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Soldati d’Italia, miei compagni d’armi e d’anima, oggi si compie un anno mirabile: non l’anno della pace ma l’anno della passione, non l’anno italiano ma l’anno fiumano, non l’anno di Versaglia ma l’anno di Ronchi.
Versaglia vuol dire decrepitezza, infermità, ottusità, dolo, baratto, e ferocia che guarda con gli occhi sbarrati della paura. Ronchi vuol dire giovinezza, bellezza, ardimento, sacrifizio gioioso, mira lontana, novità profonda.
Contro l’Europa che paventa, barcolla e balbetta; contro l’America che non anche riesce a sbarazzarsi della metà d’un mentecatto sopravvissuta alla malattia vendicatrice; contro l’Italia incaporettata che misura e riconosce la convenienza del suo Governo dal giro della rotondità più adatta a ricevere i calci dei nuovi padroni; contro tutti e contro tutto noi abbiamo la gloria di dare il nome a questo anno di fermento e di tormento. Questo è l’anno di Ronchi, questo è l’anno di Fiume, questo è il nostro anno. Questo anno porta la nostra impronta, porta il nostro marchio, che non si può cancellare. Come lo stampo del mattone romano, il nostro è uno stampo di costruttori.
C’è chi da lontano pensa e dice che siamo intenti a distruggere e non a edificare. È un cervello più calloso che il ginocchio di un dromedario; è una lingua più falsa di una banconota jugoslava. E, poiché la passione non ha disseccata in noi la vena del riso, noi ridiamo del sermone cotidiano che ci arriva dall’altra sponda con le navi provvidenziali costrette a cambiare la rotta.
Compagni, a noi come a nessun altro conviene oggi il vecchio titolo latino di legionarii. Come noi, i legionarii di Roma erano combattitori e costruttori. In mezzo a un campo trincerato le legioni edificavano una città marziale; e in ogni arco si sentiva la prominenza del sopracciglio consolare.
In mezzo a questo campo trincerato noi abbiamo posto le fondamenta d’una città di vita, d’una città novissima. E abbiamo conciato le pietre e abbiamo squadrato le travi che affideremo alla generazione sorta dal sacrifizio di sangue e di sudore perché le aduni e le congegni.
L’Italia dei disertori e dei truffatori può ignorare questa maravigliosa novità, o disconoscerla, o deturparla. Essa vige e splende. Ha il vigore e lo splendore d’una quinta stagione sul mondo. È una spontanea stagione latina; è una inaudita armonia latina. Molti di noi non ne hanno una chiara conoscenza ma un sentimento confuso. Nondimeno tutti sentiamo di respirare sopra una cima della terra, e non vogliamo discenderne per non menomarci. Tutti ci sentiamo nuovi; e, quando cantiamo, somigliamo a quei pastori d’Asia che cantando masticavano l’oro del sole come un miele senza sostanza.
Arditi d’Italia, quanto sole novo hanno masticato i vostri denti bianchi, nelle nostre radunate e nelle nostre camminate corali! Misti al popolo schietto, nella libertà dell’arengo, abbiamo sprigionato l’amore sagace dai cuori più duri e più miserabili. Colui che ha un solo occhio ha veduto per tutti gli altri occhi; e tutti gli altri occhi hanno veduto per quell’occhio solo. E colui che è il fratello di tutti ha fatto a sua somiglianza fratelli innumerevoli. E il nome di fratello s’è rinnovellato come un virgulto che fiorisca o fogli; s’è candidato d’innocenza; è ridivenuto la più dolce e la più forte parola del linguaggio umano, una parola di comunione e una parola di coraggio, un legame dell’attimo e un suggello di eternità.
Spalla contro spalla, gomito contro gomito, un volere proteso, una fede compatta, un ardore unanime, e la stessa ansia della ventura, e la stessa passione disperata del destino, e la morte e la vittoria come i due rami di lauro e di quercia intorno alla spada corta dell’Ardito!
Compagni, chi dirà la nostra ebrezza dei grandi giorni e delle grandi notti? Chi mai potrà imitare l’accento delle nostre canzoni e la cadenza dei nostri passi? Quali combattenti marciarono come noi verso l’avvenire?
Tutto ardeva e riardeva, anche la mia malinconia; e non so che indistinta figura subentrasse al mio viso devastato. Ero come il mio compagno di destra, ero come il mio compagno di sinistra; ero come l’alpino, ero come il cannoniere. Mi accordavo con tutti, e tutti si accordavano con me. Altre volte avevo cantato a gara coi vènti e coi flutti, con le fonti e con le selve, e con tutte le creature e con tutti gli spiriti della terra; e non m’ero mai sentito un cuore così vasto e così lieve come cantando in coro con uomini pesantemente calzati. Non eravamo una moltitudine grigia; eravamo un giovine dio che ha rotto la catena foggiata col ferro delle cose avverse e cammina incontro a sé stesso avendo l’erba e la mota appiccate alle calcagna nude.
Eravamo liberi e nuovi. La volontà di rivolta e la volontà di rinnovazione creavano in noi un sentimento di libertà non conosciuto neppure dai più rapidi precursori. Non disobbedivamo a nessuno poiché obbedivamo all’amore. Non prendevamo nulla poiché tutto era nostro. Avevamo versato il nostro sangue ed eravamo pronti a versare il sangue; ma sapevamo che il sangue non avrebbe mai potuto ricadere su noi, simile a quel getto di fontana che salì nell’aria e non ricadde più, confuso coi raggi eccelsi. Abbandonati dalla vittoria, sentivamo di essere vittoriosi. Costringevamo a vincere l’Italia che non voleva aver vinto. Trapiantavamo il fiore della sua vita e il fiore del suo destino in un suolo fatto di duolo, cioè ferace come nessun altro. Non soltanto trasponevamo i confini nel territorio ma li trasponevamo nell’avvenire. Certo avevamo dietro di noi tutti i nostri morti, avevamo dietro di noi tutti i quattordicimila morti del carnaio di Ronchi e i cinquecentomila del Carso e dell’Alpe e delle ripe e delle lagune; ma avevamo davanti a noi i nascituri, più numerosi degli uccisi.
Compagni, lassù, laggiù, a settentrione, a oriente, lo spirito della vita nuova si travaglia nell’orrore. Qui si scrolla nell’ardore, si placa nell’amore.
La novità di vita non è a Odessa, è a Fiume; non è sul Mar Nero, è sul Carnaro.
Non v’è luogo della terra dove l’anima umana sia più libera e più nuova che su questa riva. Compagni, alla fine dell’anno mirabile, celebriamo questa creazione e preserviamo questo privilegio.
Dissi già una volta che, creata dall’amore, una volontà divina conduce le forze adunate in questa riva angusta per opporsi alla perversione e alla demenza del mondo. Nei nostri corpi miseri, nelle nostre anime umili, abitano e operano le forze eterne. E non siamo noi gli artefici della grandezza, ma una grandezza ideale trascende i nostri pensieri e i nostri atti, sovrasta a noi e al mondo. E tutto si compie secondo un’armonia imperiosa, per cui anche la sciagura e la colpa assumono una bellezza necessaria cioè creatrice.
Che valgono dunque, contro una tal volontà, gli smarrimenti e i tradimenti degli scorsi giorni? Se c’è chi preferisce di trattare e di tramare invece di lottare e di perdurare, che importa? Possono i piccoli uomini vanitosi e presuntuosi compromettere una così grande causa?
A rompere tutte le mormorazioni basta un sol grido maschio.
A chi la forza?
A noi!
Ardisco non ordisco. E nella nostra insegna il ragnatelo è rotto dal pugnale, e il nodo è tagliato dalla spada netta.
Così fu ieri. Non altrimenti sarà domani.
Compagni fedeli a me fedele, non conosciamo noi né i trenta denari né la rinnegazione. Domani, al limitare del nuovo anno, prima che il gallo canti, vogliamo balzare tutti in piedi gridando: Credo.