Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le vergini delle rocce
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Libro secondo

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Libro secondo

Grandissima grazia d’ombre e di lumi s’aggiunge ai visi di quelli che seggono sulle porte di quelle abitazioni che sono oscure…

leonardo da vinci

Ebbi un moto di sincera gioia quando riconobbi su la via di Rebursa Oddo e Antonello Montaga che, avendo saputo l’ora del mio arrivo, venivano a incontrarmi. Entrambi mi abbracciarono con effusione, mi diedero tutti i saluti di Trigento, mi rivolsero mille domande a un tempo; sembravano felici di rivedermi, anche più felici quando io espressi il proposito di rimanere nel paese a lungo.

Rimarrai con noi! – esclamò Antonello, come fuori di sé, stringendomi le mani. – Tu sei mandato da Dio, dunque…

Bisogna che tu venga oggi stesso a Trigentodisse Oddo interrompendo il fratello. – Tutti ti aspettano . Bisogna che tu venga oggi stesso…

Mi sembravano entrambi tenuti da un’agitazione strana, quasi febrile; avevano i gesti disordinati e un po’ convulsi, la parola rapida e quasi ansiosa: l’aspetto di due prigionieri infermicci, esciti allora allora dal carcere come da un sogno opprimente, turbati e smarriti e quasi ebri nel primo contatto con la vita estranea. Come più io li guardava, più manifesti mi apparivano nelle loro persone i segni singolari; e cominciavano a darmi pena e inquietudine.

Non so, – risposi – non so se oggi stesso potrò venire. Tante ore di viaggio mi hanno stancato. Ma domani…

Provavo un bisogno vago di star solo, di raccogliermi, di assaporare quella malinconia ch’era caduta su me all’improvviso. I miei occhi cercavano il paese intorno per riconoscerlo. Veniva dalle cose verso di me quasi un’onda di memorie, che la presenza di quei due esseri dolorosi m’impediva di ricevere.

Allora – disse Oddo – verrai domattina a colazione da noi. Consenti?

Sì, verrò.

Tu non puoi imaginare come ti aspettino tutti, laggiù.

Non mi avevate dunque dimenticato.

Oh no! Tu ci avevi dimenticati.

Tu ci avevi dimenticatiripeté Antonello, con un sorriso un po’ convulso. – È giusto. Noi siamo sepolti.

Gli accenti della sua voce mi colpivano più che le sue parole. Un’intensità singolare avevano i suoi accenti, i suoi gesti, i suoi sguardi, tutti i suoi atti, come quelli di un uomo posseduto da un morbo misterioso, tormentato da un’allucinazione continua, vivente in mezzo ad apparenze non percettibili dai sensi altrui. Non mi sfuggiva una specie di sforzo ch’egli faceva come per uscire da un’atmosfera che l’involgesse e per comunicar più da vicino con me. Un tale sforzo dava qualche cosa di contratto e di convulso a tutta la sua persona. La mia pena e la mia inquietudine crescevano.

Tu vedrai la nostra casa – egli soggiunse, con quel medesimo sorriso.

Senza volere, domandai:

Come sta Donna Aldoina?

Ambedue i fratelli chinarono il capo, non risposero.

Si somigliavano. Erano, in fatti, gemelli: ambedue lunghi, magri, un po’ curvi. Avevano gli stessi occhi chiari, la stessa barba rada e fine, le stesse mani pallide nervose e inquiete come quelle delle isteriche. Ma in Antonello i segni della debolezza e del disordine si mostravano più profondi e irreparabili. Egli era perduto.

Nella pausa, invano io cercavo parole. Mi teneva una specie di stupore triste, quasi che su l’anima avessi tutto il peso del corpo stanco. Poiché la strada costeggiava una catena di rocce, il trotto dei cavalli risonando sul terreno duro svegliava gli echi nelle cavità deserte. Alla svolta, apparve nella valle il fiume rilucente per sinuosità innumerevoli. Chiusa nei meandri come un’isola, apparve una massa biancastra di rovine.

Non è Linturno, ? – chiesi io riconoscendo la città morta.

È Linturnorispose Oddo. – Ti ricordi? Una volta ci andammo insieme…

Mi ricordo.

Quanto tempo è passato!

Quanto tempo!

Ora non c’è molta differenza tra Linturno e Trigentodisse Antonello, toccandosi incertamente la barba su la guancia con le dita affilate, mentre i suoi occhi parevano perdere lo sguardo esteriore. – Domani vedrai.

Ma tu lo scoraggi! – interruppe Oddo, con una leggera irritazione. – Domani non verrà.

Verrò, verrò – assicurai, sforzandomi di sorridere e di vincere la mia tristezza medesima che più si chiudeva. – Verrò; e troverò bene il modo di rianimarvi. Mi sembrate un po’ malati di solitudine, un po’ depressi…

Antonello, ch’era seduto di fronte a me, pose una mano sul mio ginocchio chinandosi fino a guardarmi nelle pupille, mentre il suo volto prendeva un’indefinibile espressione di sgomento e di ansietà, come s’egli avesse trovato nelle mie parole un senso spaventoso e volesse interrogarmi. E di nuovo quel suo volto bianco, che mi si avvicinava, pur nella luce diurna mi parve escire da un mondo in cui respirasse solo; mi suscitò l’imagine di quei volti emaciati e spiritali che escono soli dai fondi misteriosi dei quadri sacri anneriti dal tempo e dal fumo dei cèrei.

Non fu se non un attimo. Egli si ritrasse e non parlò.

Ho portato meco i cavalli – io soggiunsi, dominando il mio turbamento. – Faremo grandi cavalcate, ogni giorno. Bisogna muoversi, scuotere la pigrizia e la noia. Come passate voi le ore?

Contandoledisse Oddo.

E le sorelle?

Oh quelle povere creature! – mormorò Oddo con un tremito di tenerezza nella voce. – Massimilla prega; Violante si uccide coi profumi che le manda la Regina; Anatolia… Anatolia è quella che ci fa vivere, è la nostra anima, è per noi tutto.

E il principe?

È molto invecchiato; è diventato interamente bianco.

E Don Ottavio?

Non esce quasi mai dalle sue stanze. Abbiamo quasi dimenticato il suono della sua voce.

E Donna Aldoina? – stavo per chiedere di nuovo, ma mi trattenni; e tacqui.

Eravamo nella valle ondulata del Saurgo, in una conca di tepore.

Com’è precoce qui la primavera! – esclamai, per un bisogno di consolare quei due dolenti e di consolar me medesimo. – In febbraio vedete i primi fiori. Non è già questo un privilegio? Voi non sapete godere delle cose che la vita vi offre. Mutate un giardino in una carcere per torturarvi.

Dove sono i fiori? – domandò, con quel suo sorriso penoso, Antonello.

Cercammo tutt’e tre i fiori con gli occhi, per quella terra fulva e aspra come la giubba del leone, che sembrava fatta per nutrire le piante dall’aspetto arido e tormentato ma datrici d’un opulento frutto.

Eccoli! – gridai con un moto vivo di piacere additando un filare di mandorli su un’eminenza che aveva la forma lunga e nobile di un’onda.

Sono nella tua terradisse Oddo.

Eravamo in fatti nelle vicinanze di Rebursa. La catena rocciosa con le sue cime frastagliate e aguzze piegava a destra, lambita dal Saurgo serpentino, sollevandosi a grado a grado verso il massimo culmine del monte Corace che scintillava al sole come un elmetto. A sinistra della strada il suolo svolgevasi ondulato ad imagine di una spiaggia coperta di larghe dune, trasformandosi poco lungi in una successione di colline fulve e gibbose come i cammelli del deserto.

Guarda, guarda! Un altro filare laggiù! – gridai scorgendo un’altra nube argentea e leggera di fiori. – Non vedi, Antonello?

Egli non tanto guardava i mandorli quanto me, con un sorriso trepido e attonito, meravigliandosi forse della puerile allegrezza che suscitava a un tratto in me la vista dei primi fiori. – Ma qual più lieta accoglienza avrebbe potuto farmi la terra amata da mio padre? Qual più gentile spettacolo di festa avrebbe potuto offrirmi quel robusto paese dalle vertebre di roccia?

Se fossero qui Anatolia, Violante, Massimilla! – esclamò Oddo, a cui s’era comunicata la mia animazione impreveduta. – Ah se fossero qui!

E la sua voce esprimeva il rammarico.

Bisogna condurle sotto i fioridisse Antonello dolcemente.

Guarda quanti! – io seguitai, abbandonandomi al novissimo piacere con più confidenza perché sentivo già di poterne trasfondere almeno una parte in quelle povere anime chiuse. – Sono felice che sieno miei, Oddo.

Bisogna condurle sotto i fioriripeté Antonello dolcemente, come trasognato.

Mi pareva che i suoi occhi febrili si rinfrescassero nella visione di quelle cose pure e che le sue parole piane mescolassero a quelle cose le imagini indistinte delle tre sorelle: «Massimilla prega; Violante si uccide coi profumi; Anatolia è quella che ci fa vivere, è l’anima nostra.»

Ferma! – ordinai al cocchiere, sollevandomi a un tratto, colpito da un pensiero subitaneo che mi fece gioire singolarmente. – Scendiamo; entriamo nel campo. Voglio che portiate a casa un fascio di rami. Sarà una festa, laggiù.

Oddo e Antonello si guardarono un po’ confusi, un po’ sorridenti, quasi timidi, come dinnanzi a un fatto impensato e straordinario che nel tempo medesimo li sbigottisse e li empisse d’una sensazione deliziosa. Essi mi avevano mostrato il loro male, mi avevano rivelata la loro pena, mi avevano parlato del triste carcere ond’erano esciti e dov’erano per rientrare; ed ecco, su la via aperta, io li invitavo a riconoscere e a festeggiare la primavera: la primavera ch’essi avevano dimenticata, ch’essi parevano rivedere per la prima volta dopo lunghi anni e considerare con un misto di temenza e di allegrezza, come un miracolo.

Scendiamo!

Non più io mi sentivo stanco, ma sentivo in me la consueta abondanza di vita e quella elevazione che dànno allo spirito gli atti spontanei di generosità. Io era liberale di me a quei due indigenti, li riscaldavo con la mia fiamma, li abbeveravo col mio vino. Leggevo già nei loro occhi (ed essi mi guardavano quasi di continuo) una specie di sommessione e di dedizione fiduciosa. Essi già mi appartenevano entrambi; ed io poteva esercitare su loro il beneficio e il predominio senza fallire.

Che aspetti? Non discendi? – chiesi ad Antonello che, col piede sul predellino, pareva esitare come davanti a un pericolo.

Egli aveva ancóra quel suo sorriso contratto. Fece uno sforzo visibile nel mettere il piede a terra; vacillò come se nel calcolare l’altezza si fosse ingannato; e i suoi primi passi furono saltellanti e mal fermi. Lo aiutai nel varcare la callaia. Sentendo cedere le zolle, egli si soffermò; e, rivolto agli alberi fioriti, respirò forte, accolse tutta la bella apparenza ne’ suoi occhi chiari, ne rimase quasi abbacinato.

Io gli dissi, toccandogli il braccio:

Tu non ti ricordavi di queste cose.

Oddo, ch’era già entrato nel frutteto, esclamò come ebro:

Ah se Violante fosse qui! Quest’odore val bene le essenze di Maria Sofia.

Antonello ripeté dolcemente:

Bisogna condurle sotto i fiori.

Pareva che il suono di queste parole gli avesse affascinato l’orecchio come una cadenza, fin dalla prima volta. La sua voce nel ripeterle aveva le stesse inflessioni. E io nel riudirle provai non so che turbamento, quasi che mi fossero dirette. Il desiderio di tagliare i rami, ch’era caduto dinnanzi a tanta bellezza vivente, mi risorse; e imaginai in confuso l’arrivo del gran dono primaverile al palazzo lùgubre nel crepuscolo.

Non c’è nessuno nelle vicinanze? – domandai, impaziente.

Un colono sopraggiungeva di corsa. Ansando si curvò e si mise a baciarmi le mani con una specie di furia.

Taglia i più bei rami – io gli dissi.

Era egli un magnifico esemplare della sua specie, degno abitatore di quella roggia terra sparsa di pietre focaie. Mi pareva in vero un superstite dell’antica razza lapidea di Deucalione. Brandì la roncola, e con colpi netti e rapidi si diede a mutilare le felici creature vegetali. Ad ogni colpo cadevano i petali meno tenaci e imbiancavano il suolo.

Guarda! – dissi ad Antonello accostandogli un ramo. – Hai tu mai conosciuta una cosa più delicata e più fresca di questa?

Egli levò la debole mano feminina e toccò con la punta delle dita una corolla. Il suo gesto era quello dell’infermo o del convalescente che tocca una cosa viva con la vaga illusione che essa gli lasci nel contatto qualche piccola parte di vitalità come le farfalle lasciano la polvere labile delle loro ali. Egli si volse al fratello con una malinconia quasi tenera nel suo sorriso penoso:

Vedi, Oddo? Noi avevamo dimenticato, non sapevamo più…

Ma non vivete voi in un giardino? – io domandai meravigliandomi di quel loro stupore e di quella loro commozione innanzi a un semplice ramo di mandorlo come innanzi a una novità inopinata. – Non passate tutti i giorni tra le foglie e i fiori?

Sì, è verorispose Antonello. – Ma io non li vedevo più. E poi questi sono o mi sembrano, io non so, un’altra cosa. Non so dirti l’impressione che mi fanno. Tu non puoi comprendere.

Poiché la roncola risonava ancóra, egli si volse verso il mandorlo che gemeva sotto i colpi. L’uomo, sollevato da terra, stringeva il tronco nella tenaglia delle gambe nerborute, avendo sul capo fosco come quel d’un mulatto la fresca nuvola argentina che tremava al luccichio del ferro adunco.

Digli che cessi! – mi pregò Antonello. – Noi non potremo caricarci di tanti rami.

Vi farò portare dalla carrozza fino a Trigento, col carico.

M’indugiavo tuttora a imaginare l’arrivo del dono primaverile innanzi ai cancelli del parco ove le tre sorelle attendevano. Le loro figure mi balenavano indistinte, pur con qualche lineamento che mi pareva di rinvenire nei ricordi della puerizia e dell’adolescenza. E il desiderio di rivederle, di riudire la loro voce, di ravvivare quei ricordi alla loro presenza, di conoscere il loro male, di mescolarmi alla loro vita ignota mi cresceva a poco a poco e cominciava a prendere l’acutezza di un’inquietudine.

Seguendo il mio pensiero e il mio sentimento (già la carrozza correva verso Rebursa), io dissi:

Un tempo, il parco di Trigento era pieno di giunchiglie e di violette.

Anche oradisse Oddo.

C’erano grandi siepi di bosso.

Ci sono ancóra.

Mi ricordo bene dell’anno che arrivaste da Monaco per rimanere. Massimilla era molto malata. Accompagnavo a Trigento quasi ogni giorno mia madre…

Noi eravamo immersi nella primavera. I rami di mandorlo ingombravano la carrozza: ne avevamo dietro le spalle, ne avevamo su le ginocchia. Il viso così bianco di Antonello m’appariva tra quella bianchezza odorosa più consunto; e la malinconia dei suoi occhi febrili, troppo in contrasto con quella vivente espressione di una gioventù sempre rinnovellata, mi si adunava intorno al cuore.

Peccato che tu non venga oggi a Trigento! – disse Oddo, con un profondo rammarico nella voce. – Mi dispiace di lasciarti.

È veroaggiunse Antonello. – Ti abbiamo riveduto soltanto oggi, dopo anni, dopo anni di silenzio e di dimenticanza; e ora già ci sembra di non poter fare a meno di te.

Essi proferivano le parole affettuose con quella semplicità e con quel candore che conservano gli uomini solitarii, non abituati alle simulazioni della vita comune. Sentivo già ch’essi mi amavano e che io li amavo, e che tra noi la grande lacuna degli anni si colmava a un tratto, e che la loro sorte stava per congiungersi alla mia sorte indissolubilmente. – Perché la mia anima s’inclinava con tanta pena verso quei due vinti, si protendeva con tanto desiderio verso grazie e tristezze intravedute, mostrava tanta impazienza di versare la sua dovizia su quella povertà? Era dunque vero che la lunga e dura disciplina non aveva inaridite in lei le fonti spontanee della commozione e del sogno ma le aveva rese più profonde e più fervide. – Un vapore di poesia si diffondeva per me in quel pomeriggio di febbraio intiepidito dall’alito d’una primavera precoce. Il corso volubile del Saurgo a piè delle rocce plasmate dal fuoco; la città morta nel fiume impaludato; il vertice del Corace sfavillante come un elmetto su una fronte minaccevole; le fulve glebe seminate di selci risvegliatrici delle scintille dormenti; le viti e gli olivi contorti dall’atroce sforzo d’esprimere frutti così ricchi da membra così magre: tutti gli aspetti del paese intorno significavano la potenza dei pensieri nutriti in segreto, il mistero tragico dei destini compiuti, l’energia dolorosa, la constrizione tirannica, la passione superba, ogni più aspra e più rigida virtù della terra solitaria e dell’uomo solo. Pur nondimeno il più mite dei tepori primaverili si raccoglieva nell’austera chiostra; le fioriture argentee dei mandorli coronavano i poggi come le schiume coronano le onde; ai raggi obliqui i declivii qua e prendevano l’apparenza morbida di un velluto disteso; i culmini delle rocce si convertivano in un oro quasi roseo, sul cielo che delicatamente inverdiva. L’influsso della stagione e la magia dell’ora potevano dunque addolcire il duro genio dei luoghi, velare di grazie quella fierezza, temperare quella violenza, versare un lene incantesimo in quel bacino foggiato con arte ignea dalla volontà terribile di un antico vulcano e poi con vece assidua corroso dalla cupidigia o arricchito dalla liberalità di un antico fiume.

Noi ci vedremo assai spesso – io dissi, dopo una pausa rispondendo alle parole buone. – Da Rebursa a Trigento la via è breve. E io so che in voi ho ritrovato due miei fratelli…

Entrambi trasalirono, poiché un guardiano a cavallo oltrepassò di galoppo scaricando in alto la sua carabina per dare il segnale alle salve di saluto e di gioia. Rebursa si levava innanzi a me con le sue quattro torri di pietra, ancor bella e forte, mostrando ancóra intatta l’impronta dell’orgoglio originario, distendendo la sua ombra e la sua dominazione su una gente gagliarda in cui l’obbedienza e la fedeltà si trasmettevano di padre in figlio come caratteri della sostanza vitale.

Ma mi strinse l’anima un’angoscia non provata da lungo tempo quando posi il piede su la soglia cosparsa di mirto e d’alloro, dove nessuna voce cara mi dava il benvenuto chiamandomi per nome. Le imagini dei miei morti mi comparvero a piè della scala e mi fissarono con gli occhi trascolorati, senza un gesto, senza un cenno e senza un sorriso.

Più tardi, seguii con lo sguardo a lungo a lungo su la via di Trigento la carrozza che portava i due tristi malati quasi sepolti sotto i fiori. E la mia anima precorse al cancello del parco dove le tre sorelle attendevanoAnatolia, Violante, Massimilla! –; e le intravide nell’atto di ricevere su le braccia protese il fresco dono della primavera; e cercò di riconoscere i nobili volti a traverso la siepe fragrante, cercò di scoprire la fronte di colei ch’ella avrebbe eletta per l’alleanza necessaria. Il crepuscolo cadendo aumentava quella strana e impreveduta agitazione del desiderio d’amore. Un’ombra azzurra occupava la valle del Saurgo, celava la città morta, ascendeva lentamente su per le aspre gradinate rocciose;

«Se il rigore della tua lunga constrizione non avesse altro compenso che l’ineffabile turbamento a cui t’abbandoni da ieri, già dovresti teco medesimo rallegrarti di tanti sforzi compiuti» mi diceva il demònico, la mattina seguente, cavalcando noi al passo verso il giardino chiuso. «Eccoti alfine maturo! Prima di ieri tu non sapevi che la tua anima fosse giunta a tanta maturità e a tanta pienezza. La felice rivelazione ti viene dal bisogno che provi, subitaneo, di versare la tua dovizia, di spanderla, di prodigarla senza misura. Tu ti senti inesauribile, capace di alimentare mille esistenze. È ben questo il premio dei tuoi assidui sforzi: – ora tu possiedi l’impetuosa fecondità delle terre profondamente lavorate. Goditi dunque la tua primavera; rimani aperto a tutti i soffii; làsciati penetrare da tutti i germi; accogli l’ignoto e l’impreveduto e quanto altro ti recherà l’evento; abolisci ogni divieto. Omai il tuo primo cómpito è fornito. La tua natura, che tu hai resa integra e intensa, ti sia sacra. Rispetta i minimi moti del tuo pensiero e del tuo sentimento perché ella sola li produce. Già che ella ti appartiene tutta quanta, ora tu puoi abbandonarti a lei e gioirne senza limiti. Tutto, ora, ti è permesso: pur quello che odiasti o disprezzasti in altrui: perocché tutto divenga nobile passando a traverso la sincerità della fiamma. Non temere d’esser pietoso, tu che sei forte e che sai imporre il tuo dominio e il tuo castigo. Non avere onta delle tue inquietudini e dei tuoi languori, tu che ti sei fatta una volontà di tempra dura come le spade battute a freddo. Non respingere la dolcezza che t’invade, l’illusione che ti avvolge, la malinconia che ti attira, tutte le cose nuove e indefinibili che oggi tentano la tua anima attonita. Esse non sono se non le vaghe forme del vapore che si sviluppa dalla vita fermentante nelle profondità della tua natura ferace. Accoglile dunque senza sospetto, poiché non ti sono estranee né ti diminuiscono né ti corrompono. Ti appariranno forse domani come le prime annunziatrici velate di una natività che è nei tuoi vóti

Io non ho mai ritrovato di poi un’ora tanto deliziosa e tanto penosa a un tempo. Non so se gli alberi carichi di fiori avessero della lor vitale potenza un senso così pieno come io aveva della mia in quel mattino limpido; ma certo ad essi mancava quella vasta e confusa ansietà in cui s’agitavano innumerevoli affetti e innumerevoli pensieri. Per prolungare la pena e la delizia io tenevo il mio cavallo al passo indugiandomi nella via, quasi che quell’ora dovesse chiudere per sempre una fase della mia intima vita e al mio giungere sul luogo destinato una fase nuova e imprevedibile dovesse aprirsi; di cui era già il presentimento oscuro in fondo alla mia ansietà che non si placava. Ad intervalli il soffio della primavera investendomi d’improvviso col suo susurro e col suo tepore pareva rapirmi in un etere di sogno, abolire in me per qualche attimo la coscienza della persona reale e infondermi l’anima vergine e ardente d’uno di quegli amanti eroi che nelle favole cavalcano verso le Belle addormentate nei boschi. Non cavalcavo anch’io verso le principesse nubili, prigioniere nel giardino chiuso? E non forse ciascuna di loro nel suo cuore segreto aspettava lo Sposo?

Già m’apparivano quali le fingeva il mio desiderio e già l’imagine triplice suscitava dal mio desiderio la prima perplessità. Io mi chiedeva: «Chi sarà l’eletta?», comprendendo in me, nel tempo medesimo, l’allegrezza nuziale dell’una e la sepolcrale tristezza delle altre, sentendo già in me tutti i germi delle inquietudini future, intravedendo già sotto la speranza il rammarico. E di nuovo mi attraversò lo spirito quel timore che una volta mi aveva turbato nel mezzo della mia opera volontaria: il timore delle forze cieche e fatali contro cui qualunque più dura volontà si può infrangere; il timore del turbine fulmineo che in un attimo può avviluppare qualunque più tenace e audace uomo per trascinarlo ben lontano dalla mèta prefissa.

Fermai il cavallo. La via in quel punto era deserta; il palafreniere mi seguiva a distanza. Un silenzio altissimo regnava i luoghi grandiosi e solitarii, rotto a intervalli dal susurro degli oliveti; una luce immobile illuminava tutto egualmente; e nella luce e nel silenzio, dalle èsili foglie alle rocce gigantesche, le cose apparivano disegnate con una nitidezza di contorni quasi cruda.

Spinsi il cavallo al trotto, quasi con veemenza, come se in quel punto un grande atto fosse stato risoluto. E Trigento apparve sul declivio del poggio con le sue case di pietra figliate dalle rocce tutelari. Alla sommità apparve l’antico palazzo col suo giardino murato che discendeva sul declivio opposto sino al piano dando imagine d’un vasto claustro pieno di cose obliate o estinte.

Quando posi il piede a terra, davanti al cancello, udii la voce di Oddo che stava alla vedetta.

Benvenuto, Claudio!

Egli mi corse incontro festoso come la prima volta, con le braccia tese.

Credevo che tu venissi più presto – disse con un tono di rimprovero. – Ti aspetto qui da due ore.

Mi sono indugiato per la viarisposi. – Ho voluto riconoscere gli alberi e i sassi…

Con uno di quei suoi atti repentini e disordinati, misto di curiosità e di timidezza, egli si accostò al mio cavallo e gli palpò il collo.

Com’è bello! – mormorò, mentre sotto la sua mano pallida e gracile il collo dell’animale aveva una rapida vibrazione di sensibilità.

Lo potrai montare quando vorrai – io gli dissi. – Questo o un altro.

Credo che non mi reggerei più in sellarispose. – Credo che avrei paura… Ma vieni! Vieni! Sei aspettato.

E mi condusse su per un viale compreso tra pareti di bosso indebolite dalla vecchiezza, sparse di radure profonde come buche, donde sembravami escissero freschi odori d’invisibili violette, strani come aliti giovenili in bocche deformi.

Ierseradiceva Oddo, un poco in affannoiersera con i tuoi mandorli portammo la gioia… Che provammo quando rimanemmo noi due in fondo a quella carrozza, seppelliti sotto tutti quei fiori! Antonello era come un bambino. Non l’avevo mai veduto così…

A intervalli le pareti verdi s’aprivano in archi scoprendomi allo sguardo lembi di terra erbosa ove qualche lunga ed esigua lista di sole fendeva l’ombra con un taglio netto.

Non l’avevo mai veduto così; non gli avevo mai sentito dire tante parole insensate…

Urne di pietra dai larghi fianchi rotondi si alternavano con statue quasi vestite dai licheni, monche o acèfale, in attitudini che mi parevano eloquenti. E alcune giunchiglie fiorivano presso i loro plinti.

Quando poi arrivammo qui, non potevamo scendere perché i rami c’ingombravano. Le sorelle vennero a liberarci. Come erano felici! Risalirono cariche. Le sentivamo ridere su per le scalee. Tutte cose nuove, Claudio, per noi.

Mi giungeva all’orecchio una voce soffocata; che era il chioccolìo sommesso d’una fontana nascosta nella vicinanza. E un’ansietà indefinibile mi premeva il cuore.

Tutta la sera abbiamo parlato di te, ricordato tante cose del tempo lontano, fatto anche qualche sogno per l’avvenire. Chi avrebbe mai potuto imaginare il tuo ritorno? Ma nessuno di noi crede ancóra che tu rimanga… Ci sembra che, dopo qualche giorno, tu debba fuggire. Non è facile resistere a questa nostra vita. Massimilla, vedi, preferisce il monastero… Non sai che Massimilla sta per lasciarci?

Come io saliva rasente la parete vegetale, un forte sentore d’amarezza mi prendeva le nari emanato dalle piccole foglie nuove del bosso che brillavano in guisa di berilli tra il verde opaco.

Ah, ecco Violante! – esclamò Oddo toccandomi il braccio.

L’apparizione improvvisa mi diede un gran palpito; e sentii che il mio volto si colorava.

Ella era sotto un alto arco di bosso, con i piedi nell’erba; e un lembo di prato per l’apertura si dileguava, in liste d’oro, dietro la sua persona.

Sorrideva senza avanzare, attendendo che noi le giungessimo da presso; e pareva ch’ella offrisse al mio sguardo attonito la sua bellezza intera in quell’attitudine calma, su quella soglia verde ove forse le sue dita avevano reciso le numerose viole che le ornavano la cintura. Mi tese la mano guardandomi in volto, e mi disse con una voce che era la perfetta espressione musicale della forma onde esciva:

Siate il benvenuto. Noi vi aspettavamo già da ieri. Oddo e Antonello ci portarono invece il vostro dono, che non fu meno gradito.

Io le dissi:

Rientro nel vostro dominio dopo molti anni ricordandomi che ci venni la prima volta accompagnando mia madre, e già provo il rammarico d’esserne rimasto troppo tempo lontano. Partendo da Roma io sapevo che avrei trovato a Rebursa una casa vuota ma non sapevo che Trigento mi avrebbe compensato con tanta larghezza. Io vi debbo molta riconoscenza…

Vi dovremo noi riconoscenza – ella interruppe – se non vi parrà grave la nostra compagnia. Voi sapete che questo luogo è senza gioia.

Anche la tristezza ha la sua bontà per chi la sa gustare, non è vero?

Forse.

E poi, veramente, da che ho oltrepassato il cancello, io non ho qui se non sensazioni squisite. Questo grande giardino mi sembra delizioso. Come si può non sentire la poesia della sua vecchiezza? Ieri, quando vidi Oddo e Antonello pieni di meraviglia davanti a quei mandorli come se non avessero mai guardato un albero fiorito, pensai che qui tutto fosse arido e morto. Invece trovo qui dentro una primavera più dolce di quella che ho lasciata fuori. Non vi siete voi forse stancata a cogliere le mammole nell’erba? Ne avete carica la cintura!

Ella sorrise abbassando gli occhi sul suo fianco e toccando con le sue dita nude le viole che l’ornavano.

Voi venite dalla città – ella disse con quella sua voce sonora ma pur velata, in cui la ricchezza del timbro era un poco spenta come da un’incrinatura esilissima – voi venite dalla città e la campagna vi le sue primizie.

Non so; ma certe cose debbono sembrar sempre nuove.

Noi non le vediamo e non le amiamo più, certe cosedisse Oddo con malinconia. – Forse Violante non sente l’odore dei fiori che coglie.

È vero? – le chiesi volgendomi verso di lei, incontrando con gli occhi il suo profilo marmoreo reclinato sotto la capellatura voluminosa e divenuto impassibile come quello delle statue immortali.

Che cosa? – ella domandò, in atto di chi torni da un’assenza, non avendo udito le parole del fratello.

Dice Oddo che voi non sentite l’odore dei fiori che cogliete. È vero?

Un tenue rossore le colorì il sommo delle gote.

Oh no! – rispose con una vivacità che contrastava i ritmi lenti cui pareva sottomessa la sua vita. – Non credete a Oddo. Egli dice così perché io amo i profumi acuti; ma sento anche i più deboli, sento anche quelli delle pietre…

Delle pietre? – fece Oddo ridendo.

Che sai tu, Oddo? Taci.

Eravamo su per le grandi scalee coperte di pergole, salienti in ordinanza simmetrica verso il palazzo; ed ella ascendeva tra noi due, con lentezza, di grado in grado. Poiché i gradi erano assai larghi, ella su ciascuno faceva un passo e si soffermava un istante prima di sollevare il piede sul rialto, successivamente; e la vicenda voleva ch’ella sollevasse sempre il medesimo piede. Affaticata dalla frequenza dell’atto, ella abbandonava alquanto il busto su la flessione del ginocchio rilasciando la volontà orgogliosa che pur dianzi ergeva la sua figura a similitudine del perfetto stelo. Una mollezza impreveduta ondeggiava allora nel corpo superbo; un ritmo nuovo ne rivelava le grazie quasi direi obbedienti, le virtù pieghevoli di amore. Così forte era il potere emanato da quella creatura bella che io non sapevo distrarre i miei occhi dai suoi moti; e mi trattenevo indietro per circondarla col mio sguardo intera. E io pensava, guardandola, salendo dietro la sua traccia: «È giusto ch’ella rimanga intatta. Ella non potrebbe essere posseduta senza onta se non da un dio.» E, mentre il suo capo sovrano passava nella luce come in un elemento natale, io sentivo che la sua bellezza era per attingere la perfezione della maturità, l’ora breve del massimo pregio; e ringraziavo la fortuna d’avermi concesso un tanto spettacolo. «Ah io l’adorerò ma non oserò amarla; non oserò guardare nella sua anima per sorprendere il suo segreto. Pure ogni suo moto rivela ch’ella è fatta per l’amore; ma per l’amore sterile, per la voluttà che non crea. Giammai le sue viscere porteranno il peso difformante; giammai l’onda del latte sforzerà il puro contorno del suo seno

Ella si arrestò impaziente dello sforzo, un poco anelante; e disse:

Come affaticano questi gradi! Facciamo una sosta qui, se non vi dispiace.

Antonello e Anatolia scendonoavvertì Oddo scorgendo i due vegnenti a traverso l’intrico della pergola nella scalea superiore. – Aspettiamoli.

Veniva verso di noi quella che m’era stata rappresentata come la datrice di forza, la vergine benefica e possente, l’anima ricca e prodiga. Ella già appariva come un sostegno, poiché Antonello teneva il suo braccio sotto il braccio di lei misurando il suo passo incerto su la cadenza di quel passo sicuro.

Di quale fra noi – mi domandò Violante all’improvviso ma con un accento leggero che toglieva alla domanda ogni senso indiscreto – di quale tra noi avevate un ricordo meno confuso?

Esitai un istante.

Non saprei dirvelorisposi incerto, mentre il mio orecchio si tendeva al fruscio della veste di Anatolia. – Ma, senza dubbio, le figure del mio ricordo non hanno quasi nulla di comune con la realtà presente. Dal giorno che io mi allontanai, si è svolto per noi quel periodo della vita in cui le trasformazioni sono più rapide e più profonde…

I due già sopraggiungevano. Anche Anatolia disse, tendendomi la mano:

Siate il benvenuto.

E il suo gesto aveva una franchezza virile; e la sua mano nel contatto parve comunicarmi quasi direi un senso di forza generosa e di bontà efficace, parve d’improvviso infondere nel mio spirito una specie di confidenza fraterna.

Era una mano spoglia di anelli, non troppo bianca, né troppo allungata, ma robusta nella sua forma pura, atta a raccogliere e a sostenere, pieghevole e ferma nel tempo medesimo, con un’impronta di fierezza sul dosso variato dai rilievi delle congiunture e dalle trame delle vene, con solchi di dolcezza nella palma concava e tiepida dove pareva risiedere un focolare irradiante di sensibilità.

Siate il benvenutodisse la calda voce cordiale. – Voi ci portate da Roma il sole e la primavera…

Oh no! – interruppi. – Io trovo qui l’uno e l’altra. A Roma ho lasciato la nebbia e molte simili cose grige. Esprimevo dianzi il rammarico d’esser rimasto troppo tempo lontano.

Tu dovrai dunque compensarci della dimenticanza – fece Antonello, con quel suo sorriso penoso.

Come trovate Trigento? – mi domandò Anatolia. – Quasi in nulla mutato; è vero? Voi venivate qui con vostra madre… Ve ne ricordate bene; è vero? Noi non avremmo potuto dimenticarlo; né potremo mai. Troverete qui, tra le cose rimaste intatte, la memoria della santa anima, di quella immensa bontà.

Un silenzio grave seguì le sue parole evocatrici. Per qualche attimo il sentimento della morte, addensatosi intorno al mio cuore filiale, diede anche agli esseri e alle cose presenti un aspetto d’inesistenza. Mi parve, per qualche attimo, che tutto divenisse lontano e vacuo non meno di quel cielo ch’io vedevo impallidire a traverso le nude viti della pergola simili a una rete lógora. Ma nel dileguarsi dell’illusione breve, mi sentii più avvicinato a colei che l’aveva prodotta; e mi sentii incapace di disperdermi ancóra in parole oziose, provando il bisogno di penetrare nella verità di quella tristezza.

E Donna Aldoina? – chiesi a voce bassa, rivolto verso Anatolia, comunicando ora con lei sola.

Non era ella forse la vera custode dell’abitazione oscura? Evocando la morta, non aveva ella medesima suscitato l’imagine della demente?

È rimasta così, sempre – rispose, a voce bassa anch’ella. – Meglio per voi non vederla, almeno per oggi. Vi farebbe troppa pena. E per noi, imaginate!, è il supplizio di tutti i giorni; un supplizio che dura da anni, senza tregua, disfacendoci l’anima…

I suoi occhi in un batter di palpebre gittarono ad Antonello uno sguardo furtivo, dove io potei leggere il segreto terrore che le ispirava il povero infermo pericolante su l’orlo dell’abisso.

Non abbiamo mai avuto il coraggio di separarcene, di allontanarla, – soggiunse – perché non è violenta; anzi è dolce. Qualche volta sembra guarita, ci quasi l’illusione d’un miracolo; ci chiama per nome, si ricorda d’un piccolo fatto lontano, ha il sorriso calmo. Benché sappiamo oramai che tutto questo è un inganno, pure ogni volta la speranza ci fa palpitare, ogni volta l’ansietà ci soffoca. Voi comprendete…

La sua voce nel dolore perdeva il suono come una corda che s’allenti.

Non è possibile confinarla nelle sue stanze, tenerla chiusa; non è possibile. Né abbiamo cuore di sfuggirla quando si mostra, quando ci viene incontro, quando ci parla. Così, quasi di continuo, vive al nostro fianco, si mescola alla nostra esistenza…

Certi giorniinterruppe d’improvviso Antonello, quasi con impeto, come spinto da un’eccitazione infrenabile – certi giorni tutta la casa è piena di lei. Noi respiriamo la sua follia. Qualcuno di noi rimane ore ed ore a sentirla parlare, seduto di fronte a lei seduta, con le mani imprigionate in quelle mani che tremano… Comprendi?

Un nuovo silenzio, più grave, cadde su noi tutti. E ciascuno di noi soffriva riconoscendo in sé la realtà del dolore che le èsili ombre azzurrine della pergola miste all’oro docile del sole involgevano come in un velario di sogno. S’udiva nel silenzio il suono d’un passo leggero che s’avvicinava su per le scalee di sotto. S’udiva a intervalli eguali uno scroscio sordo come d’un bacino che trabocchi. Una vibrazione misteriosa pareva salire dal giardino solitario. E io compresi come l’anima debole e triste potesse con quelle apparenze comporre il fantasma d’una vita innaturale e alimentarlo di sé e restarne sopraffatta.

Così, subitamente, mi si rivelava nella sua atrocità il supplizio a cui il Destino aveva condannato quegli ultimi superstiti d’una stirpe caduta; e la figura evocata dalle parole d’una vittima certa mi appariva ingigantita sotto una luce tragica. Io vedeva nella mia imaginazione la vecchia principessa demente, seduta nell’ombra di una stanza remota, e uno de’ suoi figli chino verso di lei, con le mani imprigionate nelle mani materne. L’atto della lùgubre fascinatrice mi sembrava fatale e inesorabile. Mi sembrava ch’ella dovesse inconsciamente attrarre nella sua follia tutte le creature del suo sangue, l’una dopo l’altra, e che nessuna di loro potesse sottrarsi alla volontà cieca e crudele. Simile a una Erinni familiare, ella presiedeva alla dissoluzione della sua progenie.

Allora, a traverso l’arido intrico, guardai in alto il palazzo silenzioso che nella sua oscura profondità aveva chiuso sino a quel giorno tanta angoscia disperata e aveva nascosto tante lacrime inutili: – lacrime espresse da occhi puri e ardenti, degni di riflettere i più superbi spettacoli del mondo e di versare la gioia in anime di poeti e di dominatori.

«Occhi della Bellezzapensai riconducendo il mio sguardo verso Violante immobile. «Quale miseria terrena può velare lo splendore della verità che in voi riluce? Quale anima afflitta può disconoscere la virtù consolatrice che da voi fluisce?» La mia sofferenza cessava subitamente come per il potere di un balsamo; le imagini torbide si dileguavano come un tristo vapore.

Ella era immobile, seduta su un plinto di pietra che un tempo aveva forse sostenuto un’urna. Poggiato il gomito sul ginocchio, ella si reggeva il mento con la palma; e tutta la sua figura nell’attitudine semplice mi offriva quella successione di mute cadenze in cui è il segreto dell’arte suprema. Anche una volta io la considerai presente e pur discosta. Su la sua fronte breve era visibile il riflesso della corona ideale ch’ella portava in sommo de’ suoi pensieri; e i suoi capelli, costretti su la nuca in un gran nodo, parevano avere obbedito al ritmo che regola i riposi del mare.

Massimilladisse Oddo annunziando la terza sorella.

Io mi volsi e la vidi già prossima. Ella saliva gli ultimi gradi, col suo passo lieve, recando sul volto e in tutta la persona i vestigi del sogno in cui s’era immersa, l’intima poesia dell’ora trascorsa con un libro fedele nella solitudine d’un recesso noto a lei sola.

Dove sei stata? – le chiese Oddo, prima ch’ella giungesse fino a noi.

Ella sorrise con timidezza; e una tenue fiamma le tinse le gote ondulate.

Laggiùrispose – a leggere.

La sua voce era liquida e argentina tra le labbra esigue. Il suo libro aveva per segnale tra le pagine un filo d’erba.

Come io m’inchinai, ella mi porse la mano continuando il suo sorriso timido. E parve risvegliare in fondo alla mia anima qualche cosa di quella tenera compassione da me provata nel tempo lontano verso la piccola inferma visitata da mia madre; poiché la sua mano era tanto gracile e soave che mi diede imagine d’uno di quei fini gigli, chiamati emerocàli, fiorenti per un giorno nelle arene calde.

Com’ella non mi parlò, anch’io non seppi trovare le delicate parole che convenivano alla sua pavida grazia di ermellino.

Vogliamo dunque salire? – disse Anatolia volgendosi a me e rompendo con la sua voce chiara quella specie d’incantamento inerte che nel tepore della pergola i nostri pensieri e le nostre malinconie non esprimibili avevano formato vaporando. – Nostro padre ha molto desiderio di rivedervi.

E riprendemmo insieme a salire per le scalee verso il palazzo.

Le tre sorelle ci precedevano, l’una discosta dall’altra, prima Anatolia, Massimilla ultima, proferendo alcune parole, alternativamente, poiché il silenzio delle cose chiedeva il suono delle loro voci ed esse credevano forse dissipare di sul capo dell’ospite la tristezza del silenzio. Quelle brevi onde sonore, sgorgando dalle labbra che io non vedevo, dichinavano investendomi; e io salivo quindi nelle voci e nelle ombre virginee, come nelle parvenze d’un prestigio, mi dicevano una medesima verità. E Violante e Massimilla e Anatolia si trasfiguravano nella mia mente per virtù di analogie misteriose.

«O belle anime,» io pensava, misurando i ritmi della loro esistenza visibile «nella vostra trinità non è forse la perfezione dell’amore umano? Voi siete la forma triplice che finse il mio desiderio nell’ora della grande armonia. In voi tutti i bisogni della mia carne e del mio spirito più altieri potrebbero appagarsi; e, per l’opera ch’io debbo compiere, voi potreste divenire gli strumenti meravigliosi delle mie volontà e dei miei destini. Non siete voi quali io vi avrei create per ornare di una bellezza e di un dolore sublimi il mondo occulto di cui sono l’artefice infaticabile? Oggi non conosco di voi se non le sembianze e qualche parola fugace; ma sento che domani ciascuna di voi in tutto il suo essere corrisponderà all’imagine che dentro di me respira e palpita

Così le tre sorelle salivano nella mia aspirazione e nella mia preghiera, ciascuna obbedendo alla musica segreta che conduceva la sua vita verso il termine incognito. E le loro figure gettavano su la pietra grandi ombre.

Quando posi il piede su la soglia, l’imagine fantastica della demente mi riapparve così viva e così fiera ch’io n’ebbi un segreto brivido. Tutto il luogo mi sembrò tenuto dalla sua dominazione sinistra, attristato e atterrito dalla sua onnipresenza. Mi sembrò di leggere nel volto dei figli la mia stessa inquietudine. E pensai che l’avremmo trovata in cima della scala ad aspettarci.

Indovinando il mio pensiero, Anatolia mi disse piano, per rassicurarmi:

Non vorrei che temeste… Voi non la vedrete… Ho potuto fare in modo che non la vediate, in queste ore almeno… Cercate di non pensarci, perché non vi sembri troppo triste la nostra ospitalità.

Antonello guardava su per le vetrate delle logge che circondavano il cortile, vigilando con quei suoi occhi inquieti su cui palpitavano di continuo i cigli.

Vedi l’erba? – esclamò Oddo, indicandomi il verde che cresceva lungo i muri, negli interstizii delle lastre.

Segno e augurio di pace – io dissi, cercando di scuotere da me l’oppressura e di risollevarmi. – Mi dispiacque di non trovarla ieri nel mio cortile. L’avevano tolta, mentre io l’avrei preferita alle foglie festive del mirto e del lauro. Bisogna lasciar crescere l’erba, specialmente nelle case troppo grandi. È una cosa viva di più.

Il cortile era sonoro come una navata; e gli echi vi erano pronti a raccogliere pur le parole sommesse. Guardando la fontana muta, pensai le musiche misteriose a cui l’acqua avrebbe potuto invitare quegli echi attenti e favorevoli.

Perché la fontana tace? – domandai, volendo cogliere tutte le occasioni per sostenere la causa della vita in quel claustro pieno di cose obliate o estinte. – Dianzi, su per la scalea, ho sentito correre l’acqua.

Rivolgetevi ad Antonellodisse Violante. – Egli ha imposto il silenzio.

Il povero infermo si colorò lievemente nel volto e s’intorbidò negli occhi come chi sia per cedere a un impeto d’ira. Quasi pareva che la denunzia innocua di Violante gli facesse onta e dolore o che riaprisse una disputa già composta. Si contenne; ma il dispetto gli alterò la voce.

Imagina, Claudio, che le mie stanze sono proprio disse, indicando un lato della loggia – e che di si sente la fontana scrosciare come una cascata. Imagina! Un rumore che toglie il senno: incredibile. Già, non senti che rimbombo ha la voce qui? Di giorno!

In tutto il suo corpo lungo e scarno vibrava l’avversione contro lo strepito, l’orrore nervoso, l’aborrimento invincibile di cui egli mi aveva già dato i segni il giorno innanzi nell’udire i colpi delle carabine e le grida umane.

Ma vorrei che tu sentissi, di notteseguitò eccitandosi. – Vorrei che tu sentissi! L’acqua non è più l’acqua; diventa un’anima perduta che urla, che ride, che singhiozza, che balbetta, che sbeffa, che si lagna, che chiama, che comanda. Incredibile! Qualche volta, nell’insonnio, ascoltando, ho dimenticato che fosse l’acqua; e non ho potuto più ricordarmene… Intendi?

Egli s’arrestò d’un tratto, con uno sforzo palese per dominarsi; e guardò Anatolia, smarritamente. La pena che contraeva il volto di lei scomparve sotto quello sguardo, s’internò, si nascose. Ed ella, come per dissipare il malessere che ci teneva tutti, disse con un’aria quasi gaia:

Veramente, Antonello non esagera. Volete che evochiamo l’anima perduta? È facile.

Eravamo tutti , presso la fontana arida. La sosta imprevista e le parole e l’aspetto del tormentato e la solennità del luogo chiuso e la freddezza argentina della luce che vi pioveva dall’alto e l’imminenza della metamorfosi parevano conferire a quella vecchia cosa inerte quasi il mistero d’un’opera di magia. La mole marmoreacomponimento pomposo di cavalli nettunii, di tritoni, di delfini e di conche in triplice ordinesorgeva innanzi a noi coperta di croste grigiastre e di licheni disseccati, biancheggiante qua e come il tronco del gàttice; e le sue molte bocche umane e bestiali parevano quasi aver conservato nel silenzio l’attitudine della liquida voce ultimamente prodotta.

Scostatevisoggiunse Anatolia chinandosi verso un disco di bronzo che chiudeva un’apertura circolare nel lastrico presso il margine del bacino inferiore. – Do l’acqua.

Ed ella mise le dita nell’anello che sporgeva dal centro del disco e tentò di sollevare il peso; ma, non riuscendo, si rialzò invermigliata nel volto dallo sforzo. Come io le venni in aiuto ed apersi, ella di nuovo si chinò e di sua mano ritrovò il congegno nascosto. Indietreggiammo entrambi, con un moto concorde, mentre s’udiva già borbogliare l’acqua saliente su per le vene della fontana esanime.

E fu un attimo di aspettazione ansiosa, quasi che le bocche dei mostri dovessero dare un responso. Involontariamente io imaginai la voluttà della pietra invasa dalla fresca e fluida vita; finsi in me medesimo l’impossibile brivido.

Le bùccine dei tritoni soffiavano, le fauci dei delfini gorgogliavano. Dalla sommità uno zampillo eruppe sibilando, lucido e rapido come un colpo di stocco vibrato contro l’azzurro; si franse, si ritrasse, esitò, risorse più diritto e più forte; si mantenne alto nell’aria, si fece adamantino, divenne uno stelo, parve fiorire. Uno strepito breve e netto come lo schiocco d’una frusta echeggiò da prima nel chiuso; poi fu come uno scroscio di risa poderose, fu come uno scoppio di applausi, fu come un rovescio di pioggia. Tutte le bocche diedero i loro getti, che si curvarono in arco a riempire le conche sottoposte. La pietra bagnandosi qua e si copriva di macchie oscure, luccicava nelle parti levigate, si rigava di rivoli sempre più spessi: – infine gioì tutta quanta al contatto dell’acqua, parve aprire alle gocce innumerevoli tutti i suoi pori, si ravvivò come un albero beneficato da una nube. Rapidamente le cavità più anguste si riempirono, traboccarono, composero corone argentee di continuo distrutte, di continuo rinnovellate. Come si moltiplicavano i giochi istantanei giù per la diversità delle sculture, crescevano i suoni ininterrotti formando una musica sempre più profonda nel grande echéggio delle pareti. Gagliardi, su la volubile sinfonia dell’acqua cadente nell’acqua, dominavano gli scrosci e gli schianti dello zampillo centrale che frangeva contro le cervici dei tritoni i fiori miracolosi fiorenti d’attimo in attimo alla cima del suo stelo.

Senti? – esclamò Antonello che guardava quel trionfo con occhi di nemico. – Ti sembra tollerabile a lungo, questo frastuono?

Ah, io starei ore e giorni ad ascoltareparvemi dicesse Violante mettendo su la sua voce un velo più grave. – Nessuna musica vale questa, per me.

Ella era rimasta tanto vicina alla fontana che riceveva su la persona gli spruzzi dei getti, e aveva già i capelli sparsi d’un pulviscolo lucente. Il potere della sua bellezza anche una volta escludeva dal mio spirito qualunque pensiero estraneo, qualunque imagine discordante. Anche una volta ella m’appariva isolata e intangibile, fuori della vita comune, piuttosto simile a una finzione dell’arte che a una creatura di nostra specie. Tutte le cose intorno riconoscevano la sovranità della sua presenza poiché tutte si riferivano e si sottomettevano e si accordavano alla sua bellezza. Come già il grande arco verde ch’erasi incurvato su lei nel primo apparire, come già l’antico plinto che l’aveva sostenuta, quel sonoro vase aperto verso il cielo sembrava creato per lei sola, sembrava rispondere perfettamente all’armonia ideale ch’ella effettuava con la sua semplice attitudine. Segrete affinità, non intelligibili, congiungevano al suo essere le cose più diverse, rapportavano i circostanti misteri al suo mistero. Poiché la natura aveva manifestato per mezzo di tal forma umana una sua idea di perfezione somma, sembravami che ogni altra idea racchiusa in ogni altro naturale involucro dovesse necessariamente servire come un segno per condurre lo spirito del contemplatore a comprender quella altissima ed unica. Onde avvenne che, considerando la vergine presso la fontana, io trovassi e cogliessi una pura verità. «Quando la Bellezza si mostra, tutte le essenze della vita convergono in lei come in un centro; ed ella ha quindi per tributario l’intero Universo

Una delle nostre pene – mi diceva Oddo mentre salivamo per l’amplissima scala balaustrata sul cui silenzio gli svolazzi e i nuvoli delle allegorie secentesche simulavano la furia d’una bufera – una delle nostre pene è questo spazio; che ci una specie di smarrimento continuo e quasi un senso di diminuzione umiliante…

Troppo ampio e troppo vacuo era in fatti l’edificio. Restaurato nel secolo xvii e da ròcca feudale trasformato in villa di delizia, conservava tuttavia l’enormità formidabile delle sue mura e delle sue volte su cui le epoche successive avevano lasciato impronte varie di arte e di lusso talora in contrasto e talora sovrapposte. Il gran numero degli specchi, ond’erano coperte intere pareti, moltiplicava lo spazio all’infinito. E nulla era più triste di quei pallidi abissi illusorii che sembravano schiudersi in un mondo soprannaturale e allo sguardo dei viventi promettere d’attimo in attimo apparizioni funeree.

Claudio, figliuolo mio! – esclamò con voce commossa il principe Luzio, appena mi vide, venendomi incontro. – Caro, caro figliuolo!

Sentii tremare quel vecchio corpo esausto, quando egli mi abbracciò e mi baciò in fronte con atto paterno. Tenendo ancóra una mano su la mia spalla, egli mi fissò poi lungamente in volto come trasognato mentre nell’azzurro cinereo dei suoi occhi indeboliti passava un’onda di memorie, di cordogli e di rimpianti.

Come rammenti tuo padre! – soggiunse con la voce sempre più affettuosa, comunicandomi la sua commozione. – È una somiglianza incredibile. Mi pare di rivedere Massenzio nella sua gioventù, quand’eravamo compagni nei Cavalleggieri della Guardia… Mi pare di rivederlo vivo. Come gli somigli, figliuolo mio!

Egli mi prese per la mano e mi condusse verso la finestra, quasi volesse appartarsi con me e attrarmi nella evocazione delle cose lontane.

Come gli somigli! – ripeté quando il mio volto gli apparve alla chiara luce. – Oh se l’anima benedetta vivesse ancóra! Non doveva morire, mio Dio, non doveva morire.

Egli scoteva il capo, in atto di rammarico, verso il fantasma di quella bellissima vita troppo presto recisa. E tanta era la sincerità del suo affetto che io ne fui penetrato sin nel fondo dell’anima; e non più mi sentii estraneo in quella casa dove io ritrovavo la memoria dei miei morti conservata così puramente.

Guardasoggiunse il principe sfiorando con le dita i fili estremi della sua barba candida e sorridendo d’un sorriso in cui travidi un che della nobile dolcezza di Anatoliaguarda come sono invecchiato!

Egli mostrava in tutta la persona un accasciamento penoso, ma lo splendore della canizie precoce conferiva alla sua testa una maestà veneranda; e nella fronte egli portava ancor vivida la nota ereditaria della sua stirpe dominatrice. Le sue mani, quasi per miracolo, non avevano sofferto alcuna ingiuria dalla malattia e dalla vecchiezza, non mostravano alcuna deformazione senile. S’erano conservate belle e pure, come rese inalterabili da un balsamo, quelle prodighe mani con cui il signore munifico aveva dissipato la ricchezza su la via dell’esilio per mantener più a lungo negli occhi del suo Re un riflesso della regalità caduta. E quasi a memoria dei tesori profusi risplendeva su l’anulare un cammeo.

Quelle mani con i loro gesti lenti, mentre il torpido sangue si ravvivava al calore dei ricordi, parevano trarre da una zona d’ombra qualche lembo d’un mondo estinto; e tale officio le rendeva agli occhi del mio spirito più singolari. Quando il vecchio essendo seduto le posò lungo i bracciuoli, entrambe mi divennero simili a reliquie e io le considerai con un sentimento sconosciuto di rispetto quasi superstizioso. Esse fecero sì che in quell’ora io mi credessi di vivere nella mia poesia e non nella realtà degli atti, indicibilmente.

Poiché il mio sguardo restava fisso nella gemma effigiata, il principe sorrise dicendo:

È il ritratto di Violante.

E si tolse l’anello, e me lo porse.

L’opera sottile era d’artefice antico, non indegna di Pirgotele o di Dioscoride; ma il divino lineamento medusèo, rilevato sul campo sanguigno del sardonio, corrispondeva con tanta perfezione alla sembianza della creatura superba che io pensai: «Veramente ella dunque illuminò l’arte delle età scomparse e da tempo immemorabile conferì alle materie durevoli il privilegio di perpetuare l’Idea ch’ella oggi incarna

La madre, quando incinse di lei, portava quest’anellosoggiunse il principe col medesimo sorriso dolce – e lo guardava sempre.

Per tali modi, a ogni momento, le concordanze delle cose ponevano il mio spirito in uno stato ideale che s’avvicinava allo stato del sogno e della prescienza pur senza attingerlo, porgendo esse una materia armonica alla mia sensibilità e alla mia imaginazione. E io assistevo in me medesimo alla continua genesi d’una vita superiore in cui tutte le apparenze si trasfiguravano come nella virtù di un magico specchio.

Le tre elette creature parevano illuminarsi e oscurarsi vicendevolmente; e le ombre e i lumi avevano in loro le significazioni d’un linguaggio che io già interpretavo con una straordinaria lucidità come se da gran tempo mi fosse familiare. Onde io rimasi abbagliato non solo dai riverberi della roccia ma anche dai baleni confusi del mio pensiero percosso, quando Violante avvicinandosi a una finestra aperta mi mostrò uno spettacolo ch’ella avrebbe potuto creare con un gesto e mi disse:

Guardate.

Era una finestra rivolta a settentrione, nella faccia del palazzo opposta al giardino; ed era spalancata su una voragine. Come mi sporsi, una specie di vibrazione impetuosa mi attraversò tutto l’essere esaltandolo d’improvviso al sentimento d’una grandezza muta e terribile.

«È forse questo il vostro segreto?» io chiesi alla rivelatrice; ma senza parole, tanto al suo fianco sembravami parlante il silenzio.

Il dirupo scendeva quasi a picco, sotto i contrafforti massicci da cui era munita la muraglia settentrionale, profondandosi fino a un aspro alveo biancastro che pur nella sua aridità minacciava le rovinose collere del torrente. Con la stessa violenza atroce e disperata con cui i fiumi di lava discesi al mare siciliano rimbalzarono si drizzarono si contorsero neri e rossi stridendo ruggendo fischiando al primo contatto dell’acqua, con la stessa violenza la roccia dalla bassura dell’alveo si rialzava e si scagliava contro il cielo opponendo alla muraglia costruita dagli uomini una massa gigantesca travagliata da un muto furore. Tutte le più crude convulsioni e contrazioni dei corpi posseduti da energie demoniache o da spasimi letali, tutte parevano fisse in quella compagine orrida come la balza ove Dante ebbe l’indizio dei nuovi martirii prima di giungere alla riviera del sangue custodita dai Centauri. Tutti i modi delle materie pieghevoli e scorrevoli vi parevano finti a contrasto del duro sasso: i cirri delle capellature ribelli, i viluppi delle serpi azzuffate, gli intrichi delle radici divelte, gli avvolgimenti delle viscere, i fasci dei muscoli, i circoli dei gorghi, le pieghe delle tuniche, i rotoli delle funi. Il fantasma d’una turbolenza frenetica si levava da quella immobilità perfetta a cui il meriggio toglieva qualunque ombra. La palpitazione d’una febbre veemente sembrava compressa dalla crosta inerte.

«È questo il vostro segreto?» io ripetei alla rivelatrice, pur senza parole, poiché l’émpito interiore non mi consentiva di scegliere e di dominare i suoni della mia voce.

Ella anche taceva, al mio fianco; e io non la guardava né ella mi guardava. Ma, stando noi reclinati verso la roccia multiforme, eravamo congiunti l’uno all’altra da quel fascino che accomuna coloro i quali leggono insieme in un medesimo libro. Noi leggevamo insieme in un medesimo libro affascinante e periglioso.

Ella disse, ergendo il capo con un lieve sussulto:

Udite gli sparvieri?

E cercammo entrambi con occhi allucinati le vette.

Udite!

La roccia assaliva il cielo con un’arme irta di punte, maculata d’un color rossastro come di ruggine o di grumo; e i gridi degli uccelli predaci aumentavano l’impeto della sua fierezza.

Allora una vertigine repentina m’investì, che era come l’orrore d’un desiderio e d’un orgoglio troppo vasti. Si risvegliò forse nelle radici stesse della mia sostanza l’ebrietà barbarica dei lontani padri, poiché l’indefinibile turbamento si tradusse in una successione fulminea d’imagini balenanti ove io vidi uomini che mi somigliavano irrompere nella città espugnata, saltare oltre i mucchi dei cadaveri e degli arredi, affondare le spade nelle carni con un gesto infaticabile, portare in arcione le donne seminude a traverso le lingue innumerevoli dell’incendio mentre il sangue saliva al ventre dei loro cavalli agili e crudeli come i leopardi.

«Ah io avrei saputo possederti in mezzo alla strage, in un talamo di fuoco, sotto l’ala della mortediceva in me l’antica anima a colei che mi stava da presso. «La mia volontà avrebbe saputo costringere al prodigio il mio corpo, e io mi sarei inerpicato su per le pietre lisce di questa muraglia difesa da mille balestre e pur vivo t’avrei tolta

Pieni della desolazione magnifica e tremenda che s’esaltava nel cielo, i miei occhi incontrarono il volto della vergine così violentemente irradiato dal riverbero che n’ebbero una gioia quasi dolorosa. E io provai un desiderio folle di stringere quella testa fra le mie mani, di rovesciarla indietro, di accostarla al mio respiro, di investigarla sempre più da presso, d’imprimerne ogni linea nel mio pensiero, – non dissimile a colui il quale abbia rinvenuto sotto le glebe sterili il frammento sublime da cui il mondo riavrà la gloria di un’idea che pareva estinta.

Ella era come la statua collocata in vista del sole oriente: la sua perfezione non temeva la luce. Io vidi nella sua forma corporea l’impronta del tipo eterno e riconobbi nel medesimo attimo la fralezza della sua carne non immune dal fato umano. Ella era come il frutto delizioso che tocca il punto della sua maturità, oltre il quale è il corrompimento. La pelle del suo volto aveva l’ineffabile trasparenza della corolla che domani sarà appassita.

«Chi ti sottrarrà al sacrilegio del tempo dissolvitore? Chi ti arresterà con un dardo mortifero su la cima della tua perfezione quando tu accennerai a declinare miseramente?» Le oscure parole del fratello mi risorsero nella memoria: – Violante si uccide coi profumi… – E in silenzio io la lodai, per il bisogno religioso di celebrarla in ogni suo atto. «O creatura sovrana, sentendoti perfetta tu senti la necessità della morte. Tu senti che la morte sola può preservarti da ogni ingiuria vile; e, poiché tutto in te è nobile, tu mediti di offerire alla custode solenne un corpo regalmente impregnato di profumi

Qual mai sapore poteva avere per noi, dopo quei sorsi di vino mirrato, la mensa a cui sedemmo?

Cose vaghe e trascolorite intorno a me assorto componevano non so che armonia sommessa ove doveva a poco a poco sedarsi la passione comunicata alla mia anima dalla rupe ignea.

Le pareti erano coperte di specchi compartiti in giro simmetricamente da colonnette d’oro e nei campi delle compartiture erano dipinti festoni e corimbi di rose in ordine alterno; e gli specchi erano appannati e inverditi come le acque degli stagni soli, e le colonnette erano fini e attorte come le trecce delle fanciulle bionde, e le rose erano languide e pie come le ghirlande che cingono le màrtiri di cera nei tabernacoli. Ma, forse per un omaggio all’ospite donatore, i lunghi rami di mandorlo ingegnosamente fermati ai viticci dei candelabri spandevano l’ancor viva e fresca fioritura di contro agli antichi specchi e riflettendosi e moltiplicandosi nella glauca pallidità creavano la parvenza d’una lontana primavera acquàtile.

Tutte quelle cose avevano una tacita gentilezza che scendeva a mescolarsi con la grazia umile di Massimilla; cosicché sembravami che la vergine già promessa a Gesù partecipasse della loro specie e del loro velamento, e ch’ella già mostrasse il sembiante d’una creatura «partita di questo secolo» come Beatrice nel sogno della Vita nuova, e che nel suo aspetto d’umiltà dicesse anch’ella: «Io sono a vedere lo principio della pace

Poiché ella m’era di fronte e io la guardava, questa mia imaginazione si fece tanto forte ch’io giunsi a considerar lei assente e vuoto il suo posto per qualche attimo. E sùbito quel vuoto si empì di un’ombra così cupa che parve quasi la bocca d’un baratro in cui dovessero precipitare l’un dopo l’altro i consanguinei. E io potei per tal modo elevarmi a una visione unica e tragica di tutti quei vivi nel rilievo straordinario che diede loro quel fondo di ombra.

Prendevano il cibo seduti intorno alla mensa consueta: facevano i comuni gesti che richiede la necessità naturale, proferivano a quando a quando parole semplici. Ma i loro atti e i loro accenti sembravano accompagnati da un mistero che a volta a volta li gravava di significanze quasi terribili o li rendeva quasi ridevoli come il gioco degli automi. Un contrasto crudelmente palese era tra i modi della funzione vitale ch’essi compievano e i segni della distruzione inevitabile che si compieva in loro. Seduto a destra di Massimilla, Antonello mostrava in tutto il suo contegno una specie d’impazienza repressa, come s’egli fosse costretto a nutrire con le sue mani non sé medesimo ma un estraneo. E, fissandolo io, ebbi in un baleno l’intuito dell’orrore che lo soffocava nel sentire dentro di sé la presenza dell’estraneo forse ancóra confusa ma pur non dubbia. E i miei occhi, correndo per istinto su Oddo seduto a sinistra di Massimilla, sorpresero nell’attitudine sua qualche cosa che era come il riflesso attenuato del turbamento fraterno. E nulla mi parve più lùgubre di quella rispondenza occulta tra i due fratelli nati in un medesimo parto e sacri a un medesimo fato; nulla mi parve più dolce di quella verginale figura composta tra le loro inquietudini come l’imagine della Preghiera.

I fiori di mandorlo esalavano uno strano odore di miele nell’aria tiepida. Talvolta qualche petalo, che pareva divenuto più roseo, cadeva lungo gli specchi come in un silenzio di acque. E io ripensavo la sosta nel frutteto.

Ah, veramente, come potevano quei miseri occhi sbigottiti da tanti fantasmi vedere le cose belle e pure? Che facevo io medesimo in quel luogo se non una commemorazione della morte? Tutto si offuscava intorno a simiglianza delle pareti, sembrava retrocedere in un passato lontano; tutto assumeva un aspetto antiquato e stinto, sembrava quasi coprirsi di polvere. I due servi, con le livree azzurre e le lunghe calze bianche, lenti e disattenti, avevano l’aria d’esser venuti fuori da una guardaroba del secolo scorso, tristi avanzi d’un lusso abolito. Quando si ritraevano in disparte, parevano dileguare come ombre nella lontananza illusoria degli specchi, rientrare nel loro mondo inanimato.

Ma la voce del principe, assidua risvegliatrice di memorie, trasmutava l’incanto. Tutti tacevano con rispetto, quando egli parlava; e non s’udiva se non la profonda voce senile che a tratti diventava rauca di collera soffocata o tremava di cordoglio e di rammarico.

Era quello un giorno nefasto per il vecchio: era l’anniversario della partenza del Re da Gaeta. Compivasi in quel giorno il ventunesimo anno di esilio.

Ebbene – egli diceva, rivolto a me, accendendosi nella sua fede, mentre la bella barba candida gli dava quasi una sembianza profetica – ebbene, Claudio, quando un Re cade come cadde Francesco di Borbone a Gaeta, da martire e da eroe, non è possibile che Iddio non lo risollevi e non gli restituisca il regno. Ascolta la mia parola, figlio di Massenzio Cantelmo, e non dimenticarla. Il Re delle Due Sicilie finirà i suoi giorni in gloria sul suo trono legittimo. E mi conceda Iddio che questo si compia prima ch’io chiuda gli occhi! Ecco l’unico mio vóto.

Egli componeva al pallido fantasma regale un’apoteosi di fiamme e di sangue su le rovine della città forte.

«Ammirabile fede!» io pensava scorgendo le faville che ancóra potevano accendersi nell’azzurro cinereo di quegli occhi indeboliti. «Ammirabile fede e vana! La virtù dei Borboni dorme a San Dionigi.» E, poiché nelle parole del vecchio passava l’imagine lampeggiante dell’eroina bàvara, più fiero mi risorse il dispetto contro quel Re di ventitré anni a cui la Fortuna aveva presentato il cavallo che portò a Parigi Enrico di Navarra, mentre il pusillanime, come Filippo V inebetito, non avrebbe voluto montare se non i cavalli figurati nelle tappezzerie che paravano le sue stanze.

«Quale magnifica impresa aveva innanzi a sé quel Borbone, quando uscì dal palazzo di Caserta dove i dottori attendevano a imbalsamare il cadavere del padre coperto di mille piaghe putride!» io pensava, nell’alacrità che mi ridavano le imagini di guerra evocate dal vecchio venerabile. «Nulla gli mancava: neppure lo spettacolo e l’odore della putredine, potentissimi per eccitare i grandi pensieri. In verità, egli aveva tutto: la forza imperiosa dell’antico nome, la giovinezza che seduce e trascina, un reame su tre mari bellissimo e assuefatto alle tirannie, una reggia opulenta in vista d’un golfo ricurvo e sonoro come una cetra, un’appassionata compagna le cui narici feline parevano respirare in un sogno eroico e palpitare di voluttà presentendo l’effluvio elettrico degli uragani. Egli aveva da godere e da difendere tutti questi beni; e, sposo reduce dalla riva estrema dell’altro mare, egli recava ancor nell’orecchio il clamore dei popoli fedeli, ma udiva anche un altro clamore; e l’occasione d’una superba lotta gli si offriva di dai confini del suo dominio, su campi già irrigati di sangue e fumidi d’una fermentazione violenta, aperti al pensiero più forte, al verbo più nobile e alla spada più veloce. In verità, tutto egli aveva: fuor che la natura del leone. Perché dunque la Fortuna volle imporre il cumulo di tanto favore a un debole agnello? Mai sangue fu più timido in vene giovenili e mai sensualità fu più torpida. La stessa bellezza del dominio legittimo, la divina forma dei lidi, l’aura voluttuosa, il mistero delle notti, tutti gli incanti dell’estate moriente dovevano almeno turbare i sensi di quel giovine e irritare in lui l’istinto profondo del possesso e comunicargli un impeto selvaggio di vita.

Il tradimento era da per tutto come il fumo e l’odore del nitroseguitava il principe, sempre più turbato da quei ricordi sanguinosi, di tratto in tratto avvivando la parola con un gesto della mano bianca su cui risplendeva il cammeo. – La più terribile giornata dell’assedio fu quella del cinque di febbraio; e la polveriera della batteria Sant’Antonio scoppiò per tradimento…

Ah, che cosa atroce! – esclamò Violante, scossa da un sussulto, accennando l’atto istintivo di chiudersi gli orecchi con le palme. – Che terrore!

Tu te ne ricordi sempre – le disse il padre, posando su lei gli occhi divenuti più dolci.

Sempre.

Violante era rimasta con noi a Gaetasoggiunse egli rivolto verso di me. – Aveva appena cinque anni; era il grande amore della Regina. Gli altri erano partiti per Civitavecchia, sul Vulcano, con la contessa di Trapani. Noi stavamo nella casamatta, sotto le batterie del Fronte di mare…

Io mi ricordo di tutto! – interruppe Violante, mossa da un’animazione subitanea che pareva venirle da quel gran bagliore purpureo diffuso su la sua infanzia lontana. – Di tutto, di tutto mi ricordo, come delle cose accadute ieri! La stanza era isolata da due tramezzi fatti di bandiere cucite insieme. Veggo i colori distintamente: erano bandiere per segnali, azzurre, gialle e rosse. I lumi erano accesi perché le blinde coprivano le finestre. Quando avvenne lo scoppio, potevano essere le tre o le quattro di sera. Nina Rizzo, la camerista della Regina, era uscita allora allora. Io tenevo fra le mani una tazza di latte che mi avevano mandata le suore dell’Ospedale…

Ella parlava così, a tratti brevi, con la voce un po’ sorda, con lo sguardo un po’ incantato, rivelando l’una dopo l’altra le particolarità precise, come se le vedesse in una successione di baleni. E le imagini evocate dalla sua parola di veggente si distinguevano per una straordinaria potenza di rilievo sul fondo confuso delle altre imagini.

La vergine e il vecchio, commemorando a vicenda la ruina e la strage, parevano abolire le cose vaghe e trascolorite d’intorno, creare una specie di atmosfera fumosa in cui la mia anima respirò per qualche minuto ansiosamente. – Era l’assedio con tutti i suoi orrori, nella città ingombra di soldati di cavalli e di muli, sprovvista di vettovaglie e di danaro, armata d’armi fiacche o inutili, travagliata dal tifo e dalla fellonia. Le piogge torrenziali la riempivano d’una melma nerastra ove i giumenti famelici erranti per le strade stramazzavano e agonizzavano. La grandine di ferro la traforava, la smantellava, l’atterrava, l’incendiava, sempre più spessa e più fragorosa, non interrotta se non dalle brevi tregue pattuite per seppellire i cadaveri già putrefatti. Nelle chiese si celebrava l’ufficio divino e s’invocava la Patrona Invincibile, mentre le pietre si staccavano dalle pareti, cadevano i vetri infranti, giungevano i gemiti dei feriti trasportati nelle barelle. I malati negli Ospedali si sollevavano su i letti quando una bomba penetrava il muro della corsia e nell’attimo dello scoppio credendo di morire gridavano: – Viva il Re! – D’improvviso una polveriera si squarciava scrollando dalle fondamenta tutta la città che rimaneva soffocata dal fumo e dal terrore, mentre nella voragine aperta scomparivano i bastioni, i cannoni, le blinde, le casematte, le case, e cento e cento uomini. Ma, a intervalli, nei giorni di gran sole, una specie di delirio eroico prendeva gli assediati, una specie di ebrezza della morte li spingeva al pericolo su le batterie dove il fuoco era più terribile. In vista del nemico, al suono delle fanfare gli artiglieri cantavano e danzavano freneticamente; se taluno cadeva colpito, crescevano nella gazzarra. Un immenso grido di gioia e d’amore accoglieva l’apparizione della Regina su le spianate ove grandinava il ferro. Ella s’avanzava con un passo audace, nella grazia libera de’ suoi diciannove anni, chiusa in un busto fulgido come un corsaletto, sorridendo sotto le piume del suo feltro. Senza battere le ciglia ai sibili delle palle, ella fissava su i soldati il suo sguardo inebriante come l’ondeggiamento delle bandiere; e sotto quello sguardo l’orgoglio pareva allargar le ferite, mentre gli incolumi si rammaricavano di non aver la gloria d’una macchia rossa. Di tratto in tratto, uomini con gli occhi ardenti nel viso annerito, con le vesti ridotte in tritume come dalle mascelle d’un ruminante, coperti di sangue e di polvere, si slanciavano dai cannoni verso di lei chiamandola per nome e le baciavano il lembo della gonna…

Ah com’era bella e com’era degna del suo trono! – esclamò il principe, che ritrovava i più maschi accenti della sua voce nel celebrare quella prodezza. – La sua presenza aveva su i soldati un potere magnetico. Quando ella era , tutti diventavano leoni. Il ventidue di gennaio fu il più glorioso giorno dell’assedio perché ella rimase su le batterie fino a notte.

Successe una pausa, quasi di raccoglimento, in cui ciascuno di noi parve contemplare la figura ideale dell’eroina su un campo di macerie e di cadaveri.

Erano strane le lacrime ne’ suoi occhi! – disse Violante con lentezza, tutt’assorta nella lontana memoria. – All’ultima ora, quando la vidi piangere, rimasi sbigottita e attonita come davanti a un fatto impreveduto e quasi incredibile. Baciandomi, ella mi bagnò tutta la faccia.

Dopo un intervallo, soggiunse:

Portava al cappello una piccola piuma verde.

Soggiunse ancóra:

Aveva un grande smeraldo sotto la gola.

Poiché ella era seduta al mio fianco, un nuovo turbamento m’invase quando con un atto involontario mi chinai un poco verso di lei e aspirai il profumo che mi parve divenir più forte e dominare la fragranza mèllea del principe, Ottavio Montaga, seduto a una estremità della tavola, taciturno e un po’ sinistro come un uomo mascherato: simbolo d’un divieto oscuro e intrasgredibile. Sentii insorgere l’odio della mia sanità, del mio vigore e del mio desiderio contro la malattia, contro la tristezza, contro il mortale tedio in cui la portentosa creatura si disfaceva senza scampo. Respingendo le inquietudini generate pur dianzi nel mio spirito dalle tre forme diverse nel loro successivo apparire, io credetti d’aver già posta la mia elezione su quella in cui sembravano adunarsi tutti i prestigi e pur la solennità del passato per annobilirla. Anche una volta ella sola agitava tutto il mio essere come quando aveva erto il capo alle strida degli sparvieri.

Mi disse il principe:

Non è singolare, Claudio, che Violante conservi di quel tempo una memoria così lucida? Non ti sembra molto singolare?

Poi, sorridendo di quel suo primo dolce sorriso:

Maria Sofia non ha mai cessato di prediligerla. Sapendola appassionata degli odori, ogni anno pel natalizio le manda in dono una gran quantità di essenze. E, da che siamo qui, non ha mancato una volta!

Volgendosi alla figlia teneramente:

Oramai tu non potresti più farne a meno; è vero?

E a me, con un’ombra di tristezza:

Ella ne vive! E tu la vedi, Claudio, come s’è fatta bianca.

Mi parve che Anatolia bisbigliasse:

Ella ne muore.

Quando ci levammo dalla mensa, Anatolia ci propose di discendere nel giardino.

Andiamo a prendere ancóra un po’ di sole! – ella invitò, sollevando la mano verso un fascio di raggi che penetrava pel più alto vetro d’una finestra non coperto dalla tendina scolorita. – Chi vuol venire?

La sua mano s’illuminò nel gesto, s’indorò fino al polso; e i raggi passarono fra le sue dita come crini docili.

Veniamo tutti – io risposi.

Don Ottavio chiese licenza e si ritrasse (il suo aspetto tra noi era quel d’un intruso); ma il principe mise il suo braccio sotto il braccio di Anatolia, come già Antonello aveva fatto nella scalea, e disse:

Io vi accompagnerò fin giù nell’atrio.

Passando per la vastissima sala di udienza, ridotta a una vuota anticamera, notai una vecchia portantina ch’era fornita delle due stanghe: quasi avesse allora allora deposta la dama o fosse in assetto per riceverla.

Chi va in portantina? – domandai, soffermandomi.

Nessuno di noi – rispose Anatolia, dopo un attimo di esitazione, mentre su tutti i volti passava l’ombra di un turbamento.

È del tempo di Carlo III – disse il principe, dissimulando col sorriso il suo pensiero triste. – Appartenne alla duchessa di Cublana Donna Raimondetta Montaga, che fu la più bella dama della Corte e fu celebrata come la più grande bellezza del Regno.

È di stile eccellente – io riconobbi, accostandomi, attratto da quella vecchia cosa che non anche pareva ben morta, a cui la memoria di Donna Raimondetta conferiva anzi un pregio e una grazia singolari e quasi una reviviscenza fittizia sotto il mio sguardo. – È una squisita opera d’arte, e conservata a meraviglia.

Ma io sentii che un’inquietudine strana occupava i miei ospiti intorno a me, e che la causa di quel malessere partiva dall’oggetto presente. E tanto più forte allora, per virtù del mistero, sentii vivere nel legno prezioso la vita delle mie imaginazioni.

L’anima di Donna Raimondetta abita qui dentro, forse – io dissi con un’aria leggera, non potendo resistere alla voglia di aprire lo sportello. – Non potrebbe avere un ricettacolo più elegante. Vediamo.

Come apersi, un odore sottile mi venne alle narici; e per meglio aspirarlo avanzai il capo nell’interno.

Che profumo! – esclamai, deliziato da quella sensazione impreveduta. – È il profumo della duchessa di Cublana?

E per qualche attimo tenni il mio spirito sospeso nella molle atmosfera creata dal fascino della dama antica, imaginando una piccola bocca rotonda come una fragola, un’alta capellatura carica di cipria e una veste di broccatello gonfiata dal guardinfante.

La portantina odorava come un cofano di nozze, dentro tappezzata d’un velluto verde come la foglia del salice e ornata d’uno specchietto ovale per ciascun fianco, fuori tutta quanta dorata e dipinta con gusto sopraffine, arricchita di delicatissimi intagli nelle cornici e nelle commessure, resa più armonica e più dolce alla vista dal suo velo secolare: amabile opera d’una fantasia leggiadra e d’una mano sapiente.

O forse siete voi, Donna Violante, – soggiunsi – che avete vuotato su questo velluto così tenero una delle vostre fiale, per omaggio all’ava famosa?

No, non io – fece ella, quasi con indifferenza, come rioccupata dal tedio consueto, come ridivenuta estranea.

Andiamo, dunque – sollecitò Anatolia traendo il padre ch’ella teneva ancóra al suo braccio. – In questa sala c’è sempre un gran freddo.

Andiamoripeté Antonello rabbrividendo.

Si udiva già dal più alto gradino il romore dell’acqua, roco prima poi sempre più chiaro e più forte.

La fontana è riaperta? – fece il principe.

L’abbiamo riaperta dianzidisse Anatolia – in onore dell’ospite.

Hai notato, Claudio, nel cortile il gioco degli echi? – mi chiese Don Luzio. – È straordinario.

Veramente straordinario – io risposi. – È un effetto di sonorità prodigioso. Pare l’artificio di un musico. Credo che un armonista attento troverebbe qui il segreto di accordi e di dissonanze sconosciuti. Ecco una scuola incomparabile per un orecchio delicato. Non è vero, Donna Violante? Voi siete per la fontana, contro Antonello.

Sì, – ella disse con semplicità – io amo e comprendo l’acqua.

Laudato si, mi Signore, per sor acqua… Vi ricordate, Donna Massimilla, del Cantico di San Francesco?

Certo – rispose con un sorriso tenue la fidanzata di Gesù, arrossendo. – Io sono una Clarissa.

Il padre l’accarezzò malinconicamente con lo sguardo.

Suor Acqua! – la chiamò Anatolia, sfiorandole con le dita la benda liscia dei capelli che le scendeva su la tempia. – Prendi questo nome.

Sarebbe superbia – fece la Clarissa, con una umiltà ridente.

Ella mi rimise nella memoria, con una leggera variante, la sentenza della Beata: Symphonialis est aqua.

Eravamo tutti , presso la fontana sonora. Ogni bocca dava le sue note con una canna di vetro simile a una tibia ricurva. La conca di sotto era già colma e i quattro cavalli marini vi stavano sommersi fino al ventre.

Il disegno è dell’Algardi bolognese, – disse il principe – dell’architetto d’Innocenzo X, ma le sculture furono eseguite dal napoletano Domenico Guidi, da quello stesso che eseguì in gran parte l’alto rilievo d’Attila a San Pietro.

Come Violante erasi di nuovo appressata al margine della conca, io guardavo la sua imagine riflessa nella sfera liquida ove un tremolio continuo scomponeva i lineamenti fra le zampe dei cavalli.

Un episodio tragico è legato a questa fontana, – soggiunse il principe – un episodio che fu poi il motivo di qualche credenza superstiziosa. Non lo conosci?

Non lo conoscorisposi. – Ma raccontatemelo, se non vi dispiace.

E guardai Antonello, ripensando l’anima perduta che lo tormentava e lo spaventava di notte. Anch’egli ora teneva gli occhi intenti all’imagine di Violante tremula in fondo all’acqua.

Qui, in questo bacino, morì annegata Pantea Montaga, – cominciò Don Luzio – al tempo del Viceré Pietro d’Aragona…

Ma s’interruppe.

Ti racconterò un’altra volta.

Compresi ch’egli aveva ritegno a risuscitare quella memoria in presenza delle figlie; e non volli insistere.

Ma, poco dopo, nell’atrio esterno, passeggiando solo al mio braccio con lentezza, egli riprese il racconto; mentre d’intorno il sole splendeva su l’ordine dei balaustri donde le alte statue bianche delle Stagioni contemplavano la valle fulva del Saurgo.

Era un dramma di passione e di morte, intimo e segreto, ben degno della virtuosa chiostra lapidea che ne aveva compressa e poi esaltata la violenza in rapida vicenda. Mi significava il potere esercitato dal genio dei luoghi su l’anima affine, per cui in questa ogni verace sentimento doveva concentrarsi fino all’estrema intensità comportabile dalla natura umana per esprimer quindi tutta la sua forza in un atto definitivo e di conseguenza certa.

Ascoltando l’imperfetto racconto del principe, io ricomponevo interiormente l’ora di vita essenziale che aveva prodotto la morte di Pantea; e il delitto notturno assumeva ai miei occhi una bellezza indicatrice di cose profonde.

Profonda, in vero, doveva essere la volontà di quell’Umbelino che, acceso d’implacabile amore verso la sorella inconsapevole ma deliberato a rimaner nella sua colpa solo, meditò di ucciderla per dividere dall’anima quella carne che l’aveva infiammato di desiderio così terribilmente e per poter solo quella contaminare di tutte le carezze. «Egli dovette trarre dal suo segreto meravigliosi brividi» io pensava, considerandone il volto magro e olivastro che mi fingeva la mia imaginazione. «Poiché un ignoto sortilegio gli aveva infuso nel sangue il fuoco impuro, egli non riconobbe per oggetto della sua concupiscenza se non il corporale involucro che racchiudeva l’anima inviolabile; e seppe quindi con la forza del suo pensiero distintamente separar l’uno dall’altra e contenere in sé a un tempo i due amori: il profano e il sacro. Qual doveva essere il brivido del suo orrore quando, negli attimi in cui più forte lo divorava la febbre alimentata dagli effluvii del corpo presente, udiva la cara anima della sorella esalar parole soavi da quelle stesse labbra che in sogno egli copriva di lussuriosi baci! In quali vortici spaventevoli la sua vita interiore doveva turbinare senza mai tregua, moltiplicata dalla solitudine e addensata dalla constrizione! Alfine, poiché sentiva aggravarsi il giogo della fatalità che gli rendeva necessario il delitto, egli meditò di vuotare la bellezza funesta di Pantea, risolse di ridurla a spoglia insensibile per mezzo della morte. Quanti segni di pietà e di dolore egli prodigò in silenzio alla cara anima che doveva involarsi innocente per lasciargli nelle braccia la salma agognata! Egli, certo, le diceva cose ineffabili allorché l’accompagnava alla cappella per la preghiera mattutina. – O Pantea, nulla in terra è più dolce della tua preghiera: la rugiada è meno dolce – le diceva perché ella più lungamente e più fervidamente pregasse. Perché ella si apparecchiasse a trapassare, le diceva: – O Pantea, come sei beata! Il luogo della tua anima è il grembo di Nostro Signore Gesù Cristo. – Ma in silenzio le diceva cose ineffabili, ch’ella non poteva intendere. E in una sera d’estate, piena di prestigi fatali, scoccò l’ora della morte. Tutto era inverisimile e favorevole come in un sogno. Entrambi stavano presso la fontana eloquente e rinfrescavano le loro mani nell’umida ombra, taciturni. Una febbre d’inferno ardeva nei polsi di Umbelino mentre egli teneva gli occhi fissi alla imagine di Pantea rispecchiata dall’acqua sotto il chiarore delle stelle. Come in un sogno le sue mani, con la stessa facilità con cui avrebber vinto lo stelo di un giglio, quasi magicamente, piegarono la persona di Pantea verso l’imagine profonda finché l’una si confuse nell’altra e la fontana tenne un candido cadavere…»

Il principe Luzio prese commiato da me dicendomi:

Io spero che da oggi tu voglia aver questa casa per la tua casa. E sempre, quando tu verrai, sarai il benvenuto, mio caro figliuolo. Non ti far troppo desiderare, dunque.

Mi dava tanta tristezza quel suo rientrar solo nel palazzo desolato, che io l’accompagnai per un tratto parlandogli affettuosamente. Ci soffermammo innanzi alla fontana; ed egli fece un gesto vago verso la conca, ond’io vidi nella limpidità glaciale la funesta bellezza di Pantea e le bianche mani concave a fior d’acqua come due petali di magnolia e la molle capellatura fluttuante sotto le zampe dei cavalli.

Una favola corse negli anni che seguironodisse il principe sorridendo. – Nelle notti degli interlunii l’anima di Pantea cantava in cima allo zampillo e quella di Umbelino si disperava dentro le gole delle bestie di pietra, fino all’aurora.


L’ansia della primavera ci saliva alla faccia, stando noi inclinati su i balaustri verso il giardino in pendìo. Ci avvolgeva una specie di aura vibrante con la celerità di un polso febrile; e la sensazione era così continuamente grave che intorpidiva i nervi. Le pupille si fissavano e le palpebre si abbassavano, come in un principio di sopore. Io sentivo la mia anima carica come una nube.

Disse Anatolia sul nostro silenzio concorde:

Passa la Felicità.

Ella rivelava, con quella inattesa parola, a noi medesimi il segreto dell’angoscia che era entro di noi; ed esprimeva l’essenza dell’infinita malinconia diffusa per la terra in punto di rinnovellare.

Passa la Felicità!

«Quali mani potrebbero arrestarla?» io mi domandai subitamente, in una cieca agitazione del mio bisogno d’amore, in una insurrezione confusa de’ miei istinti più profondi.

Le tre sorelle, poggiati i gomiti su la sponda di pietra, tenevano le mani in fuori nude, senza anelli, immerse nel sole come in un tepido bagno aurino: Massimilla, con le dita insieme tessute; Anatolia, con l’una palma presa nell’altra in croce per modo che i due pollici soprastavano; Violante, premendo alcune mammole già languide tolte alla sua cintura e lasciandole poi cadere nello spazio.

«Quali mani potrebbero arrestarla

Quelle di Anatolia apparivano le più forti e le più sensitive. Si disegnavano fermamente sotto la pelle i muscoli e i tendini che invigorivano i pollici gemmati d’un’unghia rosea, distinta alla radice dalla lunula quasi bianca, in guisa di un onice a due falde. – Non mi avevano esse già comunicato nel primo contatto un senso di forza generosa e di bontà efficace? Non avevo io già creduto di sentire nel cavo della palma un calore vivifico?

Ma quelle di Massimilla sembravano quasi increate, come le forme delle apparizioni, tanto erano tenui; e tanto erano candide che il raggio d’oro non riusciva a indorarle; e tanto note m’erano che io rivedevo nella piena luce diurna la tenebra dell’absida umbra dove le avevo vedute per la prima volta su la pala dell’altare, sole superstiti di un’imagine riassorbita dal mistero e pur atte da sole ad incantare e ad accarezzare anime. Or esse esprimevano con l’intreccio delle dita tessute il vincolo della schiavitù volontaria. – Eccomi a te, avvinta d’un legame più forte di qualunque catena. Non aprirò le braccia se non quando ti piacerà di sciogliermi. Io non posso e non voglio se non adorare e obbedire, obbedire e adorareconfessava per quei segni la devota al suo ideal signore. E io imaginai le sue mani disciolte e dalle palme loro generarsi lunghe zone di silenzio vivente, in quella guisa che dalle palme degli angeli effigiati in alto e in basso delle ancóne si partono le liste volubili dei cartigli recanti qualche versetto e chiudono l’istoria entro il senso mistico delle parole scritte. «Così, o Adorante, nei cerchi del tuo vivente silenzio d’amore potresti includere il mio spirito meditabondo! E io sarei infedele alle solitudini della terra: ai monti solenni, ai boschi musicali, ai fiumi pacifici, e pur ai cieli stellati; poiché nessuno spettacolo della terra eleva il genio dell’uomo quanto la presenza di una bella anima sottomessa. Questa alle mura della stanza segreta una vastità illimitata, come la lampada votiva aumenta la grandezza della notte nel tempio. Per ciò io ti vorrei nella mia casa, o dolce schiava. Colui che medita circondato d’un’adorazione silenziosa, sente la divinità del suo pensiero e crea come un dio

Ma le mani sublimi di Violante, esprimendo dai teneri fiori la stilla essenziale e lasciandoli cader pesti al suolo, compievano un atto che, come simbolo, rispondeva perfettamente al carattere del mio stile: – estraevano da una cosa fin l’ultimo sentore di vita, ciò è le prendevano tutto quel che essa poteva dare, lasciandola esausta. Tale non era uno tra i più gravi offici della mia arte di vivere?

Violante dunque m’appariva come uno strumento divino e incomparabile della mia arte. «La sua alleanza m’è necessaria per conoscere e per esaurire le innumerevoli cose occultate nelle profondità dei sensi umani, delle quali la sempiterna lussuria è unica rivelatrice. Chiude la carne tangibile infiniti misteri che solo il contatto di un’altra carne può rivelare a chi sia dotato dalla Natura per comprenderli e per celebrarli religiosamente. E il corpo di costei non ha la santità e la magnificenza di un tempio? Non promette la sua bellezza alla mia sensualità le più alte iniziazioni

Così, come già nella prima salita, io attraevo in me le tre forme integrali che offerivano a tutti i poteri del mio essere la gioia del manifestarsi e dell’appagarsi totalmente in una compiuta armonia. L’una – nel mio sogno – con la pura fronte raggiante di presagi vegliava sul figlio del mio sangue e della mia anima; e l’altra, come la piràusta nella fornace del metallurgo, viveva nell’intimo fuoco de’ miei pensieri; e l’altra mi richiamava al culto religioso del corpo e conveniva meco in segrete cerimonie per insegnarmi a rivivere la vita degli antichi iddii. Tutte sembravano nate a servire le mie volontà di perfezione in terra. E il doverle disgiungere l’una dall’altra mi offendeva come un disordine, mi irritava come un sopruso del pregiudizio e del costume. «Perché dunque non potrei condurle alla mia casa in un medesimo giorno e ornare della triplice grazia la mia solitudine? Il mio amore e la mia arte saprebbero creare intorno a ciascuna un diverso incantamento e construire per ciascuna un trono e a ciascuna offerire lo scettro d’un ideal regno popolato di finzioni in cui ella ritroverebbe trasfigurata per aspetti molteplici la parte di sé non mortale. E, poiché la brevità è il giustissimo attributo del sogno superbo e della vita bella, il mio amore e la mia arte anche saprebbero comporre alle beatrici (ma non a te, o Anatolia, lungamente destinata a vegliare!) una morte armoniosa nell’ora opportuna…»

Piovevano senza tregua su le mani virginee questi miei pensieri accesi come da un lene delirio in quella precoce caldezza del sole, quando Violante lasciò cadere l’ultimo fiore premuto e si sporse verso le cime dei lunghissimi tralci che dal ripiano sottoposto salivano fino ai balaustri e vi si avvolgevano. Riuscì ella a spezzare un rametto e ne esaminò le fibre interne per vedere se fossero già penetrate dalla linfa primaverile.

Dormono ancóra – ella disse.

Noi eravamo dunque chini su l’estremo sonno, già trasparente, di quelle spoglie squallide in cui stava per compiersi uno tra i più grandi miracoli terrestri, evocato da una parola.

Vedrete, fra qualche mese – mi disse Anatolia. – Tutto sarà coperto da un manto verde, tutte le pergole saranno ombrose.

Non erano le madri dell’uva, ma erano certe viti pampinifere dagli innumerevoli sermenti volubili che si distendevano su per la vasta muraglia, come giù per le pergole delle scalee, a similitudine d’un tessuto reticolare. Esse non avevano aspetto di vegetali, ma di funicelle consunte, macerate dalla pioggia, disseccate dal sole, fragili in vista come le tele dei ragni. E pure l’imminenza della metamorfosi le rendeva mistiche come i maggiori tronchi delle foreste montane. Miriadi di fronde vive stavano per irrompere dalle fibre di quel cordame inerte, miracolosamente.

In autunno – mi disse Violante – tutto si fa rosso, d’un rosso splendidissimo; e in certi giorni d’ottobre, al sole, le muraglie e le scalee sembrano parate di porpora. In quel tempo, veramente, il giardino ha la sua ora di bellezza. Se voi sarete qui, vedrete…

Non sarà qui – interruppe Antonello, scotendo il capo.

Perché tu ripeti sempre questo? – io gli chiesi, quasi per un rimprovero dolce. – Che sai?

Nessuno sa mai nulla – mormorò Oddo, con la sua voce sorda che io non distinsi dalla voce fraterna se non pel moto delle labbra. – Chi può dire quel che accadrà di noi da oggi all’autunno? Soltanto Massimilla è sicura: ha trovato il suo rifugio.

Forse una minima stilla di amarezza alterava le ultime parole.

Massimilla va a pregare per noi – disse Anatolia gravemente.

La monacanda abbassò la testa verso le sue mani congiunte. E per un intervallo noi tacemmo, sotto un’onda di cose indistinte ma pur tuttavia imperiose.

La visione allucinante della porpora autunnale faceva impallidire ai miei occhi quel limpido pomeriggio della prima primavera, mentre discendevamo giù per le scalee, dove qualche ora innanzi le tre principesse mi erano apparse come nell’inizio d’una favola uscenti con un sorriso novello da una notte d’immemorabili affanni. Tanto già mi sembrava lontana quell’ora mattutina quanto prossimo quell’autunno a cui – secondo un presentimento oscurodovevano condurmi le vicissitudini d’un fulmineo fato. E, se io imaginavo intorno ai nudi tralci il fogliame purpureo, vedevo su i volti delle tre sorelle cadere un’ombra di lutto cupa.

Un’altra volta il sentimento della morte appassionò ed inalzò la mia anima per modo che tutte le apparenze vi si riflettevano con trasfigurazioni di poesia. E nello splendore dell’aria primaverile quelle creature frali mi sembrarono «maravigliosamente tristi» come le donne nel sogno della Vita nuova, che Massimilla m’aveva richiamato alla memoria fra i mandorli succisi e gli antichi specchi. E mi sembrò d’esser tutto compreso dall’ardente spirito che in quel libello infiamma la pagina ove Dante giovine mostra com’egli sapesse agitar dal profondo la sua anima ed esaltarla al sommo dell’ebrietà dolorosa imaginando morta Beatrice e contemplandone la faccia a traverso il velo funerale. «Sospirando forte, fra me medesimo dicea: Di necessità conviene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia… E paventando assai, immaginai alcuno amico che mi venisse a dire: Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo… Allora mi parea che il cuore, overa tanto amore, mi dicesse: Vero è che morta giace la nostra donna… E fu sì forte la errante fantasia che mi mostrò questa donna morta…» Non mi veniva da una simile imaginazione l’émpito delle ineffabili bellezze interiori?

Una nobiltà sovrana emanava da ogni atto delle vergini moriture e irradiava le cose per mezzo a cui elle passavano. E forse mai più le vidi in tanta luce e in tanta ombra.

Quando fummo a piè delle scalee, in un ripiano circondato dalle verdi rovine d’un portico di bossi, Anatolia si soffermò chiedendomi:

Volete rivedere tutto il giardino? Potreste forse ritrovare qualche memoria.

Quasi a dichiarar la sua signoria, Violante disse:

Giacché voi amate la musica dell’acqua, io vi condurrò alla visita delle mie sette fontane.

E Massimilla con la sua timida gentilezza:

In compenso dei mandorli, io vi mostrerò un biancospino fiorito questa notte, laggiù.

Mi pareva che parlassero di loro intime cose e, come la vergine di Fontebranda, intendessero: «Noi siamo uno giardino».

Non potendo esprimere il mio sentimento, io dissi parole vane.

Conducetemi dunque – io dissi. – Certo ritroverò qualche memoria: almeno delle mie prime letture, che furono racconti di fate…

Povere fate senza bacchetta! – fece Oddo, prendendo la mano di Anatolia con un gesto carezzevole.

E negli occhi di quelle sorridevano tutte le disperazioni.

Allora Violante ci condusse come per un laberinto.

Andavamo tra il verde perenne: tra i bossi, tra i lauri e tra i mirti antichissimi, la cui vecchiezza selvaggia era immemore della sofferta disciplina. Appena qua e rimaneva qualche vestigio delle simmetriche forme trattate un tempo dalle cesoie dei giardinieri; e io ero vigile a ravvisare nelle mute piante l’umanità di quelle sembianze non anche interamente scomparse, con una malinconia forse non dissimile a quella di colui che ricerca su i marmi dei sepolcri l’effigie consunta dei morti obliati. Un odore dolciamaro accompagnava i nostri passi; e a quando a quando taluno di noi, come per una volontà di riallacciare una trama disfatta, ricomponeva un ricordo della puerizia lontana. Ed ecco, risorgeva puramente la larva di mia madre; e pareva nutrirsi di tutte le cose che i nostri cuori esalavano nei silenzii intermessi, non distaccandosi ella dal fianco di Anatolia per mostrarmi la sua elezione. E un odore dolciamaro accompagnava la nostra malinconia.

Mi chiese Violante arrestandosi, quasi con l’aspetto e con l’accento con cui mi aveva parlato alla finestra:

Udite?

Ora siamo nel vostro dominio – io le dissi – perché voi siete la regina delle fontane…

S’udiva il canto roco dei getti venire a traverso un’alta siepe di mirti, mentre noi eravamo in un piccolo prato cosparso di giunchiglie e custodito da una statua di Pane interamente verde di musco. Una deliziosa mollezza pareva salirmi per le vene dall’erba molle che i miei piedi premevano; e ancóra una volta l’improvvisa gioia della vita mi dilatò il respiro. A un tratto, la presenza dei due fratelli m’increbbe e la misericordia per loro mi divenne grave. «Ah come io saprei turbare nel profondo le vostre anime chiusepensai guardando le tre prigioniere. «Come saprei esasperare fino all’angoscia le inquietudini che sono in voi!» E imaginai la voluttà di gustare quelle anime nuove, piene di un succo essenziale, rarissimi frutti maturati con lentezza nel Giardino del conoscimento di sé e intatti ancóra per offerirsi alla mia brama. E più grande era il rammarico perché sapevo di non poter ricomporre in séguito quel singolare incanto che non si forma se non dalla novità delle prime comunicazioni tra gli esseri chiamati a congiungere i loro destini: singolare incanto e breve, misto di meraviglia e di attesa e di presentimento e di speranza e di mille cose non definibili, partecipi della natura de’ sogni, vane eppur insórte dai più sacri abissi della vita.

Tutto si faceva ricco e soave nella trasparenza dell’ambra aerea; e da per tutto fiorivano idee di bellezza che chiedevano d’esser raccolte; e le più nobili fiorivano ai piedi delle principesse desolate, ove io imaginai me medesimo chino a raccoglierle. E imaginai la voluttà di accarezzare e d’irritare quelle anime vagando in quel segreto claustro su cui i fantasmi delle antiche Stagioni parevano tessere un velo di poesia figurandovi per entro, con fili appena visibili, volti strani di creature sconosciute ridenti e piangenti nelle vicende della gioia e del dolore.

Non cantava in ognuna di quelle fontane una Pantea, candida vittima di una passione scellerata e sublime? Certo un sentimento straordinario mi penetrò quando Violante mi condusse oltre i mirti, nella lunga zona compresa tra la siepe degli arbusti e il muro orientale. Quivi regnava quello spirito misterioso che occupa i luoghi remoti ov’è fama che un tempo convenissero a colloquio amanti celebrati per lo splendore tragico dei loro destini. Le statue, le colonne, i tronchi avevano l’aspetto delle cose che furono testimonie e complici d’una grande ebrezza umana e ne perpetuarono la memoria per gli anni. Le profonde ingiurie del Tempo edace e dei Segni inclementi conferivano alle forme della pietra quelle espressioni e quasi direi quella eloquenza che sole hanno le ruine. Ardui pensieri ne sorgevano, espressi dalle linee interrotte.

E imaginai la voluttà di confessar quivi il mio sogno magnifico alle tre beatrici che sole potevano trasformarlo in armonia vivente; imaginai la voluttà di parlare d’amore in quel medesimo luogo ove adunavasi tanta virtù di simboli per esaltar le anime oltre le consuete angustie umane e dilatarle in un supremo cielo di bellezza.

Andavamo pianamente, a quando a quando soffermandoci, proferendo parole che dissimulavano l’inquietudine da cui eravamo agitati; e Oddo e Antonello si mostravano stanchi, rimanevano indietro di qualche passo, taciturni. E io credevo di avere dietro di me le ombre della malattia e della morte.

Il mio fervore era caduto. Io sentivo quanto fosse crudo il contrasto fra le mie animazioni impetuose e quelle necessità miserevoli che rimanevano immutabili al mio fianco, intorno a me, ovunque nel grande claustro pieno di cose obliate o estinte. Io sentivo che ciascuna di quelle creature già tante volte in un’ora illuminate dal mio intelletto e trasfigurate dal mio desiderio, conservava intatto il suo segreto e che il linguaggio delle sue apparenze non poteva rivelarmelo. Guardandole, io le vidi l’una dall’altra discoste, l’una all’altra estranee, ciascuna con un pensiero ignoto tra ciglio e ciglio, ciascuna con un sentimento ignoto nell’intimo cuore. – Io ero per allontanarmi, ero per ritornare nella mia solitudine: la nostra giornata era presso alla fine. – Quali cose nuove quella prima comunicazione aveva indótto nelle loro anime attediate dalla lunga consuetudine d’una tristezza non più illusa forse neppur da un’ultima speranza nell’evento impreveduto? In quali aspetti ero io apparso a ciascuna? Il loro bisogno di amore e di felicità s’era proteso verso di me con un impeto irrefrenabile, o una incredulità sfiduciata come quella dei due fratelli le diffidava?

Esse camminavano al mio fianco pensose; e, pur quando parlavano, sembravano così profondamente assorte che più d’una volta io fui sul punto di chiedere: – A che pensate? – E nasceva in me quasi una volontà di violenza e di estorsione, davanti a quel segreto ch’esse stringevano; e mi salivano alle labbra quelle parole temerarie che possono d’improvviso aprire un cuor chiuso e sorprenderne la pena più nascosta o sforzarlo a confessarsi. Ma nel tempo medesimo una tenerezza pietosa mi piegava verso di loro quasi a chieder perdono d’un male ch’esse patissero da me in quel punto e d’un più aspro male che da me in futuro dovessero patire. La necessità della scelta mi si presentava come una prova crudele, cagione di dolori e di sacrifizii inevitabili. – Non sentivo io un’ansia veemente riempire le pause del nostro dialogo inutile?

Oh quando verrà l’estate! – sospirava Violante, alzando gli occhi verso i larghi ombrelli dei pini. – D’estate, io passo qui tutte le ore del giorno, sola, con le mie fontane. Ed è il tempo delle tuberose!

Pini giganteschi, dai fusti diritti e rotondi come le antenne delle galere, ordinati a distanze eguali, sorgevano lungo il muro del claustro e lo proteggevano con le loro cupole opache. Tra fusto e fusto, come in un intercolonnio, s’incavavano nel muro le nicchie abitate dalle statue ignude o avvolte nei pepli in attitudini calme, recanti le visioni del Passato nella loro cecità divina. A distanze eguali, le sette fontane sporgevano in forma di tempietti: composta ciascuna d’un’ampia tazza in cui si miravano deità sedenti su i margini e poggiate all’urna dell’acqua, nello spazio compreso fra due coppie di colonne che sorreggevano un frontone overa scolpito un distico. L’alta siepe dei mirti levavasi di contro tutta verde, non interrotta se non dalle bianche erme cogitabonde. E il terreno umido era quasi interamente coperto dai muschi come da un feltro, che rendeva silenzioso il nostro passaggio aumentando la dolcezza del mistero.

Riuscite a leggere quei versi? – fece Violante, vedendomi intento a scoprire le lettere incise nella pietra, cancellate qua e dalle gromme e dalle fenditure. – Io sapevo una volta quel che dicevano.

Dicevano: «Affrettatevi, affrettatevi! Intrecciate in ghirlande le rose belle per cingerne le ore che passano

praecipitate moras, volvcres cingatis vt horas

nectite formosas, mollia serta, rosas.

Era, addolcito di rime, l’antico ammonimento che nei secoli aveva incitato gli uomini ai piaceri della vita breve, aveva infiammato i baci su le bocche degli amanti e moltiplicato su le mense le coppe del vino. Era l’antica melodia voluttuosa, modulata su la nova siringa che un monaco industre aveva composta in forma dell’ala d’una colomba con le canne ineguali recise nell’orto abbandonato di Pane ma conteste insieme con la cera dei torchietti votivi e con il lino d’una tovaglia d’altare lógora.

«La fontana brilla e risuona; e ti dice nel suo splendore: Godi!, e nel suo murmure ti dice: Ama

fons lvcet, plavde, eloqvitur fons lvmine: gavde.

fons sonat, adclama, mvrmvre dicit: ama.

Un ambiguo incantesimo diffondevano nel mio spirito gli echi della rima leonina a cui le acque facevano la glosa interminabile. Io sentivo in quegli echi l’accento velato della malinconia che dona al piacere un’indefinita grazia e turbandolo pur lo rende più profondo. Non meno eran molli e tristi quivi le giovinezze divine che distendevano su i margini le nude membra ondulate a similitudine dello specchio in cui si miravano da sì lungo tempo: – Salmaci forse, agognanti alla perfezione d’un congiungimento ancóra ignoto agli uomini e agli iddii? o Bibli forse, intente a comprimere nel virgineo petto il fuoco del desiderio incestuoso? o Aretuse pieganti come salci leni sotto la violenza d’un amor protervo repulso in vano? «Piangete qui, o amanti che venite a dissetarvi! Troppo è dolce quest’acqua. Tempratela col sale delle vostre lacrime

flete hic potantes, nimis est aqva dvlcis, amantes.

salsvs, vt apta veham, temperet hvmor eam.

Così la dolce fontana, invidiando il sapore del pianto, indicava ai gaudiosi l’arte sottile di gustar qualche amarezza nella piena felicità. «Convien mescere alle rose qualche roseo fiore dell’atro elleboro, quasi indistinto nella ghirlanda, affinché la fronte redimita a quando a quando s’incliniPareva che di grado in grado, per quella lunga via di amore, la voluttà divenisse più raccolta, più sapiente e più appassionata. I liquidi specchi invitavano gli amanti a reclinar le fronti gravi di sogno e a contemplare le proprie imagini affinché, giunti infine a non vedere in quelle se non le sembianze d’ignoti esseri insorte alla luce da un mondo inaccessibile, potessero meglio sentire quel ch’eravi d’indicibilmente estraneo e lontano nelle vite loro. «Inclinatevi a specchiarvi affinché i vostri baci sieno addoppiati dall’imagine

oscvla ivcvnda vt dvplicentvr imagine in vnda

vvltvs hic vero cernite fonte mero.

In quel semplice atto non era il segno rivelatore d’una cosa recondita? I due amanti chini a riguardar la loro carezza rispecchiata significavano inconsapevolmente la potenza mistica della voluttà; che è quella di espellere per qualche attimo l’uomo sconosciuto che noi portiamo in noi medesimi e di farcelo sentire lontano ed estraneo come un fantasma. – Non forse nell’oscurità di un tal sentimento si accresce il delirio e si produce il terrore dei lussuriosi che negli specchi delle alcove profonde mirano le loro mutue carezze ripetute da figure che sono a lor somiglianza e che pur sembrano indefinitamente dissimili e remote in un silenzio soprannaturale? Avendo una confusa coscienza della straordinaria alienazione che avviene in loro, credono essi trovarne un simbolo illuminante in quelle imagini esterne e dall’analogia sono indótti a non più considerarle come parvenze visuali ma come forme di vita inesplicabili e infine come aspetti di morte vera quando i corpi esausti divengono immobili sul lenzuolo bianco e il sudore si agghiaccia nelle reni e le pupille si contraggono sotto il peso delle palpebre…

Tal visione mi creavano le rime dell’ultima fontana canora su cui inclinavasi il volto di Violante, scendendo l’ombra dei pini lenta come un velario ceruleo. «Qui la Voluttà e la Morte si mirarono congiunte; e i loro due volti facevano un volto solo.»

spectarvnt nvptas hic se mors atqve volvptas.

vnvs [fama ferat], qvvm dvo, vvltvs erat.

Come il sole si velò al passaggio d’una nuvola bianca e molle, l’aria parve addolcirsi ancóra più, parve assumere quasi il sapore d’un latte diafano in cui fosse distemperato un aroma. E io portavo nell’orecchio la cadenza delle rime latine mentre andavamo a traverso pratelli recinti, gialleggianti di giunchiglie, overa facile imaginare gli episodii d’una festa pastorale all’ombra di padiglioni inghirlandati. Sul piedestallo di una ninfa priva d’ambo le braccia era scolpita l’impresa degli Arcadi: la siringa di sette canne entro un serto d’alloro.

Non eravate voi qui stamane? – dissi a Violante, riconoscendo nella vicinanza l’arco di bosso ove prima ella m’era apparsa.

Ella sorrise; e mi sembrò che le sue gote si colorassero in sommo come per un bagliore fuggevole. Poche ore erano trascorse; e io mi stupii d’avere smarrita la nozione esatta del tempo. Quel breve intervallo m’appariva tutto pieno di avvenimenti confusi che gli davano nella mia coscienza una durata illusoria, senza limite certo. Non potevo ancóra misurare la gravità della vita che avevo vissuta in quel claustro dal punto in cui il mio piede s’era posato su la soglia; ma sentivo che una cosa oscura, di conseguenze incalcolabili, già stava per risolversi in me, fuor d’ogni mio volere; e pensavo che il mio presentimento mattutino su la via solitaria non era stato fallace.

Perché non ci sediamo un poco? – chiese Antonello, quasi supplichevole. – Non siete ancóra stanchi?

Sediamociassentì Anatolia, con la sua dolce condiscendenza abituale. – Anch’io sono un poco stanca. È forse l’effetto della primavera… Che odore di mammole!

Ma il vostro biancospino? – esclamai volgendomi a Massimilla, per mostrarle che non avevo dimenticata la sua offerta.

È ancóra lontano – ella rispose.

Dove?

Laggiù.

Massimilla ha i suoi nascondigli – fece Anatolia ridendo. – Quando si nasconde, nessuno la ritrova.

Come l’ermellino – io aggiunsi.

Poi – ella continuò scherzevole – di tanto in tanto fa un’allusione misteriosa a qualche piccola meraviglia conosciuta da lei sola, ma con prudenza, conservando sempre il segreto, senza conceder mai nulla alla nostra curiosità. Voi oggi, pel biancospino, siete l’oggetto d’uno speciale favore…

La monacanda teneva gli occhi bassi, ma il riso le brillava nei cigli illuminandole tutta la faccia.

Un giornocontinuò la buona sorella, che pareva contenta di risvegliare quel raggio inconsueto – un giorno vi racconterò la storia del riccio e dei quattro ricciotti ciechi…

Massimilla ruppe allora in un ridere così giovenile e così limpido, vestendosi d’una freschezza così impreveduta, che io ne fui attonito come davanti a un prodigio di grazia.

Ah, non date ascolto a Anatolia! – ella esclamò senza guardarmi. – Vuol burlarsi di me.

La storia del riccio e dei quattro ricciotti ciechi! – io dissi, bevendo con delizia a quella vena d’ilarità repentina che attraversava la nostra malinconia. – Ma voi siete dunque un esemplare di perfezione francescana. Bisogna aggiungere un fioretto ai Fioretti: «Come Suor Acqua dimesticò il riccio salvatico e fecegli il nido acciocché moltiplicasse, secondo i comandamenti del nostro CreatoreRaccontate, raccontate!

La Clarissa rideva con la sua Anatolia, e quel tenue spirito di gioia si comunicava anche a Violante e ai due fratelli; e per la prima volta, in quel giorno, noi riconoscevamo la nostra giovinezza.

Chi potrà mai dire come sia dolce e strano il dischiudersi inaspettato del riso nelle labbra e nelle pupille dei dolenti? Persisteva nella mia anima il primo stupore, e sembrava che coprisse d’un velo tutto il resto. L’agitazione insolita, che aveva scosso per qualche attimo il petto gracile di Massimilla, si propagava entro di me a tutte le imagini anteriori turbandone le linee o dissipandole. D’un tratto uno scroscio argentino riempiva la bocca socchiusa della beatrice estatica nell’atto di generar dalle immobili palme delle sue mani le spire del silenzio!

Nulla quanto il suono di quel riso poteva significarmi la profondità inaccessibile del mistero che ciascuna delle tre vergini portava in sé medesima. – Non era quello il segno fortuito di una vita istintiva dormente come un tesoro accumulato nelle radici stesse della sostanza animale? E non chiudeva i germi d’innumerevoli energie quella vita opaca e tenace su cui pur la coscienza di tanto dolore pesava senza soffocarla? – Come la scaturigine reca sul sasso arido l’indizio della segreta umidità sotterranea, così il bel riso repentino pareva salire da quel nucleo di gioia nativa che ogni più misera creatura conserva nell’intimo della sua propria inconsapevolezza. E per ciò su la mia commozione si chiarì un pensiero d’amore e d’orgoglio: «Io potrei fare di te un essere di gioia

Allora i miei occhi si armarono di una curiosità nuova; e m’assalì quasi una smania inquieta di riguardare, di considerare più attentamente le tre persone, come se non le avessi bene vedute. E notai anche una volta qual arduo enigma di linee sia ogni forma feminina e quanto sia difficile vedere non pur le anime ma i corpi. Quelle mani in fatti, alle cui dita lunghe avevo cinto i miei più sottili sogni come anelli invisibili, quelle mani mi sembravano già diverse apparendomi come i ricettacoli d’infinite forze innominate da cui potevano sorgere meravigliose generazioni di cose nuove. E imaginai, per un’analogia strana, l’ansia e l’orrore di quel giovine principe che, essendo stato chiuso in un luogo oscurissimo con la necessità di eleggere il suo destino fra gli inconoscibili destini recatigli da messaggiere taciturne, passò tutta la notte palpando le mani fatali che si tendevano verso di lui nella tenebra. Le mani nella tenebra: – v’è forse una più paurosa imagine del mistero?

Quelle delle tre principesse nubili posavano nella luce, nude; e guardandole, io pensavo agli infiniti gesti increati ch’erano in loro e alle miriadi di foglie nasciture che erano nel giardino.

Anatolia, accorgendosi del mio sguardo intento, sorrise.

Ma perché voi guardate con tanta assiduità le nostre mani? Siete un chiromante, forse?

Sono un chiromante – io risposi per gioco.

Leggete allora le nostre sorti.

Mostratemi la palma sinistra.

Ella mi mostrò la palma; e le sorelle imitarono il suo atto. E io mi chinai fingendo di esplorare in ciascuna le linee della vita, della congiunzione e della felicità. «Quali sortipensavo intanto, dinnanzi a quelle tre belle mani tese come per ricevere o per offerire, mentre la pausa nutriva le mie inquietudini con le mille cose inespresse e inesplicate che si generavano in lei. «Forse anche nello stilo ferreo del fato avvengono quei cangiamenti subitanei cui è soggetta la declinazione degli aghi magnetici. Forse tutte le volontà che io porto in me medesimo, oscure o lucide, esercitano già la loro virtù commutatrice; e le sorti deviano tendendo verso un finale evento da cui trarrò il mio bene. Ma anche può essere che io sia il gioco di un’illusione generata dal mio orgoglio e dalla mia fede, e che il mio stato presente non sia se non quel d’un prigioniero tra prigionieri…»

Grandissimo era il silenzio, nella pausa: tale che nel percepirlo io mi sgomentai davanti all’immensità delle cose mute ch’esso abbracciava. Il sole rimaneva ancor velato. D’improvviso Antonello trasalì volgendosi rapido verso il palazzo, con l’atto di colui che oda un richiamo. Tutti lo guardammo inquieti; ed egli ci guardò smarritamente. Le mani delle sorelle si abbassarono.

Ebbene? – mi domandò Anatolia, con l’ombra della preoccupazione nella fronte. – Che avete letto?

Ho lettorisposi – ma non posso rivelare.

Perché? – fece ella riacquistando il suo sorriso. – Tanto è terribile quel che sapete?

Non è terribile, – dissi – anzi è lieto.

Veramente?

Veramente.

Per tutte o per una sola?

Esitai un istante. Non penetrava ella inconsciamente con quella domanda la mia perplessità e non mi rammentava la scelta necessaria?

Non rispondete! – ella soggiunse.

Per tutte – io risposi.

Anche per me? – chiese Massimilla, trasognata.

Anche per voi. Non prendete forse il velo per vostra elezione? E non siete sicura di giungere infine alla beatitudine che ricompensa la rinunzia totale?

Come io la fissai nelle pupille, ella si tinse d’un rossore che mi parve quasi violento in quella pallidezza.

«Siate, siate quel fiore odorifero che dovete essere, e che gittiate odore nel cospetto dolce di Dio!» ha scritto per voi Santa Caterina.

Voi conoscete Santa Caterina! – fece la Clarissa, brillando di meraviglia nel suo rossore.

È la mia santa prediletta – io aggiunsi, lieto di vederla così attonita, tentato dal piacere di turbare e di abbagliare quell’anima che mi pareva ardente e malsicura. – Io l’amo pel suo aspetto purpureo. Nel Giardino del conoscimento di sé ella è come una rosa di fuoco.

La fidanzata di Gesù mi guardava, quasi incredula; ma il desiderio d’interrogare e di ascoltare si dipingeva sul suo volto, e nella sua fronte già un’ombra tenue indicava il solco dell’attenzione.

Il libro che io avevo meco stamani – ella disse con un leggero tremito nella voce, come s’ella mi rivelasse qualche intimitàera un volume delle sue Lettere.

Ho notato che da buona francescana voi mettete per segno nelle pagine un filo d’erba. Ma quel libro richiede un altro segno. L’erba vi si brucia come su l’orlo d’una fornace. L’essenza della terziaria è tutta in quelle sue parole: «Fuoco e sangue unito per amore!» Le avete in mente?

O Massimilla, – interruppe Oddo ridendo – tu puoi congedare il padre spirituale. Ecco che hai trovato la vera guida pel Cammino della perfezione!

Eravamo seduti su la sponda di un bacino disseccato, che era forse un antico vivaio, quasi interamente riempito di terriccio e tenuto dalle piante selvagge in mezzo a cui si nascondevano le mammole – certo numerose, a giudicarne dalla fragranza grande. Prossima in contro era la parete di bosso decrepita che già, nel mio primo entrare, aveva spirato verso di me quel medesimo effluvio dalle sue buche profonde. Scorgevasi, per le radure e per l’arco, il viale deserto con le sue statue mutilate e con le sue urne vedove.

È già stabilito il giorno per la vostra monacazione? – domandai a Massimilla.

Il giorno non è stabilito ancóra – ella rispose – ma sarà quasi certamente prima della Pasqua.

Presto, dunque. Troppo presto!

Antonello si levò in piedi, all’improvviso agitato da un’inquietudine insostenibile. Tutti ci volgemmo a lui. Egli guardò Anatolia, con un vago sbigottimento ne’ suoi occhi pallidi. Poi si rimise a sedere. Un malessere indefinito entrava in noi, come se Antonello ci comunicasse qualche parte della sua ambascia.

Ieri, a quest’ora, eravamo nel campo dei mandorlidisse Oddo, con nella voce l’accento del rammarico verso un piacere fuggito.

Mi risonarono spontanee nella memoria le parole di Antonello: «Bisogna condurle sotto i fiori

Bisogna che noi torniamo tutti – ruppi io vivacemente lacerando quella strana atmosfera di timori e d’ansie che senza causa nota stava per addensarsi su le nostre anime. – Bisogna che noi godiamo di questa primavera così dolce. Fra una settimana tutta la valle sarà fiorita. Io mi propongo di percorrerla tutta: di salire al Corace, di rivedere Scultro, Secli, Linturno… Come sarei felice se potessi ottenere la vostra compagnia! Non verreste volentieri? Spero che vorrete voi dare il buon esempio, Donna Anatolia.

Certo – ella rispose. – Voi ci offrite quel che è nel nostro desiderio.

E anche a voi, Donna Massimilla, sarà permesso il diporto. Come sapete, San Francesco compose il Cantico del Sole nella cella di canne che Santa Chiara gli aveva costruito dentro l’orto del monastero. I boschi, i fiumi, le montagne, le colline, secondo l’antica Regola, debbono essere i vostri fratelli e le vostre sorelle. Andare verso di loro è compiere una visitazione votiva… Me ne ricordo sempre. È indimenticabile. Te ne ricordi tu, Antonello?

Udendo pronunziare il suo nome, Antonello ebbe un sussulto.

Che dici? – balbettò confuso.

E il suo povero volto contratto esprimeva una tal sofferenza che io restai senza parola.

Sì, sì, andiamo, andiamo – egli soggiunse, simulando di aver inteso; e si levò di nuovo, in preda a un’agitazione manifesta, con l’aspetto di un maniaco, smorto e malfermo. – Andiamo via di qui! Anatolia, àlzati…

Egli parlava sommesso, come per tema d’essere udito da qualcuno nella vicinanza, empiendoci di sgomento.

Àlzati, Claudio. Andiamocene.

Anatolia corse a lui, gli prese le mani.

Eccola! Eccola che viene! – balbettò egli, fuori di sé, volgendo verso il viale i suoi occhi pallidi che parevano dilatati dall’allucinazione. – Eccola! Senti?

Perplesso e turbato a dentro, io da prima credetti ch’egli si sbigottisse d’un fantasma prodotto dalla sua follia. Ma anche al mio orecchio giunse un romore di passi che s’avvicinavano. E d’un tratto compresi, vedendo apparir tra i bossi la portantina.

Rimanemmo ammutoliti, immobili, trattenendo il respiro, al passaggio dello strano convoglio. S’udiva distinto il lieve scricchiolìo che facevano nell’attrito le stanghe sorrette dai due servi, in un silenzio gelido come quello che circonda le bare.

A traverso l’apertura dello sportello, sul fondo di velluto verdastro, io vidi allora il volto della principessa demente: irriconoscibile, contraffatto da un gonfiore esangue, simile a una maschera di neve, con i capelli rialzati su la fronte in guisa d’un diadema. Gli occhi larghi e neri splendevano su la bianchezza opaca della pelle, sotto l’arco imperioso delle sopracciglia, mantenuti forse nel loro splendore straordinario dalla visione continua d’un fasto inaudito. La carne del mento s’increspava su i monili ond’era cinto il collo. E quella enormità pallida e inerte mi risuscitò nell’imaginazione non so qual figura sognata di vecchia imperatrice bisantina, al tempo d’un Niceforo o d’un Basilio, pingue e ambigua come un eunuco, distesa in fondo alla sua lettiga d’oro.

«Ecco, ci scopre, si ferma, discende, viene a noi» io mi fingeva con un’ansietà crescente, quasi aspettando la prova della realtà di ciò che sembravami una forma inverisimile sul punto di dissolversi e di rientrar nell’inesistenza come un sogno al risveglio. «Ecco, chiama qualcuno, si mette a parlare, chiede chi io sia, m’interroga…» Imaginai il suono reale di quella voce, in quel silenzio: il dialogo tra quei figli devoti a un sacrifizio inumano e quella madre trapassata per la follia in un altro mondo ov’ella doveva attrarli inevitabilmente l’un dopo l’altro. E dal mio orrore compresi il fremito profondo di repugnanza istintiva ch’era stato per Antonello un avviso misterioso, non diverso da quello ond’è assalito l’armento nel chiuso all’appressarsi della fiera che deve divorarlo.

Ma ella passò senza accorgersi di noi, senza battere palpebra, dileguando tra gli alti bossi. Due serventi vestite di grigio come le beghine, taciturne e tristi, scolorate dal tedio e dalla stanchezza, seguivano la portantina da presso; e le loro braccia abbandonate lungo i fianchi ondeggiavano ad ogni passo come i rosarii appesi alle loro cinture, come cose morte.

Rivedevo il volto gonfio ed esangue della principessa Aldoina e la lugubre fatica dei servi e le due grige larve seguaci e tutti gli aspetti dello strano convoglio, mentre cavalcavo su la via di Rebursa novamente solo. Qualche viva parte di me era rimasta nel grande claustro, ma pur tuttavia sentivo nell’intimo la gioia d’esser novamente solo.

Rivedevo i gesti del commiato presso il cancello e la meravigliosa profondità ch’era negli occhi delle prigioniere e le lontananze quasi mitiche del giardino vanenti dietro le belle persone. E, nel tempo medesimo, tutti gli altri fantasmi dell’intensa vita da me vissuta in quelle brevi ore si ammassavano nella mia anima come una ricchezza varia e confusa, raccolta per esser disposta a ornamento della mia reggia segreta.

«Quali sontuosità!» mi diceva il demònico apparendomi non senza letizia e orgoglio. «Quali magnificenze in un sol giorno! Tu non potresti meglio servire il tuo scopo, che è di vivificar tutto e di estrarre da ogni più arida cosa la vita. Non riconosci ora la saggezza del mio ammonimento mattutino? Non benedici al rigore della tua lunga constrizione, onde hai questo frutto che t’inebria? La tua poesia, come la tua volontà, è senza limiti. Tutto ciò che nasce ed esiste, intorno a te, nasce ed esiste per un soffio della tua volontà e della tua poesia. E pur nondimeno tu vivi nell’ordine delle cose più reali, perocché nulla al mondo sia più reale di una cosa poetica

Dichinava il giorno su la valle ondulata del Saurgo; e ai raggi obliqui le terre fulve s’arricchivano di oro, mentre le chiare nuvole stavano assise in cerchio su i culmini delle rocce come su’ più alti gradi d’un anfiteatro, con attitudini feminee, aspettando che la sera le vestisse di porpora.

«Omai tu potresti fecondare il sale» mi diceva il demònico. « dove il tuo spirito s’inclina, l’ubertà si dilata subitamente. Ma pur tu hai teco il favore della Fortuna: tu sei entrato nell’ignoto e nell’impreveduto non come colui che tenta ed esplora incerto, ma come colui che è atteso ed eletto alla ricolta in un campo ove s’adunano tutte le maturità più superbe, intatte ancóra e pronte a riempire il cavo delle sue mani quante volte gli piaccia di protenderle nella luce o nell’ombra. Tu sei entrato in un giardino chiuso, delizioso e spaventoso come quello delle antiche Esperidi. La felicità ti ha sorriso per tre sembianze, tra la follia e la morte, a similitudine di quell’effigiato marmo lunense che splendeva tra due nere colonne. Non v’è forse per te nel componimento di tal figura un senso nascosto

«O despota,» io gli risposi «v’è certo un senso nascosto nella figura che tu mi rischiari, e io lo conoscerò. Ma, poiché la perfezione di quella trinità m’attira e poiché è necessario pel mio cómpito eleggere, io rimango perplesso e non senza timore d’esser deluso come un uomo

E il demònico: «Non pur da mane ma a sera tu temi vanamente! Né è questo il tuo solo fallo; ché già dianzi, al conspetto delle beatrici, dopo aver composto su la bellezza delle loro mani ignude una bella musica, tu rammaricandoti di non poterle tutte a un tempo condurre alle tue case ti sei sdegnato contro il sopruso del pregiudizio e del costume. Ora, così facendo, tu ti sei umiliato non pure a riconoscere la potenza dell’altrui legge ma a disconoscere la potenza del tuo sogno, che sola è sacra. Perché aspiri tu al possesso legittimo dei corpi, quando le imagini ideali ornano già della loro triplice grazia la casa del tuo sogno? Tu non potresti togliere le tre prigioniere dalla loro carcere senza toglierle pur dall’incanto che le trasfigura. Grandissimo numero di misteriose rispondenze ondeggia tra quelle vite profonde e i luoghi taciti ove elle soffersero e t’aspettarono. La loro grazia, la loro desolazione e il loro orgoglio traggono dalle virtù occulte d’infiniti elementi il fascino in che ti sei compiaciuto. Così le nobili piante con lunghe radici suddivise in miriadi di fibrille assorbono dall’intimo grembo della terra le energie immortali che pel saliente impeto dello stelo espresse alla luce si sublimano nel prodigio della corolla e del profumo. Puoi tu, o poeta, raffigurarti Egle Aretusa e Ipertusa cacciate dal loro giardino? Eracle vestito-di-stelle, quando penetrò in quel paradiso occidentale per rapirvi i frutti d’oro, rinunziò a trar seco le figlie della Notte poiché pur nella sua anima atroce sentì ch’egli avrebbe menomato e forse distrutto il mistero paradisiaco di lor bellezza

«O despota,» gli dissi allora «io penso a Colui che deve venire.»

E il demònico: «Ben sia questo sempre il sommo de’ tuoi pensieri. Ma pur dianzi la necessità della scelta ti si presentava come una prova crudele, cagione di dolore e di sacrifizii inevitabili; e il cuore te ne doleva. Considera che nessuna Moira è più del Dolore degna che uno la invochi perché presieda a una generazione. Nulla nel mondo va perduto; e cose inaudite possono talora nascere dalle lacrime. Considera che la potenza massima del volere non si manifesta nella prontezza dell’eleggere tra più offerte o nella fermezza del resistere a più impulsi, ma sì nell’arte di conferire agli indistinti moti della natura efficacia lucidità e dignità di forze riconosciute e dirette. Considera che v’è un modo di esser pari sempre all’evento, nelle vicissitudini dell’incertissima vita. Fuvvi già alcuno il quale a fianco del suo tiranno, che pur con un cenno poteva dannarlo a morire, ebbe tal sembiante da far dubitare chi dei due fosse il verace signore. Sii tu dunque simile a colui, trattando l’evento con animo regale

La cupola del cielo s’era tinta d’una pallidità giacintina, e gli oliveti ne ricevevano la calma su le chiome ond’erano dissimulate le attitudini dolorose dei tronchi negri. Su i culmini delle rocce le nuvole assise non avevano ottenuto la porpora ma una veste di più delicato colore, che le faceva languire: pur taluna levava su le compagne il capo altiero aspirando a una corona di stelle.

«Tu puoi comporre intanto le tue musiche» proseguiva il demònico «su le meravigliose generazioni di cose che nascono dalle affinità e dai rapporti delle tre forme integrali quando le contempli puramente. V’è nelle loro congiunture e nelle loro attenenze un linguaggio straordinario che tu già comprendi come se tu medesimo lo avessi inventato. Di ciascuna delle loro linee tu puoi fare l’asse d’un mondo. Elle sembrano darti la gioia del continuo creare e del continuo scoprire, e aiutarti a compiere la tua unione con una parte di te medesimo rivelata inaspettatamente. Elle sembrano riversare in te la vita che da te ricevettero in un tempo immemorabile. – Non avevi tu gioito di loro prima ch’elle oggi ti sorridessero? Stando in silenzio al loro fianco, non sentivi tu la tua anima carica come una nube

«O despota» io gli dissi sentendo la mia anima rivolgersi con desiderio infinito verso il giardino da cui mi allontanavo nel vespero armonioso «o despota, è vero: stando in silenzio al loro fianco ho provato una voluttà più forte che se avessi disciolto le loro capellature o premuto con le labbra le loro nuche belle; e ancor ne sono pieno. Ma pur vorrei, cadendo l’ombra, tornare laggiù nascostamente e chinarmi invisibile su i petti virginei e quivi molto indugiare; perché penso che una grande dolcezza e una grande tristezza quei petti esaleranno nell’ombra verso di me, le quali io non conoscerò mai!»



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