luce.

Questo è un trattato glorioso per colui che lo firma come un capo di Stato? Ma io, che ho gettato ai vostri piedi tutto quello che mi rimaneva dopo quattro anni di guerra, getto ai vostri piedi anche questa gloria. E non è che poca cosa: una gloriola.

Per questo trattato, Fiume è salva, l’Italia è salva. Lo credete voi, nel vostro intimo? Nei giorni più luminosi della nostra fede e della nostra costanza dicevamo: «Ebbene, no: l’Italia vera non vive del suo ventre ma della sua idea, non si può salvare secondo la carne ma secondo lo spirito. E noi abbiamo veduto quale sia la potenza dello spirito

Comprendete e compiangete la mia angoscia, e quella dei legionarii. Perché i due miei grandi compagni eroici, che hanno recato da Roma questa carta, sono anch’essi tristi?

Ah, Giovanni Giuriati, gentil sangue latino, tu che, essendo mutilato, sei il più intero degli uomini, quanto l’ora più dura nella trincea fangosa ci sembra dolce al paragone di questa!

Ah, Luigi Rizzo, Luigi l’Affondatore, eroe puro e rude, quanto eravamo felici a fianco della morte, sul nostro guscio di Buccari, guardando la costiera scintillante da Volosca a Zùrcovo nella notte di febbraio «come per una festa votiva»!

Guardiamo in faccia la nostra tristezza.

I legionarii avevano detto: «Noi siamo risoluti a rimanere nella Città Olocausta, contro ogni avversità di fortune e di uomini. Siamo risoluti a finire di fame nelle sue vie, a seppellirci sotto le sue rovine, a bruciar vivi nelle sue case incendiate, a riderci di tutte le minacce e a incontrar ridendo le morti più crudeli. Per ciò noi siamo invincibili

Ora essi debbono lasciare la città in aspetto di vinti, poiché gli angariatori dell’altra parte prendono già aspetto di vittoriosi!

Comprendete la loro inquietudine. Essi non hanno potuto dare quel che avevano offerto: e i loro morti sono pochi. Nulla è più amaro dell’eroismo deluso. Comprendeteli. È necessario che il popolo stesso li sciolga dal giuramento e li accomiati.

È necessario aiutarli, con la persuasione dell’amore, ad abbassare la loro bandiera, che non è e non può essere la bandiera di quegli altri: la loro bandiera che è la vostra.

Io dissi, nel giorno natale di Roma: «Davanti alla nazione e davanti al mondo, di contro all’ombra di due Continenti, la vostra bandiera è la più alta. È issata al culmine della passione eroica. È issata alla cima della volontà umana e sovrumana di patire, di lottare, di resistere. È issata dove la vita e la morte sono una sola forza alterna di creazione. Neppure la folgore dell’ira celeste potrebbe schiantarla. Ma l’assenso celeste l’irradia. Il Dio di Dante è con noi. Il Dio degli eroi e dei martiri è con noi.

È con noi il Dio tremendo e soave che ha i suoi oratorii sul Grappa, sul Montello, nel Carso, che ha le sue mille e mille croci nei cimiteri silenziosi dei fanti, che ha quattordicimila croci in quella terra arsiccia di Ronchi da dove l’altra notte ci partimmo credendo sentire nell’aria l’odore beato del sangue di Guglielmo Oberdan misto al fiato leonino dei combattenti di Marsala accorsi

Le parole volano. Lo so. Ma ci sono cuori dove certe parole lasciano il bruciore per sempre. Comprendeteli, compiangeteli.

Noi siamo venuti per vincere, e abbiamo giurato di vincere. Se questa carta è firmata, noi sentiamo di dover partire senza aver vinto, senza la vittoria verace.

Con quella nave che giunse inghirlandata nel porto, io dovrò ripartire per ricondurre quel Battaglione del Carnaro che è come il sigillo della fede fiumana stampato in Zara la Santa. Abbiamo già udito singhiozzi che parevano sradicare l’anima dal cuore. Ma ne udremo di più atroci, fratelli.

Questo ho detto, questo ho lasciato sentire ai cittadini ottimi e devoti che compongono il vostro Consiglio.

Voi sapete come essi abbiano deliberato, in favore delle proposte.

Ma per me la deliberazione era indebolita da tre vóti dichiarati: quello di Antonio Grossich, del Presidente onorando, del più costante assertore, del più severo sostenitore che abbia mai avuto il vostro diritto; quello di Riccardo Gigante, combattente fra i primi, sindaco e podestà eletto dall’unanime rappresentanza comunale; quello di Giovanni Venturi, vero Capitano del Popolo, difensore infaticabile di tutta la causa adriatica, mio primo compagno di ansia, di lotta, di congiura, di intrepidezza.

Si diceva che quella fosse la deliberazione della vittoria. Ma i consiglieri, dopo il vóto, si levarono dai loro seggi con un aspetto così triste che una voce disse: «Questa non è una vittoria, è un funerale

Era la voce dell’istinto profondo. Qualcosa finiva, qualcosa moriva.

Io avevo detto: «Si tratta di spegnere una luce

Nella sera sopravvenne il subitaneo movimento popolare davanti al Palazzo. La passione del popolo si comunicava ai soldati. Si osservò come quello non fosse tutto popolo schietto, ma popolo e milizia. E che importa? Non era una voce legittima? Da quando in Fiume i combattenti sono separati dai cittadini? Da quando in Fiume ci sono due fedi?

Il mio turbamento s’accresceva. Era necessario che la volontà del popolo fosse espressa in un documento solenne. Era necessario che il popolo, se le nostre vite e le nostre armi non più gli parevano necessarie a garantire l’esecuzione dell’impegno, lo dicesse senza ambiguità e senza indugio. Soltanto il plebiscito, sinceramente attuato, poteva placare gli animi ed evitare tumulti quando fosse ritenuta giusta – dinanzi alle promesse e agli agi – la partenza di tutti i fratelli devoti che serberanno per sempre l’orgoglio di essere inscritti nella Legione fiumana.

Il plebiscito fu proposto, fu decretato, non per la discordia ma per la pacificazione, non per un gioco di equivoci ma per una ricerca di verità.

Voi sapete quel che abbiamo sofferto in questi tre giorni. L’angoscia della notte fra l’undici e il dodici di settembre, quando pareva che la schiera di Ronchi non potesse più giungere e che tutto fosse per tornare nella disperazione e nell’onta, vi deve oggi sembrar lieve al paragone di questa.

Siamo passati di errore in errore, di forviamento in forviamento, di violenza in violenza, di tenebra in tenebra. Siete usciti dai comizii senza luce. E che luce avete in voi ora? che luce mi portate voi?

Eravate qui a gridar di collera, e non sapevate veramente perché.

Ora piangete. E forse già sapete perché. Chi piange è mondato.

Dio vi aiuti, Dio mi aiuti.

Ogni pianto ricade su me, ogni sangue ricade su me. Il mio cuore si strugge. Dobbiamo separarci? dobbiamo dirci addio? dobbiamo abbandonare l’ascia nel tronco del destino? Voi non me lo dite neppure a faccia a faccia. Abbiate compassione di me come io ho compassione di voi.

Ci fu un santo d’Italia che sul punto di trapassare piangeva e, domandato perché piangesse, rispose: «Piango perché l’Amore non è amato

Per giorni più lunghi dei secoli, l’Amore non è più stato amato nella Città Olocausta dov’ebbe il più ardente dei suoi roghi e dei suoi altari. L’amore fu disconosciuto, l’amore fu offeso.

Fratelli, chiediamo perdono, facciamo ammenda. Guardiamoci nelle pupille, guardiamoci nei cuori. Ci riconosceremo. Riavremo dentro di noi le stelle, come nelle grandi notti di settembre e di ottobre, quando la città inebriata era a sé stessa il suo proprio cielo.

Quanta frode e quanta violenza intorno a quelle tristi urne che sono , guardate dalle baionette come corpi di delitto!

Fiumani, ora e sempre, una sola è la vostra urna: quella della vostra vecchia insegna, quella della vostra anima eroica, che versa la fede e l’amore inesauribilmente.

A quella sola io e i miei compagni abbiamo bevuto e vogliamo bere.

«La speranza è in fondo» diceva l’antico. E noi diciamo: «In fondo è la vittoria



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