Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'urna inesausta
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ALLE DONNE DI FIUME

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ALLE DONNE DI FIUME

Gli antichi nostri solevano nelle loro giovani imaginazioni trasmutare in gocciole d’incenso le lacrime delle creature che più avevano pianto. Imaginavano che i grandi amori dolorosi, oltre il fato e oltre la morte, seguitassero a piangere di sotto la scorza degli alberi usati a foggiare le fiaccole. Il pianto amaro diveniva essenza ardente. Il chiuso dolore si faceva fuoco; l’amore infelice crosciava in faville; la disperazione rischiarava la notte.

Questo sentimento parlava in me iersera quando io dissi alla folla, che non era se non una larga nobiltà di fronti levate: «Il portatore di fiaccola, quando vede che la fiamma s’arrossa e s’infosca affaticata dalle scorie dell’arsione, la rovescia in giù, la sbatte contro la terra, la calca col tallone, la volge e rivolge; e poi, così disgombrata e ravvivata, la rialza verso il cielo, la tiene alta nel pugno, la squassa nel vento; e la fiamma accresciuta ferve e rugghia, illumina il cammino, mostra la via. Allisa vehementius: con più veemenza arde quando è sbattuta. Non l’abbiamo noi sbattuta sul lastrico la fiaccola di Fiume in questi giorni di cruccio e di lutto? L’abbiamo rovesciata, l’abbiamo schiacciata a colpi di calcagno, l’abbiamo voltata e rivoltata percotendola. Ecco che la risolleviamo più fiammeggiante. Ecco che brucia e crepita, più coraggiosa e più allegra. Ecco che illumina di nuovo la notte, unica spiritualità del mondo. La macchia nera del fumo e delle scorie rimane sul lastrico. Sarà lavata dalla prima pioggia

Donne di Fiume, anche una volta le vostre lacrime fanno a noi la luce e compiono per noi il miracolo. Noi avevamo perduto a un tratto tutto il nostro vigore, perché mostravamo di non credere più al miracolo che soltanto lo spirito può operare.

Come nell’alba e nel mattino del 12 settembre voi eravate chine verso la terra ad ascoltare se giungesse il rombo della nostra marcia, così voi siete rimaste sempre in ascolto di quell’armonia misteriosa e imperiosa che conduce le forze adunate in questa riva angusta per opporsi alla perversione e alla demenza del mondo. Il vostro istinto è più forte e più savio di qualunque ragione. Quando altri misurava le convenienze e pesava i vantaggi, voi sentivate subitamente l’inganno e il pericolo. Quando altri si studiava di difformare o di oscurare la verità, voi non temevate di fissarla coi vostri poveri occhi riarsi in fondo a cui s’aprivano gli occhi divini dell’anima simili agli occhi dei vostri bimbi che pregano senza conoscere le parole della preghiera.

Non siete quelle che della loro fame sfamarono gli affamati d’Italia? quelle che della loro unica coperta ricoprirono gli assiderati d’Italia?

Non siete quelle che si misero carponi sopra le bandiere stese nella via o abbrancarono le ruote delle carrette per impedire quell’altro inganno, per scongiurare quell’altro abbandono, per essere calpestate e schiacciate dalle calcagna fraterne sopra il segno della loro fedeltà?

Avevate l’altrieri, quando v’incontrai, quel medesimo aspetto umile e fiero, quel medesimo piglio gentile e selvaggio; e nel seno affaticato dai singhiozzi la parola virile, la parola che fu il sale di tanti miserabili giorni: Resistere.

E, stando ferme o camminando, sembravate sempre sul punto di gettarvi a terra, di coricarvi su la strada, d’ingombrare il cammino, perché la malvagia sorte si arrestasse o vi passasse sopra.

Dissi una volta: «Il nome di tutte le donne fiumane è Ardenza; il nome di tutte le donne fiumane è Pazienza; il nome di tutte le donne fiumane è Resistenza

Oggi il nome di tutte le donne fiumane è Salvazione.

Nell’ora cupa del perdimento, l’anima poverella e sublime di Fiume l’avete salvata voi.

Siete state ingiuriate per questo, siete state vituperate per questo, siete state derise per questo. Come vi loderò? come vi renderò grazie? come vi darò gloria? La mia poesia ha imitato il vostro atto. S’è abbattuta sul mio cammino perché la mia azione le passasse sopra. Non è più, dietro di me, se non polvere sensibile.

Una di voi, l’altra sera, si accostò timidamente a me e timidamente mi disse che aveva serbato per me un dono marino. Poco dopo mi portò in una custodia un vecchio erbario, e mi chiese perdono d’avere osato offrirmi una cosa di nessun pregio.

Era il più prezioso dono del mondo. Era una serie d’inimitabili prodigi. Erano tutte le alghe del Carnaro raccolte e ordinate come imagini espressive del silenzio abissale. Erano i segni lievi della profondità amara. Erano i segni d’una scrittura occulta, da non poter essere interpretati se non dagli occhi asciutti di un amore che avesse pianto tutte le sue lacrime.

Perché, nello scorrere i fogli stupendi, il mio spirito cercava un’intima rispondenza fra quelle delicate creature del gorgo e le donne che avevo vedute travagliarsi per entro ai flutti del tumulto?

So che quelle della città vecchia si sono spogliate degli orecchini e degli anelli per offrirmi un pugnale dall’elsa d’oro. La povertà fa sempre i più ricchi doni.

Certo la lama sarà temprata nella grande amarezza; e le alghe del Carnaro mi hanno detto dove io la pianterò.

22 decembre 1919.


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