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… a sedere, con le dita delle mani insieme tessute, tenendovi dentro il ginocchio stanco.
Dov’è più sentimento, lì è più martirio.
lo stesso
Con un turbamento visibile elle ascoltavano le melodie infinite della primavera, inclinandosi o volgendosi talvolta verso le loro proprie ombre che le precedevano o le seguivano quali azzurre figure prostese a baciare la terra. Una confusa gioia di libertà e di speranza passava talvolta nei loro occhi abbagliati; una parola senza suono schiudeva talvolta le loro labbra rendendole simili agli orli delle coppe traboccanti. E, quando elle si soffermavano, io pensavo con un’intima ebrezza alla piena che le soffocava.
Quel che di tratto in tratto noi dicevamo doveva sembrare anche a loro inutile; ma valeva a farci sentire quanto fosse profonda la nostra vera vita. Uno sguardo fuggevole, una reclinazione del capo, una pausa breve bastavano a commuovere in imo quegli abissi ove assai raro e fievole giunge il lume della coscienza comune; mentre quel che dicevamo era per noi lontano come per le infime radici degli alberi il susurro delle cime.
Nulla poteva eguagliare in singolarità di bellezza quella campagna austera che fioriva. Su quella terra fulva e aspra come la giubba del leone le candide e rosee fioriture evocavano i fantasmi delle donzelle trepidamente piegate su i petti vasti e vellosi dei giganti leggendarii. I raggi del sole creavano intorno ai petali diafani quello splendore mobile che hanno le pietre fini. Qua e là refulgevano in duplice baleno i bidenti politi dalla gleba infranta.
Noi sentivamo quanto fosse profonda la nostra vera vita. E a poco a poco, per consenso concorde, tralasciammo di proferire quelle parole vane che non valgono se non a rompere la gravità dei silenzii e a dissipare la nube troppo densa dei sogni o dei pensieri. Una comunione più lucida ci congiunse; si formò intorno a noi un’atmosfera divinatoria simile forse a quella in cui respirano i mistici; e, senza parlare, ci scambiammo qualche stupendo segreto. Eravamo talvolta così impregnati di voluttà che le nostre pupille n’esalavano un flutto in uno sguardo e i nostri minimi gesti ne trasmettevano senza contatto quanta ne può dare la carezza più lenta. I petali che cadevano ai nostri piedi, dai rami appena commossi, ci ammollivano stranamente come una confessione di languore e una complicità degli alberi felici nell’allegarsi. inclinate su la zolla e torte e quasi convulse, ci eccitavano con l’esempio di uno sforzo spasimoso che doveva convertirsi in un dono inebriante. E dalla foglia caduca e dal magro sermento noi sentivamo in virtù ideale l’olio odorifero della mandorla e la fiamma d’oblio espressa dall’uva.
Una sùbita vertigine di desiderio mi prese un giorno, quando vidi una goccia di sangue su la mano di Violante ferita da uno spino a traverso i fiori nivei di una siepe. Ella sorridendo ritrasse la bella mano che s’imperlava; e, poiché eravamo per caso discosti alquanto dalle sorelle e forse non veduti, io provai una bramosia selvaggia di premere le mie labbra su quel sangue e di sentirne il sapore. E la violenza ch’io feci a me medesimo per contenermi fu tale che ne tremai.
– La vista del sangue vi sbigottisce? – mi chiese ella, con una voce che la dissimulazione non valeva a render sicura né irrisiva.
E, come le sue pupille si fissarono nelle mie, mi parve ch’io mi coprissi tutto di pallore, poiché ebbi dentro di me un sentimento indefinibile che non si può rendere se non confusamente con l’imagine di una immensa ruota girante in giri precipitosi la quale d’un colpo si arresti. Una grande cosa stava per essere risoluta in quell’attimo, da entrambi; e, se bene fossimo l’uno di fronte all’altra in un’apparenza composta, la nostra attitudine interiore era quella della tensione che precede lo scatto inarrestabile. Le nostre due vite si protendevano con tutte le forze loro.
Ah, come potrei dimenticare io quel silenzio ardente in cui palpitò l’ala invisibile d’un messaggero che portava una parola non proferita? Qual virtù d’oblio potrebbe cancellare dalla mia memoria quella mano imperlata di sangue e quel roveto carico di fiori?
La voce di Anatolia da lontano ci richiamò; e noi ci movemmo, l’uno a fianco dell’altra, invasi subitamente da una stanchezza e da una tristezza corporali come se fossimo esciti da una lunga notte di piaceri.
Ma anche vi fu qualche istante in cui la mia anima più s’inclinò verso colei che ci aveva richiamati e verso colei che stava per dipartirsi. Io mi compiacqui in quella vicenda di amore, che non dissipava la mia forza ma la stimolava come il contrasto dei soffii eccita la vampa. Sembravami di aver trovato una nuova specie di percezioni: le più strane e le più diverse si coordinavano spontaneamente in me. Talvolta ne nasceva una musica così nuova e così bella che sembravami d’esser sul punto di trasfigurarmi; e pensavo che fosse per effettuarsi il mio desiderio di divenire un dio.
Pensavo: «Se già vi fu un dio che nel tempo novello amò assidersi sotto gli alberi floridi ed estrarre dagli involucri di scorza le amadriadi segrete per accarezzarle su le sue ginocchia, egli certo non provò maggior gaudio di quel ch’io provo raccogliendo in me le essenziali bellezze di queste creature deliziose e mescendole con la stessa facilità con cui egli poté confondere le varie chiome obbedienti delle sue ninfe arboree a comporre un’armonia di ori.»
Così talvolta io mi credeva di vivere in un mito formato da me medesimo a simiglianza di quelli che produsse la giovinezza dell’anima umana sotto i cieli dell’Ellade. L’antico spirito di deità vagava per la terra come quando la figlia di Rea fece dono a Trittolemo delle sue spiche affinché le spandesse ne’ solchi e per lui tutti gli uomini godessero del beneficio divino. Le energie immortali circolanti nelle cose parevano pur sempre risovvenirsi dell’antica trasfigurazione che per la gioia degli uomini le aveva convertite in grandi imagini di bellezza. Come le Càriti, come le Górgoni e come le Moire, tre erano le vergini che m’accompagnavano per mezzo a quella primavera misteriosa. E io amavo imaginar me medesimo simile a quel giovine, raffigurato sul vaso di Ruvo, cui adduce sul limitare d’un mirteto un Genio aligero. Sopra il suo capo è scritto il nome di Felicità; e tre vergini lo circondano: l’una recante nelle sue mani un piatto carico di frutti, e l’altra tutt’avvolta in un manto costellato, e la terza col filo di Lachesi tra le dita agili.
Un giorno ci abbattemmo in uno spazio di terra recinto ove gli agricoltori aborigeni, perpetuando il costume religioso dei Gentili, avevano consecrato una quercia colpita dal fulmine.
– Ecco una bella morte! – esclamò Violante, appoggiandosi al riparo fatto di pali in forma d’un parallelogrammo.
Una santità quasi terribile stava sul luogo solitario. Non dissimile doveva essere l’aspetto del bidentale che i sacerdoti latini consecravano col sacrificio di un’agnella bienne.
– Voi commettete un sacrilegio – io dissi a Violante. – Non si può toccare il recinto sacro senza profanarlo; e il Cielo punisce con la frenesia la persona colpevole…
– Con la frenesia? – fece ella scostandosi, per un istinto superstizioso, e col suo atto segnando d’un’impreveduta gravità la mia allusione alla credenza pagana.
In un lampo rividi il volto gonfio ed esangue della madre folle e gli occhi smarriti di Antonello, e riudii quel tragico grido: «Noi respiriamo la sua follia»; e non so qual sensazione gelida di fatalità mi corse.
– No, no, non temete! – dissi io involontariamente, aumentando forse l’ombra con quel segno palese di rammarico per l’accenno che doveva sembrare un tristo augurio o un presagio crudele.
– Non temo – rispose colei, senza sorridere, appoggiandosi di nuovo al recinto.
Così da una vana parola nacque una grande ombra.
L’albero fulminato sorgeva dinnanzi a noi, nerastro e lapideo come il basalto, mostrando il suo possente tronco aperto fino alle radici da una squarciatura che evocava la terribilità d’una forza vindice. Privo de’ rami nel fianco percosso, ne conservava in sommo dell’altro fianco alcuni, simili a braccia contratte, che levavano verso il sole la disperazione implacabile dei loro gesti. Ad ogni angolo del recinto stava infisso un teschio d’ariete dalle corna ricurve, divenuto bianchissimo sotto intemperie senza numero. Tutto era immoto e morto, e sacro, e d’aspetto primordiale.
Giungevano dall’alto azzurro, di tratto in tratto, strida di sparvieri.
Veloci passarono i giorni; e sembrarono giorni d’addio verso colei che stava per dipartirsi.
– Guardate la primavera con tutta l’intensità delle vostre pupille – io le diceva – perché non la vedrete più, mai più!
Io le diceva:
– Riscaldate le vostre mani al sole, immergetele nel sole, queste povere mani; perché fra poco le terrete incrociate sul petto o nascoste sotto il grembiale di lana bruna, nell’ombra.
Io le diceva, mostrandole un fiore:
– Ecco un prodigio di cui bisogna lodare il Cielo. Considerate le innumerevoli scritture che contiene il tessuto argentino di questa corolla, e il rapporto occulto che corre tra il numero dei petali e quello degli stami, e la tenuità dei filamenti che sostengono i lobi delle antere, e queste tuniche diafane e queste reticole e queste valve e queste membrane coperte d’una pelurie quasi impercettibile, ov’è chiusa l’agitazione misteriosa della fovilla, e tutta la divina arte che si rivela nella struttura di questo corpuscolo vivente, pur nella sua fralezza dotato d’infinite potenze per amare e per fecondare. Considerate la rete mobile delle ombre che fa sul terreno il fremito delle foglie e quella che fa su la parete il raggio riverberato dall’acqua tremolante, l’una azzurra, l’altra d’oro per cullare la vostra malinconia; e le piccole dita bionde che si alzano in cima ai rami dei pini; e le stille di rugiada che pendono in cima alle reste dell’avena; e le esilissime nervature nelle ali delle api; e gli occhi verdi splendenti delle libellule fuggevoli; e le strane imagini che sorgono dalle macchie dei licheni, dagli screpoli dei tronchi, dalla disposizione delle selci… Raccogliete tutte queste meraviglie sotto le vostre palpebre che dovranno rimaner tanto tempo abbassate dinnanzi al Signore Gesù crocifisso. Nel vecchio monastero della regina Sancia non vi sono orti, io credo, ma cortili di pietra.
– Perché mi tentate? – ella mi chiedeva. – Perché vi compiacete nel turbare la mia volontà così debole? Siete forse inviato da Dio per esperimentarmi?
– Non voglio turbare la vostra volontà – io le rispondeva – ma oso darvi un consiglio fraterno perché possiate meno soffrire. Penso che quando sarete sepolta, quando non potrete accostare la guancia a una grata senza ferirvi contro le punte, voi cresciuta in un giardino, avrete qualche settimana di furiose impazienze, e tutte le visioni dell’aria aperta passeranno nella vostra memoria. Allora proverete una tortura inaudita se non potrete rappresentarvi con esattezza i minuti screzii neri e gialli che ornano il dorso della lucertola o la tenera foglia lanuginosa che spunta sul ramo del melo. Io conosco la smania di queste curiosità tardive. Una volta amavo appassionatamente un gran levriere di Scozia donatomi da mio padre. Era una bestia magnifica, elegantissima, d’una nobiltà senza pari. Quando morì, io caddi in una profonda afflizione; e mi tormentava singolarmente il rammarico di non potermi rappresentar in forma precisa i granelli d’oro che costellavano i suoi occhi bruni e le macchie grige che maculavano il suo bel palato roseo intraveduto talvolta in uno sbadiglio o in un latrato. Bisogna dunque che noi guardiamo sempre con pupille attente, specie le creature che più amiamo. Non amate voi le cose che dianzi indicavo alla vostra attenzione e non siete per abbandonarle? Non siete per mettere tra voi e loro una specie di morte?
Ella stava a sedere, con le dita delle mani insieme tessute, tenendovi dentro il ginocchio stanco. La sua grazia delicata era un po’ contratta dall’inquietudine che le dava l’ambiguità del mio dire tra grave e futile, tra ingannevole e sincero. E così parlandole io provavo un piacere analogo a quello che avrei provato scompigliandole le bende lisce dei capelli su cui pendevano le forbici argentee della tonsura. «Tondeantur in rotundum…» Avevo ancor limpida nella memoria la freschezza del giovenile riso ch’erale sgorgato dalla bocca il primo giorno, nell’ultima ora, empiendomi di meraviglia. E mi piaceva d’assembrar le imagini di quelle cose variopinte ed esigue intorno alla monacanda che nel già lontano pomeriggio di febbraio m’aveva rivelato come un segreto miracolo la fioritura notturna d’un suo biancospino.
Io la ricercava come si ricerca quel bene del quale si conosce la brevità. Ella m’attraeva come una pura forma di giovinezza che si volgesse a me lacrimosamente sorridendo dalla soglia di una porta oscura, sul punto di entrarvi e di perdervisi. Avrei voluto dire alle sue sorelle: «Lasciate ch’io l’ami finché ella è di questo mondo, e ch’io versi qualche aròmato su i suoi piccoli piedi!»
Spesso m’avvenne di rimanere solo con lei, nelle mie lunghe visite, e di poter trattare in qualche spirituale colloquio la sua anima così duttile e così bisognosa di servire. A quando a quando Anatolia scompariva, come una delle due donne grige si presentava a invocarla con lo sguardo. Violante da alcuni giorni si mostrava difficilmente, pareva schivare la mia compagnia, considerarmi con indifferenza, rioccupata dal suo tedio consueto. I due fratelli non sopportavano a lungo la gran luce del cielo aperto. Onde m’avvenne più volte di rimaner solo con la Clarissa, nell’atrio esterno su un sedile di marmo ch’era sotto la statua dell’Estate, o nell’ombra delle scalee già verdeggianti, o su la sponda del vivaio inaridito.
Io le diceva:
– Forse voi vi siete ingannata nell’elezione del vostro sposo, cara sorella. Quando udrete il vescovo annunziare Ecce sponsus venit, voi tremerete nell’intimo cuore credendo che una mano bella e forte sia per distendersi verso di voi e per raccogliervi tutta quanta nel cavo della palma come acqua; poiché è ben questo l’atto dolce e imperioso che voi aspettate dal vostro dominatore e che si conviene alla vostra naturale fluidità, cara sorella. Ma forse rimarrete delusa, a piè dell’altare. E, se oserete levar gli occhi, vedrete fra i ceri ardenti immobile lo Sposo annunziato e le mani di Lui trafitte e il capo di Lui cinto di spine. Sembra, cara sorella, che sia necessario sconficcare i ferri crudeli; i quali furono assai profondamente infissi. E sembra che a compiere un tale atto occorra una forza terribile. Bisogna quindi curar le piaghe con infinita pazienza e con balsami composti di erbe che non si posson cogliere se non in certe sommità vertiginose ove l’aria è irrespirabile. E, rimarginate le piaghe, convien rinfondere nelle vene il sangue che ne sgorgò. E, compiuta alfine la durissima opera, accade talvolta che le mani sanate si ritraggano d’improvviso. Sembra che assai rare sieno quelle spose cui è concesso vederle veracemente rivivere; e pur di quelle elette appena una, in qualche mistica sera, ha la suprema gioia di sentirsi prendere tutta quanta, chiudere tutta quanta nel pugno constrittore, com’è ne’ vostri vóti…
– Voglia Iddio ch’io sia quell’una!
– Ah, cara sorella, – io le diceva – pensate quale immensa forza debba avere in sé quell’una per ravvivare una mano morta e per contrarla così violentemente!
– Io non ho alcuna forza, ma la implorerò dal Signore.
– Il Signore non potrà se non rendervi la forza che voi medesima gli avrete infusa, Massimilla.
– Tacete, vi prego! – ella supplicava. – Temo che le vostre parole sieno empie.
– Non sono empie: potete ascoltarle. Non avete voi nella memoria la prima strofe della Glosa di Santa Teresa? V’è là un Dio fatto prigioniero. Pensate qual potenza occorra per incatenare il Signore! Quando il vescovo vi porrà sul capo la corona della verginale eccellenza, le vostre labbra dovranno pronunziare alcune parole ammirabili; nelle quali io sento e vedo non so che pondo e che splendore misteriosi. «Et immensis monilibus ornavit me.» Parole ammirabili! Non è vero?
Ella ora mi guardava con tanta passione che tutta la sua piccola anima tremava tra le sue ciglia come una lacrima, e io avrei potuto suggerla inclinandomi appena.
– Forse io vi faccio male, un poco – le dissi. – Ma veggo in fondo ai vostri occhi un sogno così ardente che temo per voi, cara sorella; poiché la vita a cui vi apparecchiate non potrà essere conforme al vostro sogno e alla vostra natura. ove seggono le suore, mentre il vescovo assistito da un cappuccino siede di qua dall’ostacolo reggendo tra le mani un bacile d’argento pieno di cenere. Uno sportello è aperto nella grata, e le Clarisse a una a una vengono e s’inginocchiano. Il vescovo introduce pel vano il braccio vacillante e segna di cenere le fronti a una a una. Le segnate si levano e tornano ai loro stalli, come larve, disfiorando il pavimento con i silenziosi piedi calzati di panno. Tutto si compie in silenzio e tutto è gelido come la cenere. Ah, cara sorella, quando avrete ricevuto anche voi quel gelo, chi mai riscalderà la vostra piccola anima?
– Chi riscaldava l’anima di Santa Chiara e la faceva ardere? – mi oppose la monacanda, come riscotendosi per non esser vinta, mentre le sue gote si coloravano.
– Un uomo: Francesco d’Assisi. Voi non potete imaginare la Damianita Convenite che la differenza è grande fra l’eremo luminoso di San Damiano e la clausura del vostro monastero angioino. Qui nessun incendio ma un’eguale ombra grigia ove l’umiltà si fa inerte… Di quale specie è la vostra umiltà, Massimilla? Io penso che il vostro bisogno di schiavitù sia molto altiero.
Ella taceva, scoraggiata e anelante; ed era così dolce e così misera nel suo sbigottimento che io avrei voluto prenderla su le mie ginocchia.
– Quando appariste su per la scalea, il primo giorno, sùbito mi deste imagine dell’ermellino. Ora, sembra che nella nostra imaginazione il candore dell’ermellino non possa andar disgiunto dall’orgoglio della porpora, tanto siamo assuefatti a considerar l’uno e l’altra riuniti nei manti regali. Non forse voi portate il vostro manto a rovescio, Massimilla, per modo che la porpora è di sotto invisibile? Tale è bene la maniera d’una Montaga.
– Io non so – ella rispondeva smarritamente. – Tutto quel che voi dite, pare che debba essere.
Ed era come se ella confessasse: – Io sarò quale voi mi vorrete.
– Se io fossi il vostro sposo, Massimilla, – soggiunsi, per accarezzare la sua piccola anima tremante – io vi darei una casa ove il giorno entrasse a traverso lamine d’alabastro color di miele o vetri istoriati d’istorie sibilline; e vi farei servire da cameriste e da silenziarie, e intorno alla casa vorrei crearvi un giardino di alberi che prodigassero fiori e lacrimassero aromi, e popolarlo di animali leggiadri e miti come gazzelle, colombe, cigni, paoni. E quivi, in armonia con tutte le cose, voi vivreste per me solo. E io, ogni giorno, dopo aver appagato con qualche atto efficace il mio bisogno di predominio su gli uomini, verrei a respirare l’aria sublimata dal vostro silenzioso amore, verrei a vivere presso di voi la vita pura e profonda dei miei pensieri. E qualche volta io vi comunicherei una febbre veemente; e qualche volta io vi farei piangere un pianto inesplicabile; e qualche volta io vi farei morire e rivivere per essere ai vostri occhi più che un uomo.
S’apparecchiava ella intanto alla dipartita o s’indugiava attendendo con impazienza quel che per lei tuttavia era inatteso?
Come io saliva pel viale dei vecchi bossi ove prima erami apparsa Violante sotto il grande arco, ella m’uscì incontro quasi nel medesimo luogo sorridendo d’un sorriso nuovo.
– Voi avete oggi l’aspetto d’un angelo che rechi il buon messaggio – io le dissi. – È tutto in voi lo spirito d’aprile.
Ella mi porse la mano ch’io presi e tenni nella mia alquanto.
– Che cosa dunque dovete annunziarmi? – le domandai leggendole negli occhi la novità che la trasfigurava.
Ella si smarrì, sotto il mio sguardo; e anche una volta si tinse d’un rossore che mi parve quasi violento in quella pallidezza.
– Nulla – rispose.
– Eppure – io le dissi – v’è in tutta la vostra figura un’annunciazione. Voi me la comunicherete senza parlare, se mi concederete di camminare al vostro fianco per qualche tratto. Non ho mai sentito come in questo momento, Massimilla, la vostra armonia.
Ella certo credeva ch’io le parlassi di amore, tanto era confusa. E raggiava da tutta la sua figura uno spirito di gentilezza così vivo ch’io ripensai quelle gentili donne adunate nelle imaginazioni di Dante giovine; dalle cui labbra a quando a quando, come cade «l’acqua mischiata di bella neve», cadono parole mischiate di sospiri. E poiché io l’amava inumanamente, anche mi tornarono alla memoria alcune delle antiche parole. «A che fine ami tu?… Dilloci, ché certo il fine di cotale amore conviene che sia novissimo.»
Noi avevamo lasciato il viale medio per internarci nel labirinto erboso. Cantavano gli uccelli ospiti del claustro, gli insetti lucidi ronzavano intorno; ma il mio orecchio era attento al fruscio che l’orlo della gonna produceva inclinando le cime dell’erbe cresciute.
Confessò alfine Massimilla, con timida voce:
– La mia partenza è differita.
Soggiunse, come per giustificarsi:
– Potrò così celebrare con i miei l’ultima Pasqua…
Ma a me parve, subitamente, ch’ella mi fosse caduta fra le braccia e che la sua guancia aderisse al mio petto e che per disgiungerla da me io dovessi farla sanguinare.
Nondimeno esclamai:
E non altro dissi, perché il mio turbamento al contatto di quella vita palpitante fu così fiero che m’impedì qualunque simulazione pietosa. Certo, ella attendeva da me parole di amore e di allegrezza, e ch’io le prendessi le mani, e ch’io le domandassi: – Volete rinunziar per sempre ai vostri vóti ed essere tutta mia? – Questo ella attendeva. E, sentendo così vicina a me la sua angoscia, sentendomi quasi ventar sul viso come una vampa la sua bramosia di donarsi e d’esser felice, io era agitato da un fremito non dissimile a quello dell’uomo cui d’un tratto è posta sotto gli occhi una larga lacerazione che discopre gli intimi tessuti della carne viva. V’era qualche cosa di quel raccapriccio nella mia sofferenza. Fino a quell’ora io m’ero dilettato della cara anima come d’una capellatura morbida ove sia dolce insinuare le dita pensando che domani sarà recisa. Ed ecco, quell’anima aderiva alla mia con tutte le sue pene.
«Io potrei fare di te un essere di gioia!» Era come una promessa, era quasi un desiderio. E l’una e l’altro trasparivano pur nelle ultime mie parole; e veramente, fino a quell’ora, inclinandomi verso la cara anima io aveva di tratto in tratto inteso l’orecchio a percepire un indizio di quella vena occulta ond’era sorto un giorno il bel riso repentino. Ah perché doveva io dunque deludere una speranza tanto dolorosa e rinunziare a cingere di quella silente adorazione il mio potere?
Noi eravamo soli, in una strana solitudine ove io sentiva quasi direi la vacuità dello spazio aereo che avrebbero occupato le altre due figure se presenti accanto a noi. E l’ansietà che quell’assenza produceva nel mio spirito era penosa come l’affanno dell’attesa. – Dov’erano, che facevano Anatolia e Violante in quell’ora? Stavano anch’elle nel giardino? – Io le vedevo spuntare alla svolta d’ogni sentiero, e imaginavo l’espressione del loro primo sguardo nell’incontrarci. E consideravo la singolarità del contegno che entrambe avevano mantenuto in quei giorni e cercavo di penetrarne il significato vero. Anatolia m’appariva con quel suo benigno ed eroico sorriso di martire, rassegnata a spremere fino all’ultima stilla tutte le virtù del suo cuore per lenire mali immedicabili; m’appariva con que’ suoi occhi puri che avevano talvolta un bagliore invitevole, come le acque dei laghi nelle leggende rivelano con un insolito riflesso l’esistenza dei sommersi tesori. Chiusa nel suo tedio e nel suo disdegno, Violante m’appariva in un’attitudine enigmatica che poteva sembrar quasi ostile, infondendomi una specie di malessere non dissimile a quello che danno i presentimenti funesti; poiché ella aveva dietro di sé per la mia imaginazione l’ombra della sua roccia fatidica e il mistero delle sue remote stanze pregne di profumi mortali.
Io avrei voluto chiedere a colei che mi veniva da presso: – V’è qualche cosa di mutato nella voce delle vostre sorelle dilette quando elle vi parlano, quando parlano tra loro? Hanno elle talvolta nella voce e nello sguardo qualche cosa che vi fa male? E piomba talvolta su voi, mentre siete l’una accanto all’altra respiranti nel medesimo cerchio, piomba su voi un silenzio che vi soffoca, simile a quello che precede gli uragani? E sentite allora inaridirsi d’un tratto la vostra tenerezza e sollevarsi dal fondo un’acredine simile a un tossico? E, ditemi, piangono le vostre sorelle in disparte? O anche v’accade, talvolta, di piangere insieme?
Così avrei voluto interrogare la taciturna e soffrire d’amore con lei.
Io la guardai. Ella soffriva e gioiva.
– Voi portate sempre un libro – io le dissi, per rompere alfine l’incanto ambiguo – al modo di una sibilla.
– È il libro che portavo il primo giorno – disse ella, con quel suono indefinibile che rivela nella voce l’umidità delle lacrime.
– S’è bruciato.
– Metteteci dunque una rosa rossa.
Ma ella aveva nella sua commozione una grazia così umile, e tanto ingenuamente lasciava trasparire l’intimo ardore da cui era compresa, ch’io non seppi discostarla da me né seppi rifiutar la dolcezza di sentirla struggere a poco a poco.
– Sediamoci – le dissi. – Leggiamo insieme qualche pagina. Vi piace il luogo?
Era una piccola eminenza prativa, constellata di anemoni, quieta, a cui alcuni tassi in forma di piramidi davano quasi un aspetto cimiteriale. Nel centro una cariatide, ripiegata in modo che il petto toccava quasi le ginocchia, sosteneva la lastra marmorea d’un orologio solare. E quivi, come presso una mensa, stavano due sedili per una coppia di amanti che guardando l’ombra dello gnomone volessero provare la voluttà malinconica di un lento e concorde perire. Ancóra scorgevasi incisa nel marmo, sotto le linee orarie, la sentenza:
– Sediamoci qui – io dissi. – È un luogo delizioso per godere il sole d’aprile e per sentir fluire la vita.
Una lucertola verde ci guardava con i suoi piccoli occhi lucenti, ferma sul quadrante, senza timore, come un essere familiare. Quando ci sedemmo, disparve. Allora io posi le mani sul marmo, che era caldissimo.
Massimilla vi pose anch’ella ambe le mani, bianche sul bianco; e ve le mantenne. Il punto d’ombra attingeva l’estremità dell’anulare, restando coperta dalla palma la cifra indicatrice dell’ora.
– Ecco che voi siete designata dallo stilo come l’ora della beatitudine – io le dissi perché gustavo profondamente l’armonia della sua grazia in quell’atto e perché così l’amavo.
Ella socchiuse gli occhi; e anche una volta la sua piccola anima tremò tra le sue ciglia come una lacrima, e io avrei potuto suggerla inclinandomi appena.
– La santa – soggiunsi toccando il libro – ha per voi nel flutto della sua prosa un verso divino, d’una soavità suprema, più soave di quelli che germinavano nella mente di Dante prima dell’esilio. «Stava quasi beata e dolorosa.»
Ella si sentiva circonfusa di luce e d’amore, come già forse ne’ suoi sogni reconditi; e beveva dalla mia parola e dalla mia presenza e dalla sua illusione e dall’aperta primavera un’ebrezza il cui ricordo doveva forse riempire tutta la sua vita. Non parlava, immobile nell’atto in che io l’avevo lodata; ma io compresi le cose ineffabili che diceva il sangue eloquente nelle vene delle sue belle mani ignude.
«Lasciate ch’io l’ami finché ella è di questo mondo!» ripetevo alle sue sorelle, poiché mi sembrava di veder rilucere i loro occhi tristi a traverso la fronda dei tassi. «Lasciatemi cogliere questi anemoni e versarli su la sua chioma che sarà tonduta!»
Ella stava quasi beata, e la sua inconsapevolezza più m’inteneriva, perché io l’amavo e le dicevo: «Io t’amo, ma a patto che domani tu muoia. Io ti do questa fiamma purché tu la porti teco nel tuo sepolcro. Tale è la necessità che ci preme.»
Ella si scosse, e si passò le mani su la faccia; e mormorò:
– Volete che andiamo? – le chiesi.
– No – rispose ella con un debole sorriso. – Secondo il vostro consiglio, io debbo saturarmi di sole. Restiamo ancóra un poco qui. Dianzi, volevate leggere qualche pagina.
Ella appariva estenuta come se fosse a pena rinvenuta da un deliquio.
– Leggete, dunque! – pregò, spingendo il libro verso di me.
Io lo presi, lo apersi e lo sfogliai qua e là, scorrendo con gli occhi qualche linea. L’ombra fugace d’una rondine passò su la pagina; e udimmo da vicino il fremito delle ali.
– Che meraviglia fu per me – ella soggiunse – quando quel giorno voi mi ripeteste l’esortazione di Santa Caterina! Io era ancóra tutta piena del suo spirito, e voi quasi indovino mi parlavate di lei…
Sentivo nella voce della clarissa una confidenza e un abbandono così profondi ch’ella non avrebbe saputo più palesemente significarmi: «Eccomi, io sono tua, io t’appartengo tutta quanta come nessun’altra creatura viva, come nessuna cosa inanimata potrebbe appartenerti. Io sono la tua schiava e la tua cosa.»
Veramente ella pareva possedere una qualità innaturale, pareva per sé abolire la legge che vieta agli uomini nell’amore il dono e il possesso perpetui e perfetti. Ella pareva veramente, nella gran luce del sole, trasfigurarsi per la mia imaginazione in una forma cristallina e fluida, in una liquida essenza ch’io potessi assorbire, di cui potessi impregnarmi come d’un profumo.
– Io credo – le dissi – che qualche volta leggendo questo libro voi dobbiate sentir la vostra anima evaporare come una goccia su un ferro arroventato. Non è vero? «Fuoco e abisso di carità, dissolvi oggimai la nuvola del corpo mio!» grida la santa. E voi avete segnato in margine queste parole. V’è in voi un’aspirazione costante a vanire.
Il suo volto bianco mi sorrise nel sole, su la bianchezza del marmo, quasi sparente.
– Ecco un altro segno. «Anima ebra, ansietata e affocata d’amore.» Eccone anche un altro. «Siate un’arbore d’amore, innestata nell’arbore della Vita.» Quale eloquenza di passione ha questa vergine! Ella affascina tutte le taciturne, perché parla e grida per loro. Ma ciò che rende prezioso il libro, a chiunque ami la vita, è l’abondanza del sangue che vi scorre, vi bolle e vi fiammeggia di continuo come su un altare di sacrifizio nel giorno delle grandi immolazioni. Pare che questa domenicana non abbia del mondo se non una visione vermiglia. Ella vede tutte le cose a traverso un velo di sangue ardentissimo. «La memoria s’è empiuta di sangue» ella dice. «Troverò il sangue e le creature, e berrò l’affetto e l’amore loro nel sangue.» Una specie di rossa demenza l’assale talvolta. «Annegatevi nel sangue,» ella grida «bagnatevi nel sangue, saziatevi di sangue, inebriatevi di sangue, vestitevi di sangue, doletevi di voi nel sangue, rallegratevi nel sangue, crescete e fortificatevi nel sangue!»
Io seguivo, parlando, negli occhi aperti e fissi di Massimilla il ritmo lento di un’onda che pareva aver non so qual rispondenza musicale con il suono della mia voce; e così nuova e strana era per me quella sensazione che io prolungavo il mio dire per tema d’interromperla.
Appena tacqui, in fatti, ella chinò la fronte; e in silenzio lasciò sgorgare dai suoi limpidi occhi due rivi di lacrime.
Non le chiesi perché piangesse; ma le presi le mani che erano come dolci foglie arse dal meriggio. E sotto quel cielo d’aprile estuoso, presso quel marmo abbagliante su cui l’ombra dello stilo sembrava immobile da indefinito tempo, tra quei tassi funerei e quei coronali anemoni,
E mi parve che, dopo, il resto dell’amore e della vita non dovesse per quello spirito aver pregio alcuno.
Dopo, mi parve che la beatrice riprendesse per me il sembiante ch’ella m’aveva mostrato il primo giorno sedendo tra i due fratelli come l’imagine della Preghiera. Avendo sollevato il suo velo per guardare nella profondità de’ suoi occhi, io avevo veduto sotto la mia investigazione compiersi un rapido prodigio. Ne conservavo ancóra dentro di me una specie d’abbagliamento; ma il velo era ricaduto, e per sempre.
Di nuovo ella mi parve «partita di questo secolo».
Cosicché, quando un giorno Oddo mi raccontò una storia pietosa di nozze impedite dalla morte, io l’ascoltai come si ascolta una leggenda di tempi remoti; e sentii allora come fosse vero e profondo il mio distacco.
Ella era stata amata e richiesta in isposa da Simonetto Belprato, due anni innanzi; e, a similitudine d’Ifianea, aveva perduto il promesso quasi alla vigilia del maritaggio.
Già vicina alle sue nozze, beata
Le ghirlande apprestava; e le fu spento.
Oddo mi ravvivò nella memoria il ricordo pallido di Simonetto; e mi rappresentò la mite figura giovenile di quello studioso, erede ultimo di una famiglia nobile di Trigento, ritrattosi nella provincia presso la madre vedova per erborare e morire.
– Povero Simonetto! – diceva Oddo rimpiangendolo con animo fraterno. – Lo vedo ancóra in arnese di erborista, col suo tubo di latta appeso a una spalla, col suo bastone uncinato e col suo portafoglio di marrocchino verde. Passava quasi tutti i giorni a erborare o a preparare e a disseccare le piante raccolte. Aveva riempito la sua casa di erbarii; e su le custodie egli poteva ben mettere per emblema la sua arme fiorita. Tu sai: i Belprato usano per arme un campo partito in linea retta da una fascia d’oro, il cui mezzo campo superiore è rosso con un giglio d’argento e quel di sotto è verde tutto seminato di fiori rossetti con fronde d’oro. Non ti par singolare, Claudio, questa congiuntura? L’ultimo dei Belprato erborista! Io predicavo a Massimilla, per ridere: «Tu finirai tra due fogli di carta grigia». S’erano fidanzati nel giardino, erborando, e parevano fatti l’uno per l’altra. Noi anche eravamo contenti, perché Massimilla non si sarebbe allontanata troppo da noi e sarebbe entrata in una buona casa. (I Belprato sono, come sai, di nobiltà antica, benché decaduti negli ultimi secoli. Vennero di Spagna nel Regno con Alfonso d’Aragona.) Tutto era pronto per le nozze. Mi ricordo bene del giorno in cui arrivò da Napoli l’abito nuziale con la ghirlanda di fiori d’arancio, dono magnifico di nostra zia Sabrano. Massimilla se lo provò: era deliziosa. Io e Antonello volemmo che anche Anatolia e Violante se lo provassero, per augurio: povere creature adorate! La ghirlanda – mi ricordo – s’impigliò nelle trecce di Violante in un modo così strano che non fu possibile toglierla senza strappar qualche capello che rimase tra i fiori. Una delle serventi mormorò ch’era un cattivo presagio. Non mentiva. Simonetto, in fatti, doveva rimaner vittima della sua manìa. Era d’autunno; ed egli si recava spesso a Linturno per raccogliere le piante acquatiche nel fiume morto. Certo là, e non altrove, prese il germe della febbre perniciosa che lo distrusse in due giorni. Avemmo un funerale invece d’uno sposalizio. Fortunati sempre!
Eravamo nelle stanze di Antonello, che le tendine abbassate rendevano quasi oscure poiché il giorno di fuori s’annuvolava. Io non vedevo per le finestre il cieIo; eppure avevo su me la sensazione del tepore esterno, un po’ snervante, ed ero certo che di fuori cominciava a cader qualche goccia di pioggia, qualcuna di quelle lagrime calde che sono così dolci quando toccano il viso o le mani. Antonello stava disteso sul suo letto, immobile, senza parlare. S’udiva di tratto in tratto garrire una rondine.
– Per questo, forse, – domandai a Oddo – Massimilla entra nel monastero?
– Non so; non credo – egli rispose. – È già passato molto tempo. Ma, certo, la vita per lei in questa casa dev’essere più incresciosa che per le altre. Io sempre penso ch’ella debba credersi disseccata ed estinta come le piante degli erbarii che Simonetto le lasciò in testamento. Ah quell’abito nuziale rimasto chiuso in un armadio come una reliquia! Ci pensi tu? Quella spoglia bianca che omai deve aver preso l’odore delle piante secche! Ci pensi tu? Credi tu che la Morte possa avere nel mondo un museo più triste di quello che Massimilla custodisce? Io qualche volta sono ingiusto; qualche volta non so dissimulare una specie d’amarezza che mi sale dal cuore quando penso che Massimilla se ne va, ci abbandona. Mi sembra che alla sua partenza debba seguire il dissolvimento finale; mi sembra che un turbine ci debba dissipare e disperdere tutti, come un mucchio di stracci. Ella intanto cerca di salvarsi. Ma io sono ingiusto. Veramente, ella è forse qui la più infelice. S’è avverato per lei quel che io le dicevo ridendo. Ella crede d’esser divenuta simile ai fiori e alle foglie degli erbarii. Per rivivere, per riavere un’illusione di vita, ella si sforza di comunicare con le cose vive. Non l’hai tu veduta quando affonda le mani nella verzura e resta in quell’atto per sentirsi scorrere su la pelle i bruchi? Non sai tu ch’ella passa ore ed ore nel giardino a cercare le bestiole e a farsele amiche? In questo ella è, come tu dicesti, un esemplare di perfezione francescana. Ma che diresti se tu sapessi che questo non è se non un desiderio angoscioso di sentire la vita? Io l’ho compreso; io sol forse l’ho compreso…
Egli proferì le ultime parole a bassa voce, quasi che le dicesse soltanto a sé medesimo; e poi tacque, forse per considerare entro di sé la creatura della sua imaginazione conturbata. – Era un sogno d’infermo quel suo? O la Massimilla vivente rispondeva in realtà a quella derelitta custode di piante morte? – Io non m’indugiai in questo dubbio; ma volli assaporare tutta la poesia che le strane imagini diffondevano nell’ombra della stanza ove ora giungeva il crepitìo fioco della pioggia svegliando nelle mie narici il bisogno di aspirare il sentor della terra inumidita. Mi levai per aprire un poco la vetrata più vicina: l’odor terrestre entrò.
– Nei primi mesi, dopo la morte di Simonetto, – riprese a dire Oddo – ella aveva molta cura degli erbarii. Passava lunghe ore nella camera ov’erano riposti, a esaminare i fogli e a leggere le schede. E spesso io le tenevo compagnia, tanto ella mi faceva pena. Un giorno – ricordo – la sorpresi mentre apriva l’armadio dove ella conserva l’abito nuziale, nella camera stessa. Un altro giorno – ricordo – di primavera, ella m’apparve tutta commossa perché un bulbo di narcisso aveva germogliato… È strano; non è vero, Claudio? Ho veduto quel bulbo rimettere ancóra una volta, nella primavera scorsa. E questa volta? Non ho chiesto a Massimilla… Vuoi che andiamo a vedere?
Egli si levò in piedi, come preso da un’impazienza febrile; e diede qualche passo verso l’uscio. Ma Antonello, che era ancor disteso su i suoi guanciali, anche si levò col medesimo aspetto – vivo nella mia memoria – con cui egli aveva annunziato il passaggio della lùgubre portantina; e, mettendosi l’indice su la bocca per significarci di tacere, si chinò verso la parete guardante la loggia, e stette a origliare. Nel silenzio non s’udiva se non lo strèpere eguale e dolce del tiepido nembo primaverile sul giardino chiuso.
– Non uscite! – bisbigliò Antonello.
Non chiedemmo il perché, tanto era palese sul viso emaciato e contratto di lui la causa di quel timore. E, come ci giunse un suono di voci e di passi, Oddo s’accostò all’uscio e l’aprì un poco per intraguardare. Io anche m’accostai; e, stando alle sue spalle, scorsi per la fenditura Anatolia che conduceva al suo braccio la madre, seguìta da una delle due donne grige, nella loggia coperta. La principessa Aldoina camminava a fatica, appoggiandosi alla figlia con tutto il suo peso, vestita stranamente d’un abito pomposo a lungo strascico, ornata di falsi gioielli, pallida ed enorme, con il capo alzato e un poco piegato indietro, con gli occhi socchiusi, con un indescrivibile sorriso errante su le labbra appassite, quasi che il romore della pioggia sul lastrico del cortile fosse per lei un susurro d’omaggio in mezzo a cui ella passasse regina andando verso il suo trono. E tutta la luce della pietà dolorosa era nel volto filiale che si chinava verso la demente.
Come l’apparizione si dileguò, rimanemmo per qualche attimo sospesi in un’angoscia affettuosa. E, mentre udivasi ancóra il suono dei passi tristi, io rivedevo entro di me con una straordinaria evidenza l’effigie della vergine atteggiata di pietà e di dolore, quale erami apparsa nella sua luce vera e suprema. E mi sorgeva dall’intimo un sentimento quasi religioso come dinnanzi a un mistero sacro, poiché nessuno degli atti anteriori compiuti dalla pura consolatrice al mio conspetto aveva il pregio e la significazione di quello compiuto da lei inconscia sotto il mio sguardo nascosto. Ella attingeva d’un tratto nella mia anima un’altitudine sublime, irradiata da tutto lo splendore della sua bellezza morale, sollevata da tutta la forza della sua volontà eroica. Contemplata così, fuor d’ogni attenenza con me medesimo, nel segreto della sua propria vita a cui io era estraneo, nell’assoluta sincerità del suo sentimento, ella assumeva una specie ideale che nel mio spirito l’accomunava alle intrepide creature fatte immortali dai poeti, vittime divine d’un sacrificio volontario. Antigone conducente per mano il vecchio padre cieco o prostrata a ricoprire di polvere il cadavere fraterno non era più tenera e più forte di lei, non aveva una fronte più pura e un cuore più largo. In quella sorta di languido tedio, in quell’ombra snervante ove un infermo approfondiva il suo male mentre una voce inquieta evocava l’imagine d’un vano supplizio tra una flora defunta, la consolatrice apparendo dava d’un tratto al mio spirito una sollevazione di vita e, come una sùbita luce percotendo la parete oscura fa scintillar nel trofeo la spada immobile, traeva un gran lampo dalla mia volontà riposta. V’era in lei una virtù che avrebbe potuto produrre un frutto portentoso. La sua sostanza avrebbe potuto nutrire un germe sovrumano. Ella era veramente la «nutrice» ma quale appariva la vergine Antigone al cieco Edipo esule ed errante. Un’immensa moltitudine di creature avide avrebbe potuto abbeverarsi nella sua tenerezza senza esaurirla. Non conservava ella sola, come l’eroina antica, in sé, nel suo gran cuore, la fiamma geniale mancata al focolare di sua stirpe moribonda? Non era ella unicamente l’anima della triste casa? Massimilla nel suo orto arido, Violante nella sua nube di profumi impallidivano dinnanzi a quella loro sorella che camminava con sì fermo passo e con sì dolce sorriso nella via dell’immolazione.
E io pensai a Colui che doveva venire.
Eravamo seduti, io e il principe Luzio, presso un balcone aperto, nell’ora pomeridiana in cui l’ardenza già troppo forte di quel maggio morente cominciava a temperarsi e le nuvole pellegrine stampavano qualche vasta ombra cerulea su la valle accesa. Poiché ricorreva l’anniversario della morte di Re Ferdinando, il principe fedele a commemorare il suo lutto evocava nel mio spirito tutte le tristezze e tutti gli orrori della lunga agonia regale; e là, su i profumi salienti dal giardino chiuso, i lùgubri fantasmi si succedevano senza tregua risvegliati dalla voce senile. Il muto viaggio su per l’alture di Ariano e nel Vallo di Bovino tra bufere di neve; i funesti presagi che si levavano a ogni passo; i primi segni del male apparsi in una sera gelida mentre il Re assiderato arrancava su i ghiacci che inasprivano l’erta; la sua smania ansiosa di proseguir nel cammino senza indugi come se il destino inesorabile lo incalzasse; lo spaventevole pallore di cui tingevasi all’improvviso in conspetto della folla tra le onoranze ch’egli presentiva estreme; le grida che gli strappava lo spasimo e che copriva il clamore della festa nuziale; il turbamento dei medici adunati intorno al suo letto dubitanti sotto lo sguardo ostile e sospettoso della Regina; il suo scoppio di lagrime al primo entrare della duchessa di Calabria, freschissimo fiore di giovinezza, nella camera già infetta dalle esalazioni del morbo, dov’egli giaceva invecchiato e quasi inebetito dalle sofferenze; poi il tragico addio da lui rivolto alla sua propria statua mentre gli infermieri lo trasportavano in un’altra camera; poi l’imbarco su la nave, cerimonia triste come un mortorio, e il suo lùgubre motto quando la barella fu discesa nel boccaporto allargato a colpi di scure; poi l’arrivo a Caserta, il rapido aggravamento, la dissoluzione putrida del suo corpo nel gran letto circondato d’imagini sacre, di reliquie miracolose, di crocefissi, di lampade, di ceri; infine la pompa del Viatico, il sollevarsi del Re su i guanciali irriconoscibile fra il terrore degli astanti, le ultime parole, la cristiana serenità della morte, la disputa tra la Regina e i dottori per l’imbalsamazione del cadavere, l’assistenza dei soldati intorno alla bara addetti a nettar di continuo le innumerevoli piaghe purulente: tutte le tristezze e tutti gli orrori passavano nelle memorie. E io ascoltando pensavo al duca di Calabria singhiozzante in un angolo come una femminetta. «Ah, che bello e terribile sogno avrebbero potuto alimentare in lui giovine gli odori della morte, per quelle torbide settimane di primavera! In quali superbe e inebrianti meditazioni si sarebbe profondata la mia anima all’ombra dei vasti alberi, e come l’impetuosa agitazione constretta nei tronchi possenti mi sarebbe parsa piccola al confronto della mia!»
Il principe Luzio narrava come un giorno il Duca di Calabria fosse entrato all’improvviso, tutto sbigottito e ansante, nella camera del padre infermo, ad annunziargli la cacciata del Granduca di Toscana, e con qual violenza di parole il Re avesse giudicata la pusillanimità del parente.
– Ah, se Ferdinando non fosse morto! – esclamò il vecchio, con un gesto quasi minaccioso. – Poche ore prima di spirare, egli diceva: «Mi è stata offerta la corona d’Italia…» Non pensi tu, Claudio, che un Borbone la porterebbe oggi sul capo?
– Forse – io risposi con grande rispetto. – E, se così fosse, ai primi onori del Regno dovrebbe essere esaltato il Principe di Castromitrano. Lasciate che io vi dica quanto ammiri la vostra dignità e la vostra fede. Voi siete dei pochissimi, tra i nostri pari, che abbiano mantenuto intatto e intenso il sentimento della virtù di stirpe. Piuttosto che rinunziare al privilegio e prendere un’attitudine disconveniente al vostro orgoglio legittimo, piuttosto che apparire il superstite di voi medesimo, vi siete ritratto dal mondo, ma dopo averlo abbagliato con un supremo splendore di magnificenza; e siete venuto in solitudine ad aspettar l’evento che il Destino riserba alla vostra Casa. La sventura vi ha trattato da grande; poiché v’è anche un privilegio di dolore, e il vostro fu ben riconosciuto.
Il volto paterno del principe s’era fatto grave e attento. La venerazione che la sua bella canizie inspirava alla mia anima era assai più profonda di quella manifestata dalla mia parola; ma vi s’aggiungeva una tenerezza di qualità così pura che non poteva essermi data se non da una presenza feminile. Sentii in fatti lo spirito di Anatolia. Apparsa su la soglia della porta che si apriva in fondo alla stanza, ella era passata in silenzio lungo la parete e s’era seduta nell’ombra di un angolo, bianca, misteriosa e propizia come un Genio familiare.
– Lontano dal mondo, – io soggiunsi – chiuso in una nube così densa di tristezza, voi avete potuto nutrire fino a oggi la speranza in una risurrezione delle cose che sono morte; ed ho ancóra nell’orecchio la profezia della vostra fede. Certo, le cose che sono morte risorgeranno; ma trasformate. Se voi voleste per un sol momento affacciarvi su lo spettacolo che dà oggi il mondo, sentireste il vostro sogno antico cadervi dall’anima come una foglia arida e vi parrebbe inutile per Francesco di Borbone il ricupero del suo piccolo Stato e pur l’acquisto d’Italia. Sia un Borbone o sia un Sabaudo sul trono, il Re è pur sempre assente; poiché non si chiama Re un uomo il quale, essendosi sottomesso alla volontà dei molti nell’accettare un officio ben determinato e angusto, si umilia a compierlo con la diligenza e la modestia di un publico scriba che la tema d’esser licenziato aguzzi senza tregua. Non dico il vero? Né diversamente saprebbe regnare Francesco. Sùbito dopo la morte del padre, non scrisse egli di suo pugno un editto per ristabilire gli effetti della Costituzione abolita? e non fu Alessandro Nunziante quegli che impedì fosse promulgato? Ma richiamate alla vostra memoria la lamentosa proclamazione dell ’8 dicembre, data dalle casematte di Gaeta. È quello il linguaggio di un Re, e d’un Re vinto?
Avendo ascoltato in silenzio, con le sopracciglia contratte, il principe Luzio disse non senza un’ombra di severità:
– Si vede che è in te il sangue di Gian Paolo Cantelmo.
– È in me il sangue di tutti i miei maggiori. Ah, caro padre (lasciate che io vi dia questo nome!), so bene quanto vi riesca dolorosa la rinunzia a un sogno di giustizia, innanzi a cui tanti e tanti anni è rimasta accesa la fiamma della vostra fede; ma io voglio dirvi che per noi e per i nostri pari non v’è omai salvezza se non a patto di sostituire il proposito energico all’inutile speranza. Sopportate che io vi parli senza ambagi. È inutile sperare che si levi d’improvviso un qualche bollore eroico nel sangue stagnante di San Luigi. Io ho visitato l’Esule, di recente: egli è pieno d’una placida rassegnazione, dedito alla beneficenza e alla preghiera, memore del suo brevissimo regno come d’un lontano sogno angoscioso. La vostra profezia trarrebbe dalle sue labbra un sorriso incredulo e mite: nulla più. Se il suo spirito migra qualche volta verso il Golfo, non forse Capodimonte ma la cima dei Camaldoli è la sua mèta. Egli s’è assuefatto a una vita modesta e pia: non vede più brillare la corona nelle sue notti. Lasciamolo placidamente dormire!
Il principe fedele aveva chinato il capo sul petto; e io vedevo nella sua fronte china le rughe approfondirsi come solchi pieni di pensiero.
– Non per lui soltanto è opaco il fato. Il crepuscolo dei Re è tutto cinereo, cieco d’ogni splendore. Spingete lo sguardo pur oltre i paesi latini. All’ombra di troni posticci vedrete falsi monarchi compiere con esattezza le loro funzioni publiche in aspetto di automi o attendere a coltivar le loro manìe puerili e i loro vizii mediocri. Il più potente, il padrone di più vaste turbe, corroso nei suoi muscoli erculei dal tarlo del sospetto, si consuma solo in una cupa misantropia, non avendo nemmeno il gusto di contrapporre alle piccole formule chimiche dei suoi ribelli una qualche magnifica strage ad arme bianca per irrigare e concimare le sue terre isterilite. V’ha però un’anima veramente regale, e voi forse avete potuto considerarla da presso: è della stirpe di Maria Sofia. Quel Wittelsbach mi attrae per l’immensità del suo orgoglio e della sua tristezza. I suoi sforzi per rendere la sua vita conforme al suo sogno hanno una violenza disperata. Qualunque contatto umano lo fa fremere di disgusto e di collera; qualunque gioia gli sembra vile se non sia quella che egli stesso imagina. Immune da ogni tossico d’amore, ostile a tutti gli intrusi, per molti anni egli non ha comunicato se non con i fulgidi eroi che un creatore di bellezza gli ha dato a compagni in regioni supraterrestri. Nel più profondo dei fiumi musicali egli estingue la sua sete angosciosa del Divino, e poi ascende alle sue dimore solitarie ove sul mistero delle montagne e dei laghi il suo spirito crea l’inviolabile regno che solo egli vuol regnare. Per questo sentimento infinito della solitudine, per questa facoltà di poter respirare su le più alte e più deserte cime, per questa consapevolezza d’essere unico e intangibile nella vita, Luigi di Baviera è veramente un Re; ma Re di sé medesimo e del suo sogno. Egli è incapace di imprimere la sua volontà su le moltitudini e di curvarle sotto il giogo della sua Idea; egli è incapace di ridurre in atto la sua potenza interiore. Nel tempo medesimo egli appare sublime e puerile. Quando i suoi Bavari si battevano con i Prussiani, egli era ben lungi dal campo di battaglia: nascosto in una delle sue isolette lacustri, obliava l’onta sotto uno di quei ridicoli travestimenti ch’egli usa per favorire le sue belle illusioni. Ah, meglio sarebbe per lui, piuttosto che frapporre tra la sua maestà e i suoi ministri un paravento, meglio sarebbe raggiungere alfine il meraviglioso impero notturno cantato dal suo Poeta! È incredibile ch’egli non si sia già partito dal mondo, trascinato dal volo delle sue chimere…
Il principe teneva ancóra la fronte china, in un’attitudine così grave che pur nella foga del dire io mi sentivo premere il cuore dalla tema d’averlo addolorato; e un’ansietà filiale m’invase, di consolarlo, di risollevare il suo bel capo candido, di vedergli brillare negli occhi l’insolita gioia. La presenza di Anatolia mi comunicava non so quale ardore generoso e quasi un bisogno di rivelare quanto eravi in me di più superbo e di più forte. Ella era immobile e tacita nell’ombra, come un simulacro; ma la sua attenzione m’irradiava l’anima, come un fascio di luce.
– Voi vedete, mio caro padre, – io ripresi a dire, senza poter frenare i palpiti che mi sembravano ripercuotersi nella voce – voi vedete che da per tutto le antiche regalità legittime declinano e che la Folla sta per inghiottirle nei suoi gorghi melmosi. Veramente esse non meritano altra sorte! E non le regalità soltanto, ma tutte le cose grandi e nobili e belle, tutte le idealità sovrane che furono un tempo la gloria dell’Uomo pugnace e dominatore, tutte sono sul punto di scomparire nell’immensa putredine che fluttua e si solleva. Io non vi dirò fin dove giunga l’ignominia, perché dovrei usar parole che offenderebbero il vostro orecchio; e, dopo, converrebbe purificar l’aria con qualche granello d’incenso. Io mi son partito dalla città, soffocato dal disgusto. Ma ora penso al dissolvimento quasi con giubilo. Quando tutto sarà profanato, quando tutti gli altari del Pensiero e della Bellezza saranno abbattuti, quando tutte le urne delle essenze ideali saranno infrante, quando la vita comune sarà discesa a un tal limite di degradazione che sembri impossibile sorpassarlo, quando nella grande oscurità si sarà spenta pur l’ultima fiaccola fumosa, allora la Folla si arresterà presa da un pànico ben più tremendo di quanti mai squassarono la sua anima miserabile; e, mancata a un tratto la frenesia che l’accecava, ella si sentirà perduta nel suo deserto ingombro di rovine, non vedendo innanzi a sé alcuna via e alcuna luce. Allora scenderà su lei la necessità degli Eroi; ed ella invocherà le verghe ferree che dovranno novamente disciplinarla. Ebbene, caro padre, io penso che questi Eroi, che questi nuovi Re della terra debbano sorgere dalla nostra razza e che fin da oggi tutte le nostre energie debbano concorrere a prepararne l’avvento prossimo o lontano. Ecco la mia fede.
Il principe aveva sollevato la fronte; e mi guardava con occhi intenti e un poco attoniti, quasi che io gli apparissi in un aspetto inopinato. Ma una vivacità insolita, che rianimava tutta la sua persona, mi diceva com’egli fosse già tocco dal mio ardore.
– Ho vissuto alcuni anni in Roma, – continuai, con una confidenza più sicura – in quella terza Roma che doveva rappresentare «l’Amore indomato del sangue latino alla terra latina» e raggiare dalle sue sommità la luce oltremirabile di un Ideale novissimo. Sono stato testimonio delle più ignominiose violazioni e dei più osceni connubii che mai abbiano disonorato un luogo sacro. Ora, per qual misterioso concorso di sangui, da qual vasta esperienza di culture, in qual propizio accordo di circostanze sorgerà il nuovo Re di Roma?
La bella febbre, che nel deserto laziale aveva infervorato le mie meditazioni fino all’ebrezza, si riaccendeva nelle mie vene; e i grandi fantasmi già espressi dal suolo sacro mi rioccupavano lo spirito in tumulto; e tutte le speranze generate dal mio orgoglio violento su quella solitudine memore della più sanguigna fra le tragedie umane, tutte si risollevavano e si riagitavano in confuso, dandomi un’ansia che a pena io poteva sostenere. L’aspetto del vecchio venerabile assumeva per me una solennità più grave, poiché in quell’ora io considerava in lui il depositario della virtù che sul tronco secolare di sua stirpe erasi dischiusa alla luce della gloria in magnifiche forme; e a lui, già inclinato verso il sepolcro e reso veggente dal dolore, io stava per dimostrare come a un giudice i diritti del mio sogno ambizioso e per chiedere come a un augure il buono auspicio e per proporre come al mio pari l’alleanza che m’era necessaria. La muta presenza della vergine nell’ombra aumentava quella mia ansia, poiché ella veracemente m’appariva come la destinata a divenir per l’amore «Colei che propaga e perpetua le idealità di una stirpe favorita dai Cieli». Io non osava rivolgermi verso di lei, tanto sembravami sacro in quel punto il mistero della sua verginità; ma si definiva in me l’imagine indistinta degli occulti tesori suscitatami alcuna volta da uno straordinario lume intraveduto nel fondo de’ suoi occhi trasparenti; e, pur senza rivolgermi, io sentivo palpitare in quel lembo d’ombra una specie di animata ricchezza, una viva forma carica d’un pregio inestimabile, non so che d’infinitamente augusto e arcano come le sostanze divine custodite sotto i veli nei penetrali dei templi.
– Voi siete, con me, convinto – soggiunsi – come ogni eccellenza del tipo umano sia l’effetto di una virtù iniziale che per innumerevoli gradi, d’elezione in elezione, giunge alla sua intensità massima e si manifesta ultimamente nella progenie col favore delle congiunture temporanee. Il valor del Sangue non è soltanto vantato dal nostro orgoglio patrizio, ma è pur anche riconosciuto dalla più severa dottrina. Il più alto esemplare di coscienza non potrà apparire se non alla cima di una stirpe che si sia elevata nel tempo per un’accumulazione continua di forze e di opere: alla cima di una stirpe in cui sieno nati e si sieno conservati per un lungo ordine di secoli i sogni più belli, i sentimenti più gagliardi, i pensieri più nobili, i voleri più imperiosi. Considerate ora una gente di remotissima origine regale, fiorita al sole latino in una terra felice rigata dai ruscelli di una nova poesia. Trapiantatasi in Italia, ella vigoreggia con tal rigoglio che in breve tempo nessun’altra può sostenerne il paragone. «Tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro» Tanto i suoi fatti sono insigni che i maggiori poeti ne perpetuano la fama, e gli scrittori d’istorie li paragonano a quelli dei capitani antichi e li arrecano ad esempio dei venturi. Tuttavia sembra che la sua virtù non siasi ancor manifestata intera, non abbia ancóra attinto l’altezza insuperabile; sembra che le sue energie accumulate debbano, domani o fra un secolo o nel tempo indefinito, espandersi in una suprema apparizione…
– Cave adsum! – interruppe il principe sorridendo d’un magnifico sorriso. – Non è forse l’impresa di cotesta tua gente?
– Ella potrebbe anche portar l’impresa dei Montaga – io risposi pronto. – Sub se omnia.
Il principe s’inchinò con un atto che valeva da solo a dimostrare come la mia risposta non fosse una semplice cortesia, ma bene si addicesse alla dignità del suo gran nome. Egli mi riappariva simile all’imagine che di lui era rimasta nella mia memoria al tempo della puerizia: bellissimo esemplare di una superiore umanità, manifestante in ogni suo atto la sua essenza diversa, il sentimento della sua assoluta separazione dalla moltitudine, dai comuni doveri, dalle comuni virtù. Sembravami ch’egli avesse potuto scuotere dalla sua anima il peso della sciagura che l’accasciava e risollevarsi in tutta la sua prestanza virile, quasi assumendo la qualità meravigliosa delle sue mani: di quelle sue mani belle e pure, come rese inalterabili da un balsamo, ministre superstiti di una liberalità non paragonabile se non all’antica «che per piccoli servigi amava ricompensar grandemente».
Volgeva l’ultima ora della luce; e dai cieli accesi l’annunziazione dell’Estate discendeva sul giardino gentilizio ove tra l’odore austero dei bossi centenarii le statue – pallide e pur vigili come memorie in un’anima fedele – evocavano con i loro gesti i fantasmi dell’abolita grandezza. Ma di là dal claustro si apriva l’immensa corona di rocce foggiata dal fuoco primordiale, così aspra e superba che sembrava degna di sostener su ciascuna delle sue punte un Prometeo incatenato.
Quelle punte aveva io veduto fiammeggiare nel cielo della prima sera come piropi, d’un lume incredibile, e la più alta restar di fiamma su l’ombra comune, acutissima ferire il cielo simile al grido della passione senza speranza. Solo io era in quel crepuscolo remoto, e le tre principesse misteriose erano lungi nel loro chiuso giardino, e la mia sorte era ancor estranea alle sorti loro. Ma ecco, in una simigliante congiuntura di cose, stava per effettuarsi il fato presentito in quella prima agitazione del mio desiderio; io stava per proferire una parola solenne e irrevocabile. – Era io dunque escito d’ogni perplessità? Fra le tre beatrici che in quella lontana sera io aveva creduto intraveder nell’atto di ricevere su le braccia protese il mio dono primaverile, una alfine era da me eletta per l’alleanza necessaria? E io avrei dunque proferito il suo nome al conspetto del padre? – Un nuovo turbamento m’invase; e mi parve che Anatolia nell’ombra non fosse più sola, ma che le sorelle fossero venute in silenzio a sedersi presso di lei e che i loro occhi fossero sopra di me intentissimi.
Come mi volsi, scorsi nell’ombra la figura immobile e bianca; e ogni altra imagine si disperse, e ogni vana inquietudine cadde.
Ella era il simbolo vivente della securità, era la Vegliante e la Tutelare. Con la sua forza e la sua pazienza, al lume del suo proprio sorriso, ella aveva saputo convertire il dolore in un’armatura adamantina che la rendeva invincibile. Ella era fatta per custodire, per alimentare e per difendere sino alla morte quel ch’era commesso alla sua fede. E io la vidi un’altra volta – nel mio sogno – vegliare con la pura fronte raggiante di presagi sul figlio del mio sangue e della mia anima.
Allora dalle radici stesse della mia sostanza – là dove dorme la virtù indistruttibile degli avi – sorse e andò verso l’eletta la volontà di crear quell’Uno in cui dovevano trasmettersi tutte le ricchezze ideali della mia gente e le mie proprie conquiste e le perfezioni materne. Profondissimo mi divenne allora il sentimento di dipendenza originaria che legava il mio essere attuale agli antenati più lontani; e, come la cima dell’albero compendia in sé tutta la vita del tronco ramoso fino alle estreme radici, io sentii vivere in me tutta la stirpe, che la morte non aveva distrutta se non nelle specie corporee, nelle forme transitorie delle generazioni. E la pienezza e la veemenza di quella vita parevano abolire i limiti del mio natural potere.
– Voi avete riconosciuto in me dianzi, non senza un’ombra di severità, il discendente di Gian Paolo Cantelmo – io dissi al principe sorridendo. – Bisogna ch’io confessi che nella mia Casa gli esempi di disobbedienza e di ribellione al Re non sono rari. dedicandogli un’opera latina lo invoca Armorum gloria, Litterarum tutela. Cornelio Scheut d’Anversa offrendogli un suo libro di disegni capricciosi lo rappresenta Eroe cultor di eleganze fra le armi, Heros inter arma elegantias colens. Prosegue Andrea in questo la tradizion familiare, alla cui origine risplende inghirlandata Fanetta Cantelma, Dama di Romanino, poetante «con un certo furor divino» tra i lauri di Provenza in una Corte d’Amore. E non sembra siasi anche trasmessa in lui qualcuna delle attitudini prodigiose per cui Alessandro si eleva tra i discepoli del Vinci a Milano? Egli imagina novissime forme di fortificare; costruisce su la Mosa il celebre Forte chiamato a gloria del suo inventore il Forte Cantelmo; fabbrica armi strane che ai contemporanei paiono quasi magiche… Non v’è qualche cosa di leonardesco in questi suoi ingegni, che ricorda Alessandro?
Avevo proferito il nome di Colui che vivendo in continua comunione col mio spirito era da me tenuto come il Genio della stirpe destinato a risorgere un giorno su dal tronco superstite in un’apparizione di vita sublime. «O tu, sii quale devi essere.» Sotto il suo sguardo e sotto il suo ammonimento erasi determinato in linee definitive il mio cómpito; ed ecco, nell’ora in cui stava per risolversi una grande cosa, egli ponevasi al mio fianco. Io l’aveva dinnanzi agli occhi vivo, come se la sua mano pallida e tirannica fosse poggiata allo spigolo del tavolo che m’era da canto e quivi posassero la statuetta di Pallade e la melagrana dalla foglia aguzza e dal fiore ardente. «O tu, sii quale devi essere.» E un’altra figura giovenile, che sembrava il minor fratello di lui, gli si teneva di contro come un riflesso.
– Alessandro ed Ercole! Ecco i due purpurei fiori succisi che due divini artefici, Leonardo e Ludovico, raccolsero e commutarono in indistruttibili essenze. Andrea Cantelmo quando morì aveva già manifestato tutte le sue energie ch’egli portava in sé; e la morte lo colse al limitare della vecchiezza, coperto di gloria, sùbito dopo quell’assedio di Balaguer che fu la massima delle sue imprese eroiche. Ma questi due, affacciatisi alla vita con le mani colme di tutti i semi della speranza, avevano dinnanzi a loro ogni più vasta possibilità. Le loro teste giovenili parevano fatte per portar la corona regale, l’antica corona già portata dai padri. In un d’essi il Vinci divinava il futuro fondatore di un nuovo principato, il Tiranno trionfante che doveva imporre alle moltitudini il giogo di quella Scienza e di quella Bellezza a cui il grande maestro aveva iniziato il discepolo prediletto. Ma la sorte volle differire il compimento della profezia. Entrambi gittarono la loro vita nel primo impeto, poiché un troppo veemente ardore li divorava: Ercole nelle arene del Po contro gli Schiavoni; Alessandro su le rive del Taro alla battaglia di Fornovo. Ricordate i versi con cui l’Ariosto celebra il bellissimo figliuolo di Sigismondo Cantelmo?
Il più ardito garzon che di sua etade
Fosse da un polo a l’altro e da l’estremo
Lito de gli Indi a quello ove il Sol cade…
Troppo la sua morte fu crudele! Nell’incursione temeraria fatto prigioniero, ebbe il capo tronco su lo scalmo d’un naviglio, che servì di ceppo, al conspetto del padre. Imagino che il sangue irruppe dal taglio come una fiamma e bruciò il fianco della galèa. Non imagino, anzi, ma vedo. Qual prodigiosa e terribile tempesta di giovinezza dovette esser quella che provocò il colpo di sprone, onde il cavallo fu lanciato a furia contro il riparo del nemico! Ah, caro padre, ho conosciuto anch’io qualcuna di tali tempeste e la sa il mio cavallo e la sanno le macerie della campagna di Roma… Certo, Ercole in quell’attimo si sentiva degno di stringere fra i suoi ginocchi la fiera alata che nacque dal sangue di Medusa. Cave adsum! Celebrandolo, l’Ariosto ha un verbo che da solo lo irraggia di gloria significando come l’audace morisse per non mancare al proposito tenuto da ogni Cantelmo: che è quel di persistere pur contro la peggior morte nel posto ove uno collochi sé riputandolo il più bello. Nell’assalto egli aveva al suo fianco un compagno. Come entrambi furono sopra al nemico,
Salvossi il Ferruffin, restò il Cantelmo.
Egli restò, uno contro mille. E il divino Ludovico pone la sua figura bella e cruenta sul principio di un canto ove Bradamante fa prodigi con la sua lancia d’oro. Ma la morte di Alessandro somiglia quella di un semidio. A Fornovo, nel più forte della battaglia, scoppia un uragano e il Taro straripa con terribile violenza. Alessandro scompare d’improvviso, come uno di quegli antichissimi eroi ellenici che un turbine sollevava dalla terra assumendoli trasfigurati nel Cielo. Il suo corpo non si ritrova né sul campo né in altro luogo. Ma egli vive, vive nei secoli, d’una vita più intensa della nostra. Di lui non l’effigie soltanto ha tramandato sino a me il Vinci, ma la vita, la vera vita. Ah, caro padre, se voi aveste veduto una sola volta l’imagine non avreste potuto dimenticarla. È indimenticabile. Nessuna cosa al mondo ha per me un egual pregio, e nessun tesoro mai fu custodito con più appassionata gelosia. Chi mi ha dato la forza di sostenere una così lunga solitudine e una così dura constrizione? Chi ha infuso nel mio spirito, pur tra i più aspri rigori della disciplina, quella specie di sobria ebrezza che fa sembrar leggero qualunque sforzo? Chi se non egli Alessandro? Egli rappresenta per me la potenza misteriosamente significativa dello Stile, non violabile da alcuno e neppur da me medesimo nella mia persona mai. Tutta la mia vita si svolge sotto il suo sguardo seguace; e, in verità, caro padre, chi resiste alla prova assidua di un tal fuoco non è degenere. «O tu, sii quale devi essere!» ecco il suo quotidiano ammonimento. Ma, mentre egli così m’incita ad integrarmi, anche mi tiene dinnanzi agli occhi la visione di un’esistenza superiore alla mia in dignità e in forza. E sempre io penso a Colui che deve venire.
M’arrestai, sentendo che la mia voce si mutava, temendo che traboccasse a un tratto l’onda che mi riempiva il cuore. E così profondamente l’anima del vecchio comunicava con la mia, che in quel punto egli fece l’atto involontario di tendere verso di me le due mani.
– Poiché è necessaria una volontà duplice a crear quest’Uno, che deve avanzare i suoi creatori, – io soggiunsi quasi a voce bassa, inclinandomi verso di lui – non potrei ambire a un’alleanza più alta di quella che mi darebbe il diritto di chiamarvi padre come vi chiamo…
E, vinto dalla commozione, rimasi inclinato stringendo nelle mie le sue mani che tremavano, mentre egli mi sfiorava la fronte con le labbra senza dir parola. Ma udii nel silenzio, pur tra i palpiti del mio cuore e il respiro affannoso del padre, il lievissimo passo di Anatolia che usciva dalla stanza. – Andava ella a piangere in disparte? – La sua imagine, che avevo veduta immobile e bianca nell’ombra, scintillò nel mio cielo interiore come una costellazione di lacrime. – Andava ella a piangere sola? Forse ella stava per incontrare su la sua via le sorelle… – Quel dubbio mi turbò a dentro, d’improvviso. Il mio sguardo cadde sul cammeo che splendeva nella mano paterna.
E, mentre saliva dal giardino chiuso il profumo della sera, mi si spandeva per l’anima un sentimento oscuro come di un fascino che s’addensasse intorno a me con la lentezza di quell’ombra crepuscolare.
Quale intanto era il cuor di colei che stava per dipartirsi? In quali modi la sua mistica vita si disponeva intorno al ricordo dell’ora suprema segnata dallo stilo sul marmo luminoso?
Ella era forse tornata più d’una volta al piccolo cimitero dei tassi e degli anemoni; e novellamente forse aveva posto le sue gracili mani sul quadrante per patirne il calore; e forse aveva ripensato la mia esortazione. «Riscaldate le vostre mani al sole, immergetele nel sole, queste povere mani; perché fra poco le terrete incrociate sul petto o nascoste sotto il grembiale di lana bruna, nell’ombra…» E più d’una volta forse, coperta con la palma la cifra indicatrice dell’ora divina, ella aveva atteso palpitando nel gran silenzio per veder l’ombra dello stilo attingere l’estremità dell’anulare come in quel giorno di sogno; e forse aveva pianto perché il prodigio d’amore non s’era rinnovato.
Io congiungeva l’imagine della custode di erbarii fintami
Così mi piaceva ornare il sentimento ch’ella m’inspirava e convertire in poesia la sua tristezza.
– Il bulbo di narcisso nell’erbario ha germogliato per la terza volta? – le domandai d’improvviso un giorno, mentre eravamo su le acque del Saurgo in vicinanza della città morta.
Ella si turbò tutta, e mi guardò con occhi quasi sbigottiti.
– Come sapete?
– Ha dunque germogliato?
– No, non più! – ella rispose chinando la faccia.
Eravamo soli in una piccola scafa Il fiume era quivi così largo e lento che somigliava quasi uno stagno; e una innumerevole greggia di ninfee lo ricopriva. I grandi fiori candidi a foggia di rose galleggiavano tra le foglie lucide esalando un’umida fragranza che pareva posseder la virtù di dissetare.
Quivi Simonetto aveva compiuto le sue erborazioni, nell’autunno micidiale. Io imaginavo la figura del giovine erborista chino su le acque ad esplorare il limo, nel tempo in cui le ninfee stavano per nascondersi. Il suo hortus siccus doveva certo contenere gli esemplari inerti di tutta quella flora acquatica diffusa intorno alla ruina.
Come gli occhi di Massimilla seguivano i moti del mio remo che a quando a quando fendevano qualche foglia o spezzavano qualche stelo, io dissi pianamente:
Ella trasalì.
– Come sapete? – mi chiese di nuovo, agitata, coprendosi di rossore.
– Ah! – fece ella senza dissimulare il suo rammarico per questa mia consapevolezza che pareva ferirla. – Oddo vi ha raccontato…
Ella si chiuse in un silenzio che io indovinavo quanto le fosse penoso. Fermai il remo per qualche istante; e il leggerissimo legno restò immobile tra quell’immenso candore di corolle vive.
– Lo amavate molto? – domandai alla taciturna, con una dolcezza che forse le ricordò i nostri primi colloquii.
– Come amo Oddo, come amo Antonello – rispose con un tremito nella voce, senza sollevare le palpebre.
Dopo un intervallo, le domandai:
– Entrate nel monastero per sacrificarvi alla sua memoria?
– No, non per questo. Sarebbe omai troppo tardi…
– Perché, dunque?
Ella non rispose. Ma io guardai le sue mani che si contraevano come per un bisogno di torcersi; e compresi tutta l’involontaria crudeltà della mia domanda inutile.
– È vero che siete risoluta a partire fra pochi giorni? – soggiunsi quasi timidamente.
– È vero.
Le labbra le tremavano, impallidite.
– Oddo e Anatolia vi accompagneranno?
Ella accennò col capo, serrando la bocca come per contenere un singulto.
– Perdonatemi, Massimilla, se vi ho fatto male – io le dissi con una commozione profonda, sentendo una pesante tristezza piombare su me d’improvviso.
– Tacete, vi prego! – ella supplicò con una voce irriconoscibile. – Non mi fate piangere! Che penserebbero le sorelle? Non potrei nascondere le lacrime… E mi sento soffocare.
Il grido di Oddo ci richiamava, dalle rovine. Già Anatolia e Violante avevano messo il piede nella città morta. Un uomo con la sua scafa veniva verso di noi, giudicando forse l’indugio causato dalla mia inesperienza nello spingere il legno fra l’intrico delle ninfee.
«Ah, sempre io porterò in me il rammarico d’averti perduta!» io dicevo in silenzio a colei che stava per dipartirsi. «Vorrei vederti composta nella perfezione della morte piuttosto che saperti diminuita in un’esistenza difforme a quella che il mio amore e la mia arte ti promettevano. E forse tu mi avresti indótto a esplorare qualche lontanissima regione del mio mondo, che senza di te rimarrà forse abbandonata e incolta…»
Il naviglio scorreva su la nivea greggia lievemente: pel solco i calici e le foglie ondeggiavano lasciando scorgere nella limpidità cristallina la pallida selva degli steli, pallida e pigra come se la nutrisse il limo letèo. La ruina di Linturno, tutta abbracciata dalle acque e dai fiori, aveva nella sua secolare inerzia lapidea l’apparenza d’una congerie di grandi scheletri infranti. Non è nelle orbite dei teschi umani tanta vacuità esanime quanta era nei cavi di quelle pietre consunte, imbianchite come ossa dalle brume e dalle canicole. E io pensai che traghettavo una vergine morta.
Poi tutto fu tocco dalla mia tristezza, in quel pomeriggio senza nube. Vagammo lungamente per l’antica ruina, cercando i vestigi della vita scomparsa. Erano vestigi incerti, che suscitavano discordi fantasmi. – Una teoria di giovinetti inghirlandati discendeva al fiume paterno cantando per offerirgli le intonse chiome crescenti? O una processione bianca di catecumeni, nutriti di latte e di miele come pargoli, vi discendeva per ricevere il battesimo? – Un’oscura leggenda di martiri diffondeva su i ruderi pagani una specie di santità dolorosa. «Martyris ossa jacent…» leggemmo su un frammento di sarcofago; e qua e là nelle sparse pietre effigiate ritrovammo gli emblemi e i simboli ambigui: l’aquila di Giove e il leone di Cibele assoggettati agli Evangelisti; le viti di Dioniso piegate ad esprimere il verbo del Salvatore; il cervo di Diana significante l’anima sitibonda; il paone di Era, la gloria dell’anima risorta. A quando a quando un colubro sbucava di tra i sassi e gli sterpi dileguandosi rapido come una saetta. Un uccello invisibile imitava stranamente lo strepito delle tabelle che indicano l’ora nel silenzio del Venerdì Santo.
– E la vostra grande Madonna dov’è? – mi chiese Anatolia, ricordandosi delle mie lontane parole.
Cercammo fra le macerie un tramite per giungere alla basilica diruta, che era all’estremità dell’isoletta, sul ramo del Saurgo contiguo alle rocce.
– Forse l’acqua c’impedirà di passare – dissi io, scorgendo presso le mura un luccichìo di specchi.
Il fiume in fatti aveva inondato una parte della ruina sacra; e una selva acquatica vi ramificava in pace. Ma scoprimmo una breccia, e per quella potemmo penetrare nell’absida. Ciascuna delle tre sorelle entrando si fece il segno della croce, tra un gran frullo d’ali.
V’era una frescura umida in una luce glauca e palpitante. L’absida e qualche pilastro della nave centrale, rimasti in piedi, formavano una specie di antro che le acque avevano invaso fin presso la mensa diserta dell’altare; e una moltitudine di ninfee, più ampie e più bianche di quelle su cui avevamo navigato, si addensava come in adorazione a piè della grande Madonna musiva che sola occupava il concavo cielo d’oro. Ella non portava su le sue braccia l’Infante, ma era sola e tutt’avvolta in un’ammantatura di color plumbeo come in un’ombra di lutto; e un profondo mistero di dolore era nei suoi occhi larghi e fissi. Su su per la curva dell’arco le rondini avevano composto una gentile corona di nidi, seguendo l’ordine delle parole scritte in giro.
qvasi platanvs exaltata svm jvxta aqvas.
E quivi le tre vergini insieme s’inginocchiarono e pregarono.
«Se noi ti lasciassimo in questo asilo, con le ninfee e con le rondini!» pensai guardando Massimilla che nella preghiera pareva inchinarsi sempre più verso la terra. «Tu vi abiteresti come una naiade romita che avesse obliato Artemide per adorare la dolorosa divinità novella.» E io imaginava la sua metamorfosi: – compiuti i suoi riti solitarii tra il coro delle rondini, ella s’immergeva nelle acque e discendeva alle radici dei fiori…
Ma nulla veramente quivi ai miei occhi vinceva di bianchezza una nuca quasi oppressa dal peso d’una capellatura più densa dei grappoli marmorei che ornavano la fronte dell’altare. Per la prima volta io vedeva Violante in ginocchio; e quell’atto era così disdicevole alla qualità della sua bellezza, che io ne soffrivo come di una disarmonia; e con una strana inquietudine aspettavo ch’ella si levasse di tra i due paoni simbolici che in mezzo ai grappoli aprivano le loro penne occhiute.
Prima delle altre ella si levò, con una di quelle stupende movenze per cui la sua bellezza pareva superar sé stessa in quella guisa che una luce continua sembra crescere se d’un tratto renda una scintillazione. Exaltata juxta aquas!
Al ritorno ella venne meco sul fiume, seduta su la piccola prora di contro a me che in piedi spingevo il battello col remo. Un turbamento invincibile mi teneva, mentre mi riapparivano nella memoria la mano imperlata di sangue e il roveto carico di fiori. Da quell’ora lontana, per la prima volta io mi ritrovava solo con Violante, a viso a viso.
– Ho una gran sete – ella disse inclinandosi indietro verso l’acqua con una movenza che nell’esprimere il desiderio pareva quasi agguagliarla all’elemento fluido e voluttuoso.
– Non bevete di quest’acqua! – io la pregai, vedendo ch’ella si nudava le mani.
– Perché?
– Non ne bevete!
Allora ella immerse le mani ignude, recise una ninfea, e si chinò a respirarne l’umidità fragrante. Pareva che intorno a noi una trepidazione indistinta invadesse la greggia floreale. Come il sole era caduto dietro le rocce, un riflesso roseo appena percettibile cadeva dal cielo vespertino su l’innumerevole candore.
– Guardate le ninfee! – esclamai, fermando il remo. – Non vi sembra che in questo momento abbiano una straordinaria espressione di vita?
Ella immerse di nuovo le mani fino ai polsi e le tenne abbandonate, carnei fiori natanti; e, mentre il suo sguardo correva su la moltitudine commossa, il sorriso della sua bocca era così divino che la mia anima volle attribuirgli la virtù del prodigio.
Veramente ella era degna di operare tutte le meraviglie e di sottomettere alla sua bellezza pur l’anima delle cose. Io non osavo dir parola, tanto al suo fianco parevami parlante il silenzio. Ma, stando noi chini verso l’acqua, eravamo congiunti l’uno all’altra da un fascino non dissimile a quello che ci aveva accomunati il primo giorno in conspetto della rupe ardente. Non stridevano sul nostro capo gli sparvieri ma garrivano le rondini a volo gittando a tratti dai loro bianchi petti quasi un lampo.
– Ebbene? Non ci moviamo? Non avete più forza? – mi disse ella rivolgendosi, con un accento indefinibile d’irrisione, e penetrandomi in fondo agli occhi. – Non vedete che gli altri battelli sono già discosti?
Considerò la flottiglia per un poco, corrugando leggermente la fronte.
– Anatolia ci richiama – soggiunse. – Affrettatevi!
Il Saurgo sembrava allargarsi nel tramonto, dileguarsi in una infinita lontananza, riacquistare la forza della sua correntìa, promettere di condurci in paesi più belli. E in quella creatura sovrana, tutta inclinata verso quel grande e dolce fiume roseo dall’ardor della sete come da un violento desiderio di fluidità conforme alla sua essenza voluttuosa, era tal mistero di bellezza e di poesia che la mia anima si protese verso di lei col più fervente atto di adorazione.
– Guardate! – mi disse allora la rivelatrice, mostrandomi lo spettacolo ch’ella avrebbe potuto crear con un gesto. – Guardate!
Intorno a noi, su l’acqua scorsa da un leggero brivido, le corolle vive si chiudevano con un moto quasi labiale, esitavano per qualche istante, si ritraevano, si sommergevano, scomparivano sotto le foglie, l’una dopo l’altra o insieme a gruppi, come se dal profondo una virtù sonnifera le attirasse. Larghe plaghe rimanevano deserte, ma talvolta quivi nel mezzo una sola ninfea s’attardava effondendo la sua estrema grazia in quell’indugio. Una vaga malinconia fluttuava su l’acqua nel punto ove scompariva ciascuna delle ritardanti. E sembrava, allora, che pel grande e dolce fiume roseo incominciassero a vaporare i sogni notturni della moltitudine sommersa.
Ma su la vetta del Corace fu l’apparizione impreveduta per cui si determinarono le nostre sorti ultimamente.
Avevamo fatta una sosta a Scultro per visitarvi l’antichissima badia dove si conservano i resti del mausoleo suntuoso, opera di Maestro Gualtiero d’Alemagna, elevato da una Cantelma a memoria di sé medesima e de’ suoi tre figli: da quella magnifica Domina Rita che, sposata a Giovanni Antonio Caldora, fu madre del gran condottiero Iacopo. E io e Anatolia eravamo rimasti ultimi nella cappella umidiccia a contemplare la figura supina del giovine eroe tutto chiuso in arme grave sino alla gola ma scoperto il capo chiomato che riposa così regalmente sul guanciale marmoreo.
Poi, dopo un lungo tratto, avendo lasciato le mule in un pianoro, eravamo giunti su per un calle aspro e angusto al ciglio settentrionale del cratere primitivo cangiato nel lago a cui Secli dà il nome. Ai nostri piedi avevamo, da una banda, la valle fulva del Saurgo; dall’altra, i forti sproni che la maggiore giogaia protende nelle sottoposte pianure limitate dal mare in lontananza. Su le nostre teste, dall’immenso cristallo ceruleo pendevano alcune nuvole quasi immobili, coerenti e abbaglianti come acervi di neve.
Seduti su i macigni, guardavamo in silenzio. Violante e Massimilla apparivano affaticate; e Oddo non riusciva ancóra a calmare il suo ànsito. Ma Anatolia andava cogliendo nelle fenditure i piccoli fiori.
Era in me un’inquietudine confusa e ineguale, che talvolta s’addensava fino a opprimermi come un’angoscia. Io sentivo che omai l’ora della scelta mi stava sopra inevitabile e che non potevo più indugiarmi nelle vicende tormentose e dilettose del desiderio e della perplessità né più studiarmi di fondere in una armonia i tre nobili ritmi.
Per l’ultima volta in quel giorno le tre beatrici m’apparivano congiunte, sotto la luce d’un medesimo cielo. – Qual tempo era trascorso dall’ora prima in cui salendo per le antiche scalee, nelle voci e nelle ombre virginee come nelle parvenze d’un prestigio, tra i segni dell’abbandono e della dimenticanza, avevo composta la prima musica e compiuta la prima trasfigurazione? – Al dimane il maldurevole incanto sarebbe caduto, e per sempre.
Io sentivo omai la necessità di ripetere con la viva voce ad Anatolia le parole già da me rivolte in silenzio alla pura imagine segreta ch’era stata testimone del mio colloquio col padre. – Pur dianzi, nella cappella deserta, al conspetto di quella tomba elevata dalla fede di una virago, non avevamo ambedue comunicato in un medesimo sentimento e in un medesimo pensiero? Pur dianzi io le avevo detto, senza parole: «Anche tu potresti essere una genitrice di eroi, o consapevole. Io so che tu hai raccolta la mia volontà e l’hai riposta nel tuo cuore fedele, dov’ella fiammeggia come un diamante. So che, in sogno, tu hai vegliato tutta una notte misteriosamente sul sonno di un fanciullo. Mentre il suo corpo dormiva con un respiro profondo, tu reggevi nelle tue palme la sua anima tangibile come una sfera di cristallo; e il tuo petto si gonfiava di divinazioni meravigliose.»
Io sentivo omai la necessità di scambiare con lei la promessa sicura, già che ella era sul punto di partire con la monacanda e col fratello in ben triste viaggio. Ma la mia inquietudine si faceva grave come un’angoscia, quasi che un pericolo vero mi soprastasse. E non potevo non riconoscerne la causa nel turbamento che Violante mi dava di continuo con ogni suo atto.
Era là sotto di noi, nella valle, la ruina di Linturno, simile a un mucchio di pietre bianche, simile a un lembo scoperto del greto, in mezzo alle dolci acque morte: dove ella pur ieri, quasi per un duplice prodigio, aveva incantato le ninfee e la mia anima. Ancóra ella m’incantava, se i miei occhi la guardavano. Seduta sul macigno come il primo giorno sul plinto, ella era simile alle statue immortali. Anche una volta io la considerai presente e pur discosta, come in quel giorno; e ripensai: «È giusto ch’ella rimanga intatta. Ella non potrebbe essere posseduta senza onta se non da un dio. Giammai le sue viscere porteranno il peso difformante; giammai l’onda del latte sforzerà il puro contorno del suo seno…»
Con un impeto interiore, come per liberarmi da un giogo, balzai in piedi; e, rivolto a colei che andava cogliendo nelle fenditure i piccoli fiori, dissi:
– Giacché non siete stanca, Anatolia, volete salire con me fino alla cima?
– Eccomi pronta – assentì ella, con la sua chiara voce cordiale; e, accostandosi a Massimilla, le depose nel grembo i piccoli fiori.
Violante rimase nella sua attitudine, tenendo fra le dita il suo velo: – impassibile, come se non avesse inteso. Ma io sentivo che le sue pupille non guardavano le cose, e mi turbai come se giungesse sino a me un raggio del fascino emanato dalla profondità occulta in cui era fisso il suo sguardo.
– Non tardate a discendere! – fece Oddo con suono di preghiera, mostrando nel suo volto scarno il malessere che gli davano quelle alture: quasi un timore continuo della vertigine. – Noi vi aspettiamo.
La cima del Corace insorgeva contro il cielo nuda e acuta come un elmetto, inclinata alquanto verso austro; e il tramite per giungervi correva lungo la costola ripida, angusta quasi come uno scrimolo, ond’erano spartiti nettamente i due pendii. Così difficile era quivi il passo e così periglioso che io offersi ad Anatolia la mia mano per sostegno ed ella vi poggiò la sua mentre vacillava su le asperità della roccia sorridendo. Eravamo già fuor d’ogni vista, liberi e soli, dominatori dello spazio immenso. Ci pareva che ogni respiro purificasse il sangue nelle nostre vene e alleggerisse il peso della nostra carne. E l’aroma essenziale che il fuoco del sole esprimeva dalle rare erbe alpestri, simile a un farmaco possente, accelerava il ritmo della nostra vita.
Ci soffermammo, còlti da una sùbita ambascia: e le nostre mani, poiché troppo forte s’erano strette, si disciolsero. Io guardai negli occhi la mia compagna, ma ella non sorrise più. Il suo volto divenne grave, quasi triste, come adombrato da un rammarico.
– Fermiamoci qui – ella mormorò abbassando le palpebre. – Non posso andare più oltre…
– Ancóra un tratto, – io le dissi incalzato da un desiderio veemente di giungere – pochi passi ancóra, e tocchiamo la cima!
– Non posso andare più oltre – ella ripeté, con una voce spenta che non pareva più la sua, passandosi le mani su la faccia come per toglierne qualche cosa che l’ingombrasse.
Poi tentò di sorridermi.
– Che strana illusione! – soggiunse. – La cima è ancóra lontana. Par sempre di toccarla e, come più si sale, più diventa lontana…
Poi, dopo una pausa in cui ella parve ascoltare il suo cuore profondo:
– E v’è qualche anima che soffre, laggiù.
Volse la fronte oscurata da un pensiero, verso il luogo dove le sorelle aspettavano.
– Torniamo indietro, Claudio – soggiunse con un accento che io non dimenticherò mai perché mai voce umana espresse in sì breve suono un sì gran numero di cose recondite.
– Cara, cara Anatolia! – io proruppi prendendole le mani, tutto pieno del sentimento straordinario che mi davano quelle sue semplici parole in cui era per me l’indizio indubitabile d’un atto interiore quasi divino. – Lasciate che prima io vi ripeta quel che già più d’una volta vi ha detto il mio silenzio… Dove potrei offrire la mia fede più degnamente che qui, in questa altezza, a voi che siete la più alta delle creature, Anatolia?
Ella si coprì di pallore, non come chi oda un annunzio di gioia a lungo aspettato e invocato, ma come chi riceva in una parte vitale un colpo invisibile; e, se bene all’apparenza rimanesse immobile, fu gettata in ispirito verso di me da non so qual brivido pauroso, da non so qual movimento istintivo d’orrore – che io non percepii con gli occhi ma con uno di quei sensi ignoti che talvolta si manifestano su la trama dei nervi umani in una vibrazione istantanea e scompaiono per sempre lasciando la coscienza attonita.
Ella volse intorno a sé uno sguardo pieno d’inquietudini indefinibili.
– Voi parlate come se fossimo soli, – disse smarritamente – come se io fossi sola… come se io fossi sola…
– Anatolia, che avete mai? – le chiesi, turbato da quel suo turbamento inesplicabile, dall’alterazione profonda del suo volto, dall’incoerenza delle sue parole.
E un pensiero balenò su la mia incertezza. – Non forse era stata assalita d’improvviso, ella assuefatta per tanti anni alla sua cupa carcere, ella rassegnata martire fra le antiche mura, non forse d’improvviso ella era stata assalita da quel terrore misterioso, da quella specie di pànico che regna nelle solitudini dei monti ardui e taciturni? – Certo, ella era in balìa del fascino terribile; e il suo spirito vi si smarriva.
Un fierissimo spettacolo avevamo ai nostri piedi, da ogni banda, nella cruda luce. La catena delle rupi, tutta palese nella sua sterilità desolata fino agli estremi gioghi, si propagava come una immensa adunazione di cose gigantesche e difformi rimasta per lo stupore degli uomini a vestigio di una qualche titanomachia primordiale. per gli strumenti di suono.
– Voi siete affaticata – io dissi alla cara compagna cercando di trarla verso un macigno che mi pareva potesse almeno da un lato impedirle la vista del vuoto e ridarle col contatto il senso della stabilità. – Voi siete affaticata, Anatolia, e questa fatica è insolita per voi, e questo spettacolo è forse un poco spaventoso… Appoggiatevi qui, e chiudete gli occhi per qualche minuto. Io sto accanto a voi. Ecco il mio braccio. Saprò ricondurvi senza pericolo. Chiudete ora gli occhi, per qualche minuto…
Ella tentò ancóra di sorridermi.
– No, no, – ella disse – non vi date pensiero, Claudio.
Poi, dopo una pausa, con la voce mutata e divenuta quasi segreta:
– È un’altra cosa… Se chiudessi gli occhi, forse potrei vedere…
Il mio cuore tremava come una foglia a un soffio sconosciuto. E, se bene il volto di Anatolia si fosse ricomposto in una tristezza grave ma calma e per tutta la figura di lei fosse diffuso un sentimento di dominazione sul Male, io per analogie indistinte ripensai le ansie repentine di Antonello e quelle sue inquietudini ch’erano infallibili avvisi e quelle preveggenze che illuminavano i suoi pallidi occhi.
– Avete compreso, Anatolia? – io le domandai, prendendole una mano poiché eravamo addossati al macigno l’uno a fianco dell’altra. – Avete compreso che voi, voi sola, siete la compagna che il mio cuore nominò, in quella sera, quando il padre mi baciava la fronte per consentire? Voi vi alzaste e usciste dalla stanza, lieve come uno spirito; e io, non so perché, imaginai la vostra faccia tutta bagnata di lacrime… Ditemi se piangeste, Anatolia, e se il mio sogno vi fu caro!
Ella non rispose; ma, tenendo io la sua mano, mi parve che il più puro sangue del suo cuore affluisse all’estremità delle sue dita magneticamente.
– Quella sera – io soggiunsi per inebriarla di speranza – tornando a Rebursa, vidi brillare la Stella in cima a una delle mie vecchie torri; e tanta fede la vostra presenza aveva infusa nella mia anima, che io considerai il caso come un presagio divino! Da allora, io congiungo due imagini in quello splendore… Voi sapete quale sia l’altra. Riodo le prime parole che voi mi rivolgeste là su la scalea: parole evocatrici di «una immensa bontà». In tutto quel giorno l’imagine evocata non si distaccò dal vostro fianco per mostrarmi la sua elezione. Ella medesima, in una prossima sera mi accompagnerà alla dimora che fu piena del suo sorriso e che oggi è deserta… Guardate, laggiù!
Ella guardò le torri lontane di Rebursa nella conca profonda ove le nuvole pendule stampavano larghi cerchi d’ombra; ma il suo sguardo trascorse a Trigento, e nell’intervallo i segni di una ineffabile violenza interiore passarono sul suo volto. Ella scosse il capo, sciogliendo la sua mano dalla mia.
– M’è vietata la felicità – disse con una voce dolorosa ma sicura, tenendo sempre gli occhi intenti al giardino delle sue pene, alla casa del suo martirio. – Anch’io, come Massimilla, mi sono consacrata; e anche il mio vóto è inviolabile. E non è soltanto un atto della mia volontà, Claudio. Ora sento che è un sacrificio necessario, a cui non potrò sottrarmi. Voi avete udito dianzi il suono della mia risposta, quando mi avete invitata a salire con voi fino alla cima. Avete veduto quanto mi paresse leggero da prima il salire con voi, col sostegno della vostra mano. Ma poi… non ho potuto andare più oltre; non abbiamo raggiunta la cima. Vedete: sono qui, inchiodata a un macigno. Voi mi fate un’offerta di cui voi medesimo non conoscete il pregio come io lo conosco; ed eccomi oppressa da una tristezza tanto grave che temo di non poterla sostenere, io che non ho mai avuto paura di soffrire!
Non osavo interromperla né più toccarla. Una specie di timor religioso mi occupava. Con una commozione più forte di quella che m’aveva sollevato nella sera solenne, pur senza rivolgermi io sentivo palpitare al mio fianco non so che d’infinitamente augusto e arcano come le sostanze divine custodite sotto i veli nei penetrali dei templi. La voce parlava quasi nel mio orecchio, e nondimeno mi veniva da un’infinita lontananza. Semplici erano le parole; ma esse erano proferite su le sommità della vita, là dove l’anima umana non giunge se non per trasfigurarsi in ideale Bellezza.
– Guardate, laggiù! Guardate la casa dove sin dal primo giorno noi vi abbiamo accolto come un fratello, dove nostro padre vi ha accolto come un figliuolo, dove voi avete ritrovata intatta la memoria dei vostri cari morti. Guardate quanto sembra discosta! Pure, io la sento congiunta a me da mille legami invisibili ma più forti di qualunque catena. Mi sembra che, anche di qui, la mia vita si mescoli tutta a quel poco di vita che soffre laggiù… Ah, forse voi non potete comprendere! Ma pensate, Claudio, l’atrocità del destino che ci sta sopra; pensate quella povera madre demente, quel vecchio accasciato ed esausto, quella vittima che trema di continuo su l’orlo della follia, e quell’altra ancóra, che sta sotto la stessa condanna, e l’orrore del contagio, e la solitudine, e le angustie… Ah, voi non potete comprendere! Fin dal primo giorno io ho temuto di rattristarvi; e ho cercato di risparmiarvi le peggiori afflizioni, di nascondervi le peggiori miserie; ho cercato sempre di frammettermi tra voi e la nostra sciagura. Poche volte, o forse mai, voi avete respirato la vera tristezza della nostra casa. Noi vi abbiamo condotto all’aperto, tra i fiori che per voi solo abbiamo ripreso ad amare; e nel nostro giardino abbandonato voi avete potuto far rivivere qualche cosa morta… Ma pensate lo strazio nascosto! Voi non potete vedere; ma io vedo di qui tutto quel che accade là dentro, come se le mura fossero di vetro e io le toccassi con la mia fronte. Pare che la vita sia sospesa: il padre e il figlio sono chiusi nella medesima stanza e non osano uscire e non osano parlare e ascoltano tutti i rumori, e l’uno accresce la sofferenza dell’altro, ed entrambi aspettano il mio ritorno, privi d’ogni forza, e tendono l’orecchio sperando di riconoscere la mia voce e il mio passo. Ed ella è smaniosa, mi cerca per tutti gli anditi, per tutte le stanze, mi chiama ad alta voce, si ferma davanti a una porta chiusa e si mette a origliare o a battere; e, di dentro, le mie due povere anime odono il suo ansare, e sussultano ad ogni colpo, e non sanno se non guardarsi negli occhi, con che strazio, mio Dio!
Ella si mise le mani alle tempie con un gesto istintivo, quasi per comprimervi una ripercussione di dolore; mentre tutto il suo corpo, distaccatosi dal macigno, s’inclinava verso il lontano luogo del supplizio. E per qualche istante, stretto alla gola dall’angoscia ch’ella mi aveva comunicato, chino nella sua stessa attitudine, anch’io rimasi sospeso su l’orlo del precipizio, con lo sguardo fisso alla dimora lontana dove quelle anime penavano.
– Pensate – ella riprese a dire, con la voce omai rotta – pensate, Claudio, quel che accadrebbe di loro se io non fossi più là, se io li abbandonassi! Anche quando io m’allontano per poco, provo non so che rammarico, non so che rimorso. Ogni volta che varco la soglia per uscire, un presentimento funesto mi stringe il cuore; e mi sembra che, rientrando, io debba trovare la casa piena di grida e di pianti…
Un tremito indomabile ora la scoteva tutta quanta, e i suoi occhi si dilatavano come se una visione truce li riempisse d’orrore.
– Antonello… – balbettò; e per qualche istante non poté proferire altra parola.
Io la guardava con una indicibile angoscia; e pativo nella mia anima le contratture delle sue care labbra. E la visione ch’era nei suoi occhi passava nei miei; e io rivedevo il volto bianco e consunto di Antonello, e il battito rapido delle sue palpebre, e il suo sorriso penoso, e i suoi gesti disordinati, e le onde di terrore che investivano d’improvviso il suo corpo lungo e magro squassandolo come una canna fragile.
– Antonello… ha tentato di morire… Lo so io sola… Nessun altro lo sa; neppure Oddo. Guai!
Ella tremava, senza potersi dominare, addossata al macigno.
– Una sera, Dio mi avvertì, Dio mi mandò… Sia lodato sempre!… Entrai nella sua stanza… e lo trovai…
Soffocata, ella si toccava la gola con le dita convulse smarritamente, come se ora quel laccio stringesse lei medesima: tremante, disfatta, senza più coraggio dinnanzi al ricordo, ella che aveva saputo reprimere le sue grida alla vista del tramortito, suscitare da’ suoi propri polsi una forza virile, compiere l’opera senza chiedere aiuto, nascondere in sé l’orribile segreto, vivere poi con la tragica imagine impressa nell’anima, di timore in timore, d’ansia in ansia! Così, nella sua verità sublime, ella mi si rivelava devota disperatamemte a un affetto che aveva la sua radice nel più profondo e più sacro istinto dell’essere. La voce del sangue pareva gridare da tutte le sue vene; i legami del sangue tenevano ogni sua fibra. Ella era nata per portare i dolci e tremendi vincoli sino alla morte. Ella era disposta a consumarsi come un olocausto per nutrire la fiamma vacillante del suo focolare. «Di quale inaudito amore amerebbe ella dunque la creatura delle sue viscere?»
– Voi parlate d’abbandono – io le dissi facendo uno sforzo penoso per esprimermi poiché ogni espressione di me sembravami inopportuna e debole dinnanzi alla grandezza e alla bellezza di quel sentimento rivelato – voi parlate d’abbandono, Anatolia; e dimenticate che anch’io fin dal primo giorno ho creduto di ritrovare nella vostra casa il mio padre, le mie sorelle, i miei fratelli; e non sapete come anche nel mio cuore sia una pietà filiale e fraterna, non comparabile alla vostra che è sovrumana, ma pur degna di servirla nell’atto…
– Ah, Claudio, – rispose, con un dolente sorriso delle sue labbra aride – la vostra generosità v’illude. Ho ancóra l’anima allucinata dalla fiamma dei vostri sogni ma turbata da non so qual violenza contenuta e quale ardore pericoloso che di tratto in tratto apparivano in voi. Una volontà di lotta e di predominio vi agita; e voi vorrete con ogni mezzo costringere la vita a mantenervi le sue promesse. Siete giovine, e fierissimo del vostro sangue, e padrone della vostra forza, e sicuro nella vostra fede. Chi può assegnare un limite alla vostra conquista?
Ella aveva infuso nell’ultime parole la virtù della sua voce limpida e calda, come per una sollevazione subitanea; e, dal fremito che n’ebbi, io compresi qual valida incitatrice di energie avrebbe potuto essere ella che, pur nella sua bontà e nella sua pazienza, possedeva l’istinto primario della sua razza imperiosa.
– Ma imaginate, Claudio, un conquistatore che tragga dietro di sé un carro pieno d’infermi e che si prepari a combattere contemplando i loro visi consunti, ascoltando le loro lamentazioni! Potete imaginarvelo? Se la vita è crudele, colui che è risoluto ad affrontarla deve necessariamente assumere la qualità della nemica; e ogni impaccio o prima o poi susciterà il suo fastidio e la sua collera…
Ella era riuscita a reprimere l’eccesso della sua commozione; e ancóra mi si mostrava nella sua fermezza coraggiosa, parlando senza tremito.
– Io stessa, io stessa non diverrei forse un giorno smemorata? non mi sentirei presa tutta quanta dai nuovi affetti, dalle nuove cure, e dall’ebrezza delle vostre speranze? Troppo è grande il cómpito che voi volete assegnare alla compagna dei vostri sforzi, Claudio. Le vostre parole sono nella mia memoria… Ahi me, non è possibile alimentare nel tempo medesimo due fiamme! La nuova diventerebbe in breve così vorace che io dovrei sacrificarle tutti i beni della mia anima. E l’antica è così fievole che basta ch’io volga altrove il capo perché si spenga.
Tacque, riabbassando la fronte. Ma con un atto repentino, come assalita di nuovo dalle prime inquietudini, si guardò intorno; e qualche moto delle sue labbra aride mi rivelò la sua sete. Poi si volse verso di me e, fissandomi nelle pupille con una specie di violenza interiore, mi domandò:
– Veramente il vostro cuore mi ha scelta? Avete scrutato il vostro cuore sino al fondo? O un’illusione vi fa velo?
Mi turbarono così forte quel suo sguardo e quel suo dubbio improvvisi, che io mi sentii impallidire come s’ella m’avesse accusato di menzogna.
Ella si distaccò dal macigno, diede qualche passo incerto; si soffermò come a tendere l’orecchio, inquieta, agitata.
– V’è qualche anima che soffre, per queste vie – ripeté con l’accento della prima volta; e restò per alcuni attimi perplessa, mentre la sua mano faceva verso la sua fronte un gesto vago.
Poi, rivolgendosi a me, rapidamente, ansiosamente, quasi che ella fosse incalzata e temesse di non aver tempo a pronunziar le parole:
– Domani io partirò. Bisogna che io accompagni Massimilla. Non ho il coraggio di lasciarla partir sola col fratello. Bisogna che io l’accompagni fino alla porta del suo ritiro. Ella va a pregare per noi… So che non va come a una consolazione ma come a una morte; e per ciò è necessario ch’io l’assista. Tutto finisce per lei. Io resterò lontana alcuni giorni. Per alcuni giorni una di noi sarà sola a Trigento… È la primogenita: ha quasi un diritto… Ella è degna… Non so; il cuore vi dirà qualche cosa, forse la verità… Vi giuro, Claudio, che io pregherò, con quanto fervore ho nell’anima, perché tornando io sappia che tutto fu risoluto secondo il bene d’ognuno… Chi sa! Forse un gran bene è sopra di voi. Io credo nella vostra stella, Claudio. Ma per me c’è un divieto… Non so dire, non so dire… C’è un’ombra su la mia volontà… Dianzi m’è venuta una strana paura, e poi… una tristezza, una tristezza che non conoscevo ancóra…
Ella s’arrestò, anelante, smarrita, misera, come se riacquistasse il sentimento dell’infinita desolazione che s’allargava intorno a noi, nell’implacabile arsura.
– Anche voi, come soffrite! – mormorò, senza guardarmi.
E tendendomi ambe le mani, con il suo sforzo supremo:
– Ora, addio! Bisogna tornare indietro. Grazie, Claudio. Ricordatevi sempre di me come d’una sorella devota. La mia tenerezza non vi verrà mai meno…
Voltò il viso perché gli occhi le si empivano di lacrime; e io le baciai ambe le mani.
– Addio! – ella ripeté, facendo l’atto di avviarsi alla discesa; ma vacillò sul sasso.
– Vi prego, Anatolia, rimanete ancóra! – io supplicai, sorreggendola. – Ancóra qualche minuto, qui, all’ombra, perché possiate riprendere un po’ di forza… La discesa è aspra.
– Ci aspettano! Ci aspettano! – ella balbettò, quasi fuori di sé, comunicandomi la sua ansietà frenetica. – Andiamo, Claudio! Mi appoggerò a voi. Se indugiassi ancóra, mi sentirei più male, non potrei più dare un passo… Ah che orribile sete!
Io vedevo bene che la sua povera bocca ardeva di sete; e così angosciosa era la pietà che mi stringeva, ch’io mi sarei aperta una vena per dissetarla. Nessuna traccia di acque, intorno. Sole, in fondo al cratere estinto, le acque del lago che parevano piombo incandescente. Rapide imagini mi attraversarono il cervello, come in un delirio di febbre: il grande fiume roseo coperto di ninfee, Violante inclinata sul bordo del battello, il suo volto chino a respirare l’umidità del fiore, la durezza d’un suo sguardo acuita dai sopraccigli contratti…
Ma trasalimmo, sotto un’onda di suono improvvisa che giungeva fino a noi da un’ignota origine. Così grave era il silenzio negli alti deserti, che ci pareva non violabile; e, per lo smarrimento dei nostri sensi, quella infrazione inattesa ci percosse da prima come un fatto straordinario. Anatolia si strinse al mio braccio, interrogandomi con gli occhi dilatati.
– Secli – io le dissi, riconoscendo la natura del suono. – Le campane di Secli…
E stemmo in ascolto, l’uno a fianco dell’altra, chini verso il cratere sonoro, nell’ombra che il macigno gettava su le nostre teste.
Sonoro come un gigantesco timpano, il cratere vacuo ripercoteva le onde dei metalli vibranti confondendole in un cupo rombo continuo che si propagava per la solitudine di luce indefinitamente. Per tutta la solitudine, ove la materia originale splendeva impietrita nelle sue mille espressioni di furia e di dolore, per la valle fulva solcata dal fiume serpentino, per le propagini alpestri declinanti fino al mare lontano, per ogni luogo la voce di bronzo modulata dalla terribile bocca ignea diffondeva la sua parola misteriosa. Più oltre ancóra sembrava giungere, ancóra più oltre, nello spazio senza fine, nelle plaghe d’oltremonte e d’oltremare, là dove la mia vista si perdeva stanca, là dove trascorreva come un vento carico di pòlline un mio pensiero informe e incoercibile ma pur dotato d’un’oscura virtù creatrice. Un gran sentimento confuso – in cui si agitavano innumerevoli cose di dolore e di gioia, di passato e d’avvenire, di morte e di vita – mi travagliava la coscienza e sembrava dilatarla e approfondarla come fa dell’oceano la tempesta.
Attonito, io guardai il lago inferno, opaco e inerte come l’occhio cieco d’un mondo sotterraneo; e riguardai il cratere vorticoso in cui l’impeto del fuoco primitivo era rimasto fisso come la contrattura d’uno spasimo estremo rimane talvolta su le labbra del cadavere. Ed il mio sguardo si fermò su le umili case di Secli, su quel fragile nido umano che appena appena si distingueva dalla roccia a cui era sospeso. Ed ebbi la visione fantastica di quel popolo inconsapevole e taciturno, intento da tempo antichissimo a ridurre le viscere degli agnelli in corde musicali destinate ad esprimere nel linguaggio dell’arte le più alte aspirazioni della vita e a inebriarne miriadi di sconosciute anime nel mondo.
Continuava, continuava il rombo, senza pause, eguale, nell’aria infiammata. E, poiché la mia compagna era immobile al mio fianco, io non osavo parlare, né rompere il fascino. Ma d’improvviso ella si rivolse scoppiando in singhiozzi, come se in quel punto ella avesse veduto il termine di un’agonia. Con la faccia tra le palme, contro il macigno, ella singhiozzava disperatamente.
– Anatolia, Anatolia, che avete mai? Rispondetemi, Anatolia! Ditemi una sola parola!
E, non resistendo allo strazio, feci l’atto di prenderle i polsi per scoprirle la faccia.
Udii da presso il rumore d’un passo veloce su le pietre, un respiro affannoso; travidi un’ombra.
– Voi, Violante?
Ella aveva su per la roccia ripida lo slancio elastico di una fiera, in tutta la persona qualche cosa di ostile e di malefico. Portava il capo tutto avviluppato nel suo denso velo azzurro, per modo che il volto rimaneva nascosto come da una maschera fin sotto il mento e gli occhi rilucevano a traverso il tessuto.
Si fermò presso il macigno, ostile, arrovesciando indietro il capo come chi sia per rimaner soffocato. Ella certo si sentiva soffocare, ma non si sbendò. La veemenza dell’anelito le sollevava il seno e faceva palpitare il velo; un fremito infrenabile le scoteva le mani coperte di guanti lacerati: lacerati forse contro i sassi aguzzi, in qualche caduta perigliosa.
– Vi abbiamo aspettato – disse alfine, con la voce rotta che un poco sibilava – vi abbiamo aspettato molto… Non vedendovi più tornare, io mi sono mossa… per incontrarvi…
Scorgevo il moto delle sue labbra convulse, a traverso il velo; indovinavo la trasfigurazione della sua faccia sotto quella soffocante maschera azzurra ch’ella non voleva sollevare. E l’émpito interiore cresceva così violento d’attimo in attimo, che non m’era possibile disserrar le labbra. Ma sentivo che non su me soltanto la necessità del silenzio era caduta.
Passava continuo su le nostre teste il rombo del bronzo, ripercosso dal cratere.
Anatolia aveva cessato di singhiozzare; ma le tracce del pianto restavano sul suo volto, e rosse apparivano le palpebre ch’ella teneva socchiuse.
– Andiamo – disse piano, senza guardare né me né la sorella.
E in silenzio ci avviammo giù per la discesa, accompagnati dal rombo, nella desolazione della luce.
Straziante discesa, che pareva non dovesse aver mai fine! Elle andavano innanzi o rimanevano indietro, secondo le vicende del cammino; e io sorreggevo ora l’una ora l’altra, se vacillavano. Ad ogni tratto il cuore mi si stringeva, per la paura di vederle mancare. Quando le campane di Secli tacquero, avemmo un sollievo illusorio; ma sùbito ci accorgemmo che nella quiete dell’aria l’affanno palese dei nostri respiri aumentava la nostra sofferenza, e ci parve di udire troppo distintamente il rombo delle nostre vene.
Con una pertinacia selvaggia, sotto la sua maschera azzurra Violante resisteva alle soffocazioni. Certo, una sete orribile le ardeva la gola: come a me, come alla sorella. Quando nel soccorrerla le prendevo la mano, vedevo per le lacerature del guanto un po’ del suo sangue su la pelle scalfita; e, con un turbamento profondo, ripensavo il roveto carico di fiori.
Più tardi, nel pianoro dove i miei uomini attendevano con le mule e dove sostammo arsi dalla sete e affranti dalla fatica, io composi per l’ultima volta in una armonia infinitamente bella e dolorosa la bellezza e il dolore delle tre principesse.
Non erano elle nel chiuso giardino, ma pur le cingeva una lapidea chiostra degna delle loro anime e dei loro fati; poiché grande era e singolare l’aspetto dei luoghi intorno.
Le rocce disposte in cerchio e digradanti davano imagine d’un colosseo construtto per opera ciclopica, corroso da secoli e da intemperie senza numero ma improntato ancóra di stupende vestigia. Frammenti d’una scrittura sconosciuta vi apparivano, incomprensibili enigmi della Vita e della Morte; le vene tortuose della pietra conducevano l’essenza d’un pensiero divino; e nelle inclinazioni delle moli informi eravi un segno come nei gesti dei simulacri perfetti.
Quivi sostammo, quivi io raccolsi l’ultima armonia.
Un uomo della gleba – che somigliava colui il quale aveva reciso col suo ferro adunco i rami del mandorlo fiorito – ci condusse a una sorgente nascosta nella cavità di una rupe. La vena scaturiva mormorando, limpida e glaciale; e su l’acqua galleggiava una tazza rustica di scorza, fenduta e priva del fondo, simile al guscio inutile d’un frutto.
Io offersi ad Anatolia un’altra tazza che l’uomo aveva portata seco. Ma Violante, senza attendere, si scoperse la bocca e, chinandosi su la polla vivida, bevve a lunghi sorsi come una fiera.
Vidi la sua bocca e il suo mento stillanti, quando ella si sollevò; ma sùbito ella si volse e riabbassò il lembo del velo. Così velata, sedette su la pietra più vicina alla sorgente selvaggia che aveva per lei una troppo tenue canzone; e la sua attitudine evocò nel mio spirito tutti gli incanti delle sue fontane. Pur nella stanchezza, ella non s’abbandonava; ché anzi ora appariva quasi rigida, eretta da un orgoglio muto e ostile. Anche una volta tutte le cose intorno riconoscevano la sovranità della sua presenza: segrete analogie congiungevano i circostanti misteri al suo mistero. Anche una volta ella pareva respingere il mio spirito verso le lontananze del tempo, verso le antiche imagini della Bellezza e del Dolore. Ella era presente e pur discosta. E in silenzio pareva significarmi, come la principessa Deianira: «Io posseggo, chiuso in un vaso di bronzo, un antico dono d’un vecchio Centauro.»
Anatolia s’era seduta presso il fratello pensieroso; e cingeva con un braccio gli òmeri di lui, mentre la sua fronte pareva a poco a poco serenarsi come pel salire d’una luce interiore. Massimilla ascoltava forse la voce tenue e inestinguibile della polla: a sedere, con le dita delle mani insieme tessute, tenendovi dentro il ginocchio stanco.
Su le nostre teste il cielo non conservava delle sue nubi se non qualche lieve traccia simile alla poca cenere bianca dei roghi consunti. Il sole accendeva in giro i culmini delle rocce, rilevando nell’azzurro i loro lineamenti solenni. Una grande tristezza e una grande dolcezza cadevano dall’alto nella chiostra solitaria, come una bevanda magica in una coppa rude.
Quivi riposarono le tre sorelle, quivi io raccolsi la loro ultima armonia.
qui finisce il libro delle vergini
e incomincia il libro della grazia