Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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delle prose di liberazione

la vita di cola di rienzo descritta
da gabriele d’annunzio e mandata

Ad Annibale Tenneroni

suo amicissimo

Se tu veda per la prima volta il ritratto di Erasmo dipinto da Hans Holbein, pur dopo aver letto l’Elogio della Follia i Colloquii e le chiliadi degli Adagi, credi di avere per certo dinanzi a te in quel punto la figura intiera del filosofo da Rotterdamo, in carne e in ispirito, quasi per improvviso lume di ragione e di rivelazione, qual non t’era apparsa dal paziente studio delle opere. Forse l’effigie offerta dalle sue scritture alla tua mente non differiva di molto da quella dei tanti Eruditi in berrettone di velluto e in zimarra di vaio, che nella vecchia Basilea degli stampatori curavano le edizioni di Giovan Froben, come ad esempio quel Sebastiano Brandt giuriconsulto e conte palatino il quale di sotto al peso delle Pandette sapeva un pochettin sorridere al pari del Fiammingo cui con la Nave dei Folli aveva pur dato l’idea dell’Elogio. Ma ecco che, a un tratto, l’amico di Aldo Manuzio e di Pietro Bembo assume dinanzi a te aspetto di uomo incomparabile e inimitabile, non somigliando ad alcun altro, immoto nella sua propria verità ed eternità. Guardalo. Egli è di profilo, con la sua berretta nera in capo, col robone azzurrognolo, nell’atto di scrivere tenendo il foglio sopra il declivio di un volume dalla rilegatura vermiglia. Nell’attenzione le sue palpebre s’abbassano su gli occhi di solito guardinghi; la bocca è chiusa e ripiegata profondamente negli angoli, piena di sapienza, di prudenza e d’ironia; il naso lungo ma scarno, dalle narici ampie e delicate, è come la sede espressiva di un senso acuito e vigile, che fiuta nelle mutazioni della vita il sentore dei più tenui soffii. Delle mani l’una tiene la penna con la facilità della consuetudine; l’altra, inanellata, tiene fermo il foglio sotto le dita chiuse egualmente; ed entrambe vivono esperte e placide nell’esercizio d’ogni giorno. Scrivono forse il comento all’adagio «Nihil inanius quam multa scire»? una epistola adulatoria ma cauta a Leone Decimo o al quarto Adriano o a Carlo Quinto? Esse non vivono men del volto, diverse da tutte le altre mani mortali con le lor dita grinzose le unghie corte le fitte pieghe palmari, come la foglia con le sue nervature dentature spartiture gualcita dal vento rósa dal bruco inargentata dalla chiocciola è dissimile alle miriadi delle sue compagne pendule nella foresta.

Ecco che, per virtù d’un prodigio operato sopra una tavola con pennelli e colori pochi, tu hai conosciuto il famoso Erasmo non soltanto in carne ma in anima, non soltanto in vista ma in essenza; cosicché ti sembra che non gli olii abbiano stemprata la materia di quella pitturabene i più sottili spiriti dell’umano intelletto.

Ora, se un artefice ti dipinge non un uomo illustre ma un oscuro e te lo rappresenta in tutta la sua singolarità vivo con l’energia rivelatrice del disegno, la tua commozione nel mirarlo non è minore dell’altra. Iacopo dei Barbari, su poco più d’una spanna, ti condensa una somma di vita incalcolabile entro una forma precisa che comprende a un tempo tutto il particolare e tutto l’infinito, tutto il reale e tutto l’ideale, quel che è e quel che può essere. Guarda il giovinetto simile allo sparviere: naso forte e adunco, bocca arcuata a scagliare la sfida e l’oltraggio, occhi resi più torvi dalla piega della palpebra che li restringe, capelli di rossor leonino. È nero vestito sul fondo di una dolce cortina bianca orlata di verde come la tunica della Primavera: nell’angolo la lucernetta di ferro nutre una fiammella funeraria, e la cortina copre chi sa quale profondità perigliosa.

Questi maestri giova che invochi colui il quale si sforzi di ritrovare l’arte latina della biografia; che non è se non l’arte di scegliere e d’incidere tra i lineamenti innumerevoli delle nature umane quelli che esprimono il carattere, che indicano la più rilevata o profonda parte dei sentimenti e degli atti e degli abiti, quelli che appariscono i soli necessarii a stampare una effigie che non somigli ad alcun’altra. Per ciò tra lo storico e il biografo è grande il divario, come tra il frescante e il ritrattista, il primo non considerando gli uomini se non nel più vasto movimento dei fatti complessi e nelle più efficaci attinenze con la vita publica, il secondo non rappresentandoli se non nei più saglienti rilievi della sua persona singolare.

Osservato fu già come Plutarco, quando ci dice che Giulio Cesare era magro, di carnagione bianca e molle, soggetto al dolor di testa e al mal caduco, ci tocchi ben più a dentro che con gli ingegni de’ suoi paragoni. Quando Diogene Laerzio ci racconta che il divino Aristotile usava portar su la bocca dello stomaco un sacchetto di cuoio pien d’olio cotto e che, lui morto, fu ritrovata ne’ ripostigli della sua casa gran moltitudine di coppi come in una bottega di Samo, egli incita la nostra imaginativa ben più che con l’esporci non senza grossezza le dottrine del Peripato. Nelle biografie come nei ritratti noi dunque cerchiamo con avidità e gustiamo con gioia tra i segni della vita particolare quelli che più appaiono dissimiglianti dai comuni, quelli che non concernono se non la singola persona, quelli che di un capitano di un poeta di un mercatante fanno sotto il sole un uomo unico nel genere suo. Per ciò consento al giudizio di colui che stima esser fiacco artefice il descrittor di vite il quale rifugga dall’incidere le minuzie e le bizzarrie per ismania di sollevarsi alla solennità della storia cui non è lecito considerare il naso di Cleopatra e la fistola del Re Sole se non nel riferirli all’evento universale.

Per ventura non son rare nei nostri biografi, specie ne’ più ingenui, le pennellate di subitaneo risalto, che ci rendono vivo e respirante l’uomo. Guarda questa attitudine e questo movimento còlti all’improvviso da Filippo Villani nella vita di Dino del Garbo: «Era spesse volte usato sedere in sull’uscio della casa sua, e l’uno ginocchio sopra l’altro ponendo, quasi un giuoco di fanciulli velocissimamente girare una stella di sprone intantoché si stimava che con l’animo fosse altrove.» Eccoti Giovanni Boccaccio mentre racconta la novella di Tofano e di Monna Ghita: «Di statura alquanto grassa, ma grande: faccia tonda, ma col naso sopra le nari un poco depresso: labbri alquanto grossi, nientedimeno belli e ben lineati: mento forato, che nel suo ridere mostrava bellezza: giocondo e allegro aspetto in tutto il suo sermone.» Eccoti il buon cancelliere della Città fiorentina Coluccio Salutati: «Di statura più che mezzana ma alquanto chinato, con ossa larghe, colore quasi bianco, faccia tonda, larghe e pandenti mascelle, e con labbro di sotto alquanto più eminente: pronunziazione modesta ma tardaDipinture alquanto rozze queste, lontane dalla maniera di Antonello da Messina o di Alberto Duro, ma pur nella loro semplicità evidenti. E certo il ritratto di Farinata dipinto da Messer Filippo giudice non vale quello che Andrea dal Castagno drizzò su la parete della sala in Legnaia, con gagliardìa dantesca, tra Pippo Spano e Niccolò Acciaiuoli.

Però, se ripenso la candidarte di Vespasiano e se m’imagino di avere a dipingere in tavola a tempera la figura di quell’ottimo cartolaio nostro compare, io ben lo vedo nell’atto di soppesar con maraviglia e reverenza entro la sua palma rugosa la pietra che Maestro Tomaso avea tolta dall’arnione del cardinal di Santa Croce isparato. «Era di grandezza quanto un uovo d’oca, e di peso once diciotto.» Ben per tal particolarità vorrei significarlo. Te ne ricordi? Il teologo di Serezana glie la dette in mano «a dimostrare la passione che aveva sopportata il cardinale». E credo ch’eglino lacrimassero insieme, evocando sul calcolo sciagurato la fine eroica del monaco di Certosa; il quale «per non voler rompere la sua regola» non prese a rimedio il bicchiere di sangue di becco. «Papa Nicola non veniva mai a questo passo, di tanta costanza d’animo, quant’era nel cardinale, che non lacrimasse

Or tu comprendi perché in simili tratti io mi compiaccia, se dimenticato non hai la sera dilettosa che leggemmo insieme la Vita di Messer Branda e ce lo vedemmo vivo dinanzi, mentre ei pigliava la sua «scudella di pane molle nella peverada del pollo» e si beveva i suoi «dua mezzi bicchieri di vino». Ambo i nipoti anco eran , che mangiavan ritti, con un tovagliolino in una spalla. E il famiglio nasuto portava panni di color moscavoliere e in capo una berretta da prete. E, dopo la cenuzza, il prelato se n’andava in camera sua, dov’era «uno semplice letto con un panno d’arazzo, il lettuccio sanza che vi fusse nulla se non il legname; e l’usciale del suo uscio era uno pezzo di panno azzurro, suvvi l’arme sua cucita». E, prima di porsi a sedere su quel lettuccio per leggere il libro delle Sentenze al lume d’una candela di cera, il vecchione tastando cercava gli occhiali ch’ei soleva tenere in una buca.

Si direbbe questo un quadretto d’interno, qualcosa come il fondo d’una storietta di Pesello dipinta in un corpo di cassone o in una predellina o in un tondo «a uso di minio».

Per ammirare sub dio una grande figura piantata a cavallo con i due piedi ben saldi nelle staffe bisogna attendere che il Machiavelli si proponga di dipingere il Castracani emulando l’Orcagna che già avea posto il bel signore di Lucca nel Trionfo della Morte con un cappuccio azzurro avvolto intorno al capo e con uno sparviere in pugno. Ma il novo artista toglie lo sparviere a quel maraviglioso uccisore, lo arma di ferro battuto a freddo; anco gli toglie il cappuccio ché «sempre, e d’ogni tempo, come che piovessi o nevicasse, andava con il capo scoperto». E lo alza in solidità monumentale, al culmine della sua virtù e della sua fortuna ma pur, come l’Orcagna, all’ombra della Morte; sicché i nostri occhi ora e sempre lo veggono fermo a mezzodì sopra la porta di Fucecchio per aspettar le sue genti che tórnino dalla vittoria, esposto al vento pestifero che si leva di su l’Arno, il qual ci sembra veramente quel dantesco «impetuoso per gli avversi ardori» preso a imagine del rombo levàtosi di su la schiuma antica dello Stige ove infuria la gente dispetta. Esemplare insigne quant’altri mai questo, mandato dall’incisore del Principe a Zanobi Buondelmonti a Luigi Alamanni e ai suoi discepoli avvenire. I lineamenti gli atteggiamenti i movimenti son quivi scelti e ricomposti con acutissima sagacia, non impedita dal vano scrupolo della realtà esatta che è straniera all’arte eroica. Il disegno vi è semplice e grandioso, qua e non senza crudezza di contorni opportuna e fierezza di scorti veloce, rilevato da un colorito così sobrio che la figurazione della battaglia tra Castruccio e i Fiorentini al guado dell’Arno fa pensare al cartone della guerra di Pisa condotto di mano di Michelagnolo. Trattata da quest’arte la gran persona esce compiuta nell’interezza del suo vigor naturale e dell’acquistata esperienza, con la sua musculatura e con la sua magnanimità, con i suoi motivi e con i suoi atti, con le norme del suo diritto che sembrano estratte dalla sostanza stessa delle sue midolle e poi constrette in brevità imperiosa, con tutta insomma la sua vita corporale animata dalla passione e dall’eloquenza.

Accingendosi allo sforzo insolito, l’autore di queste Vite di uomini illustri e di uomini oscuri non ha dunque nascosto a sé stesso le difficoltà disperate né ha voluto evitarle. Certo, la condizione più felice per l’opera del biografo è l’essere stato egli testimonio attento e assiduo della vita cui vuol descrivere. Osservando lo studio fedele che delle mani di Erasmo fece Hans Holbein prima di porsi a dipingerle in tavola, tu comprendi di qual nutrimento sia robusta quella immortalità. Ma per ristampar l’effigie dei grandi trapassati noi non possiamo ricercare le dubbie tracce delle lor virtù e dei loro vizii se non nelle croniche, nelle memorie, negli epistolarii, nelle lapidi, in simili materie inerti e consunte. Di tratto in tratto qualche lampo c’illumina e ci forvìa. Su la bocca di Cola di Rienzo «sempre riso appariva in qualche modo fantastico» e in camera sua dopo morte fu trovato uno specchio etrusco in mezzo a talune tavolette cerate con antiche scritture. Giovanni de’ Medici, ancor che fosse di molto cuore, non ardiva dormir solo in una camera di notte. Ecco che il mistero caldo e mobile della vita ci attira, ci tocca, e ci sfugge.

Per ciò io voglio ardirmi di accostare agli uomini illustri taluni uomini oscuri ch’io conobbi da presso e guardai intentissimo, specie quelli che più squallida passione sostennero per aver mancato alle lor alte sorti o per aver peccato contro sé mortalmente. O forse farò una invenzione d’una figura per raccontare coperto alcuna delle mie vite segrete. O forse abbandonerò del tutto questi disegni, per indulgere al mio capriccio e per secondare il tuo sorriso incredulo. Ma non mancherò di mandare a quello de’ miei figli che rinnova il mio nome per non potere scrivere quella di Michelagnolo. «Sarebbe lecito dare il nome delle cose che l’uomo dona a chi le riceve: ma…»

A te oggi mando la Vita di Cola, composta or è settanni: a te e ai quattro o cinque amici che sai, come «al saggio de li buon conoscidori». Sarei contento se tu rispondessi in novembre al fuoruscito insabbiato come in settembre Zanobi Buondelmonti al deposto Cancelliere dei Dieci di Libertà messo in Lucca a curare i negozii dei mercatanti fiorentini in risico pel fallimento di Michele Guinigi. «Leggemola et consideramola un poco insieme: Luigi, il Guidotto, il Diaccetino, Antonfrancesco et io; et generalmente ci risolvemo fussi cosa buona et ben detta

La composi nella mia villa di Settignano quando, per compiacere a un de’ miei spiriti allora dominante, io ritrovava senza sforzo i costumi e i gusti d’un signore del Rinascimento, fra cani cavalli e belli arredi. Non ch’io m’ingaglioffassi per tutto nell’osteria dello Scheggi come Nicolò a San Casciano tra oste beccaio e mugnaio; ma pur tutto ero tra stalla e canile con mastro e garzoni, amando la bestia più che l’uomo e non potendo del mio amore darle miglior prova che nel governarla.

Sere d’ottobre tra l’Affrico e la Mensola, tra il pian di San Salvi e il poggio di Maiano, tra Rocca Tedalda e le Gualchiere di Girone, tra Montereggi e la fonte de’ Tre Visi, quando tornavamo in brigata con la muta a guinzaglio e cocavalli al passo, che fumigavano come la campagna frescamente rotta dagli aratri! Il sole tra i fumi pareva una macina roggia che si volgesse in tondo a frangere; ma per ogni dove intatte pendevano tra le foglie sante le piccole ulive che non avean cominciato ancóra a invaiolare. E le viti, che avean esse già dato il lor frutto, quasi spoglie di pampani si tendevano fra tronco e tronco a guisa di corde; e tanta era talora la musica di tutte le cose, che ci sembrava fossero per vibrare come quelle di uno strumento. La macina in fuoco sprofondandosi, talora le vette di Fiesole restavano accese per alcuni attimi. Poi nuvole eleganti si sedevano su le colline, mutavano attitudine senza parere, e non si sapeva che facessero, ed era da credere che s’acconciassero o giocassero; quando a un tratto la più chiara sollevava il plenilunio in cima al braccio nudo come chi sollevi la palla che le è balzata in mano e la difenda. Tutta la campagna splendeva di sùbita luce, se ben la luna fosse d’incerta lustrezza. I muri graffiti lungo le strade, e le case dei poderi, e i mucchi delle selci splendevan di non so che candore interno e tacito. Dall’alto della sella scorgevo un acciottolato dinanzi a un porticale, un vivaio colmo in mezzo a un orto, una fossa di calcina presso a una fabbrica. E tutto splendeva di quella luce senza origine, come i pensieri nella mente solitaria. E un silenzio strano si faceva lungo le strade, per entro alle siepi, sopra gli argini, tale che le péste dei cavalli non sembravano interromperlo ma misurarlo. E quel silenzio, che pareva eguale, aveva pel mio sentimento le variazioni espressive dell’ombra che non è la stessa quando s’aduna entro l’occhiaia o nel cavo della gota o sotto la mascella. Lo indovinavo diverso, prima di giungere a uno svolto, sicché al mio lieve fremito la bestia sensibile drizzava le orecchie come in punto d’aombrare. Giuntovi, entravo in esso come in un ricordo e in un presagio. In qualche luogo era così meditativo e così dolce che, sorpassandolo, l’anima mi si volgeva indietro come pel rammarico d’una perduta saggezza o d’un bene non acquistato. In qualche altro luogo, mi saliva sùbito al viso e mi penetrava come l’odore dell’incenso e il fresco della navata penetrano la creatura che entrando nella chiesa sta per essere posseduta dal suo dio.

Sensualitade

Turbami el vedere;

Et carnalitade

Nol mi lassa avere…

Hai certo in mente, o amico, il cantico del tuo Iacopone. Ma non così era per me. Non mai era in me «tenzone fra l’anima e ’l corpo»; ché sempre sentivo sorgere dalla profondità della mia carne gli spiriti più puri e coi miei occhi torbidi riconoscevo gli iddii non manifesti in sostanze trasfigurate per me solo. Quanti divini connubii, quante indicibili generazioni di deità senza nome mi si scoprirono su quella sorta di orgoglio carnale che nasce dal vigore esercitato e dal coraggio messo a prova! Se ripenso l’erta che solevo prendere a sera tornando dal Campo di Marte col cavallo in sudore, sul fianco di quel bello Arcolaio di Bernardo Gondi fiorito d’oleandri sino allo scorcio di settembre, io so come quella fosse la via misteriosa che mi conduceva non a Coverciano né a Poggio Gherardo ma nell’intimo di me stesso, nella mia più remota solitudine. E ancor mi sembra aver lasciato qualcosa di grande pregio laggiù, lungo i fossati ingombri di tritume, per un di que’ sentieri molli che da Malcantone vanno verso il Pino, ove mi mettevo salendo a galoppo su per l’argine erboso dell’Affrico, mentre i cani andavano fiutando come per ritrovare le estremità di non so che rotti legami e per ravvicinarle e rigiugnerle davanti all’ànsito del cavallo che si calmava stazzonato.

O Gignoro, luogo di deserta umiltà, dov’è ancor accolta la paziente pace benedettina come la belletta della pozza nel crocicchio, quante volte a sera passando sotto un’onda di campane ti riempii della mia anima più perfettamente che il soffio musicale non riempia una canna d’organo, mentre tutto il mio caldo corpo in un brivido repentino mi diveniva una cosa più fragile di un’ampolla appannata da un’acqua che vi si congeli e traspiri! Ahimè, non mai, per quanto mi sforzi, potrò rappresentar que’ modi del mio sentire, quando ogni mia esperienza era una comunicazione segreta per rinvenire il senso del mondo e la mia cotidiana vita era un’azione mutua e perpetua tra me e i demoni incogniti ch’evocava la mia magia. Ecco, riodo nella mia memoria l’urto dello zoccolo sonoro contro il sasso, Tal luogo veniva incontro a me come una creatura eterna che mi fosse parente. Tal altro tratteneva e serbava per me la più volubile delle forze erranti. In un altro ritrovavo la mia oscurità, in un altro il mio splendore, in un altro il mio crepuscolo. Talvolta, senza causa, con la prestezza dell’inspirazione, il mio petto traboccava d’amore così che mi veniva una volontà di gettarmi giù di sella per porre la faccia contro la terra.

Poi, come se da non so che tempera potente l’anima mi si freddasse e indurasse, m’accadeva di non esser più se non una sorta di spada nova nella guaina delle mie membra. E non gioivo se non di quello spirito crudo che tante volte appagai nel sangue delle mie tragedie. E una sì forte imaginazione si levava in me, che mi sentivo tutto aspro di quella «bizzarra salvatichezza» ond’eran irti gli uomini di parte in Fiorenza «per lo mal seme venuto di Pistoia». E mi pareva non esser dissimile a Guido Cavalcanti quand’ei spronò contra Messer Corso col dardo in mano, e i compagni non lo secondarono. Ma pur un giorno ci trovammo con il compiuto donzello Simone Donati al ponte ad Affrico per assalire Nicola dei Cerchi bianchi che andava al suo podere e alle sue mulina. E anco un altro giorno in su l’Affrico stesso fummo con Boccaccio Cavicciuli a perseguitare Gherardo Bordoni, e lo raggiungemmo e afferrammo, e gli tagliammo la mano e la recammo nel Corso degli Adimari; e fu confitta all’uscio di Messer Tedici suo consorto, come nottola. E anco ci trovammo sopra a Rovezzano allora che il barone fu giunto e preso; e pur eravamo allora che, di costa a San Salvi, con un sùbito raccapriccio fiutando la ferocia della bestia plebea ei levò dalle staffe le grandi podagre de’ piedi e si lasciò sfuggir la briglia dalla man gottosa, e piombò giù di sella per restarsi; e in terra un dei Catalani gli diede della lancia per la gola, al conspetto dei monaci esciti di badia, onde ammirabile getto di sangue fu il motto estremo di sì bello parlatore.

Sere d’autunno tra il Monte Ceceri e il Poggio a’ Pini, tra Mugnone e Zambra, quando sopra Borgunto a un tratto s’allargava una nuvola turchina, bassa come un tetto di lavagne, e per tutto era un silenzio molliccio come quel d’una cisterna coperta, e ogni piega della terra era già come un labbro proteso alla prima gorgata, l’odore piovano giungendomi al cuore innanzi che all’orecchia lo stroscio! Giungeva di lontano, e non proprio come un odore terrestro ma come una ricchezza indistinta, ma come un umido spirito che seco rapisse tutte le grazie fiesolane sparse tra Sant’Ansano e Belcanto, tra gli angeli di Luca e le modanature di Michelozzo, avendo toccato la rosa e lo smalto, il marmo e la dàlia. E mi gli volgevo come un poeta in sogno, di su la groppa, inspirato dal fiato di Fiesole medìcea. Ma, quando le fitte aste della pioggia cominciavano a risonare contro le picche dei cipressi, tralasciavamo la delizia come quei partigiani Neri e Bianchi che, stando a godersi in Santa Trinita un ballo di donne, spinsero di sùbito i cavalli l’un contro l’altro e s’azzuffarono. Partivamo a trotto chiuso verso Castel di Poggio, entrando nel fosco della rimbombante selva come nell’ombra ostile del secolo remoto, con l’animo d’una masnada che cavalcasse a vendicare una soperchieria contro un dei Manzecca, risoluta a non tornare indietro se non dopo avergli fatto quel che il masnadiere dei Donati fece in calen di maggio a Ricoverino di Ricovero. Rinforzando il rovescio, senza allentare il trotto giù per la discesa motosa, passavamo sotto i piombatoi di Vincigliata, poi lungo l’intorbidita Mensola sino al Ponte, e dal Borghetto su per l’erta vecchia di Settignano ove risfavillavano le selci. Travedevo i campi inondati, i solchi mutati in rivoli, i fossi traboccanti, qua e una faccia del cielo riflessa in un di que’ specchi fuggitivi. I lauri del Belritorno aulivano come se la pioggia li avesse dirotti coi suoi mille e mille coreggiati d’argento. Balzavamo di sella, su lo spiazzo, fradici d’acquazzone e di sudore fino all’osso, palpando il collo della bestia generosa col guanto inzuppato. I garzoni accorrevano. Dai canili i cani rinchiusi abbaiavano rizzandosi contro i cancelli, ficcando tra le sbarre i musi lunghi e gli occhi ardenti. Chiamavo per nome i tornati, che mi saltavano addosso con le zampe lorde di fango, ansandomi in viso. Se taluno de’ più fiacchi rimasto per via mancava alla chiama, era un gran fischiare, un gran vociare, come in una Caccia di Franco Sacchetti o di Nicolò Soldanieri.

«, tettè, tettè

«Ulivo, torna qua!»

«Va su, va su, Donnà

Allora entrava in me una virtù singolare, vigilante e pronta ma pure involta di non so che sogno, di non so che bagliore fantastico, quasi avessi bevuto una qualche stupenda mescolanza. Respiravo in quella calda bestialità con tutti i miei pensieri concitati come nel furore della poesia. Vedevo, nel forte delle faccende, sorgere le figure segrete che si disformano quando l’arte le tocca. V’era luogo per qualche piccola divinità nella posta occupata dall’importanza del cavallo che aveva fatto il suo sforzo e che doveva essere ben governato. I movimenti consueti, resi agevoli ed esatti dalla pratica quotidiana, componevano il ritmo misterioso della perizia, che pareva regolato dalla mia ispirazione. Il palafreniere curvo su la lettiera asciutta, nell’ombra della pancia zaccherosa, e quello che stropicciava il fianco schiumante con una manciata di paglia per ogni mano, e quello che tuffava la spugna nella secchia tenendo la coda o il piede, ognuno accompagnava la bisogna con un certo soffiare ch’era come un suono lieve di persuasione e di blandimento, onde talvolta si formava non so che parola comunicando all’inquietudine della bestia sensibile la pena e l’amore dell’uomo.

Credi tu ch’io fossi più ebro di me quando nel Deserto d’Arabia

V’è certo una Musa velata che conferisce un che di simile a quella grazia detta abituale dai teologi. Io ne fui ricco, all’aperto e al coperto. Le mie imaginazioni non erano se non atti di fede. Sapevo come i fantasmi da me veduti fossero più veri dei corpi e dei movimenti che li cagionavano. Tuttavia non mai accadeva che la mia attenzione esterna si interrompesse o si rilasciasse. La cigna sfibbiata, la sella tolta di sul dosso fumante, il riflesso d’una lanterna sopra una groppa lisciata dal torcione, la voce data dall’uomo per far poggiare o per calmare l’impaziente, uno sbuffo strepitoso, un nitrito più tenue che un fremito di gazella, l’odore della canfora, l’odore della farina nel beverone caldo, un bel guizzo di luce sul viso acceso d’un mozzo, la strana cifra segnata dai peli bianchi in un mantello rabicano, ogni gioco delle apparenze mi commoveva come la rivelazione d’una novità che in me solo toccasse il sommo del suo pregio.

Hai tu mai pensato che imbestiare può in un certo senso essere un modo di trasumanare? Non so più dove io abbia trovato, ma mi sembra in un Dialogo del Tasso, un detto il quale io non voglio più ricercare per non esser costretto di trascriverlo con esattezza e d’interpretarlo altrimenti che a mio modo. «Così come vi piacque imbestiarlo, vi piaccia anche deificarloVedo che il mio segreto lirico è in una sensualità rapita fuor de’ sensi. E questo non può sembrare un semplice bisticcio alla tua mente umbra, o cittadino di Todi.

«Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in sull’uscio mi spoglio quella vesta cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali e curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et ch’io nacqui per lui…» Te ne ricordi? Nel tempo delle nostre letture ad alta voce, una sera, come fui giunto a questo passo, non potei seguitare, tanto la commozione mi vinse. E una gentile donna, quivi presente, ricevette il mio tremito sin nel fondo del suo cuore; e credo che di poi meglio mi amasse.

Ma che mai poteva essere per me ogni altro cibo? Mentre su le alte lettiere i cavalli copertati e abbeverati tritavano con agio l’avena, io veramente a mensa non mangiavo se non la mia anima mista, consentendo al medesimo Torquato che «niuna cosa è più soave della mistura».

La mia vita segreta era così bella che ogni giorno più la profondavo nel suo silenzio vivente. Bastava talora un grido in mezzo ai campi o uno stormire di cipressi perché ella si levasse in un sùbito tutta quanta con l’ansia di prendere la forma dell’arte. Ma le facevo violenza, la ricacciavo nella profondità.

«O profondato mare,

altura del tuo abisso

E vivevo in palese un’altra vita, mi sottoponevo a una disciplina avversa, curioso come fui sempre di conciliare l’inconciliabile e di concordare la discordia, per meritare dinanzi a me stesso quel titolo di Amimetobio male usurpato dalla grossezza romana di Antonio e de’ suoi compagni.

Per ciò, invece di secondare il mio genio, m’imposi un cómpito determinato, allogai a me stesso un lavoro di lena, impresi a trattare una materia ignuda con la mia maestria, come i miei artieri settignanesi nella mia casa trattavano il legno, il ferro, la pietra. Anche nella scelta fui duro; perché da prima avevo pensato al Re Giannino e a una Siena affrescata con la maniera di Ambrogio Lorenzetti. Avevo di poi pensato a quel Bianco dell’Anciolina che tu ben conosci, al povero gesuato cantore di laudi ebro come Fra Iaco, al giovinetto lanaiuolo distrutto d’amore per l’immacolato Agnello, come apparve «bellissimo e delicato garzone» all’uomo di Dio Giovanni in punto di partirsi da Siena per andare a Viterbo con rami d’ulivo incontro al Papa, quando Caterina Benincasa compieva vent’anni e cantava anch’ella la sua laude nel suo piccolo verziere intrecciando la ghirlanda di rose con le dita insanguinate dalle spine in commemorazione del divin Sangue. Avevo di poi pensato a Gentile Bellini, a Misser Zentil dalla collana turca, e al suo passaggio d’oltremare su la galera di Melchiorre Trevisan, e alla Bisanzio ancor profumata di neo-platonismo dopo la migrazione degli ellenisti, alla Costantinopoli di quel Maometto Secondo il qual non pregiava se non la guerra lo studio e la voluttà. M’ero pur vòlto a quel difficile nodo di vizii e di virtù ch’era Filippo di Filippo Strozzi, spirito diverso e ricco quant’altro mai, fatto a ogni cultura e a ogni licenza; e veduto l’avevo, corrotto e magnanimo, ambizioso e molle, sospetto a tirannide e sospetto a libertà, nella Napoli aragonese, nella Roma di Clemente Settimo, nella Firenze d’Alessandro e d’Ippolito, nella Parigi del Cristianissimo, ai suoi Banchi di Lione, in Vinegia col suo caro Lorenzino dal pollice stronco, verso Montemurlo a cavallo con la zagaglietta in mano, sotto le mura della mia Prato messo in sul ronzino al ludibrio della canaglia, lui, il magnificentissimo, il greculo amatore di putti, il «delitioso paradiso» di Camilla Pisana, il «dimidium animae» dei mignoni e delle meretrici, nelle cui braccia soleva obliare l’agrezza della viragine domestica e smarrire il filo dei Comentarii di Plinio.

Ora in un giorno di nebbia e d’uggia, per aver risognato un gran campo di papaveri visto quell’anno nella Campagna che n’era cruentata come d’una carneficina di baroni, e per aver fantasticato d’un nido di poiana scoperto nella medesima state, imbottito di crini di cavallo e putrido dei resti d’una donnola d’una biscia e d’una botta, mi si presentò la maravigliosa figura di Giovanni Vitelleschi propria alla terribilità dell’Agro quanto la vertebra d’un acquedotto o il rudere d’un colombario. Considerandola, mi sembrò che col medesimo punzone fosse coniata la medaglia di Cesare Borgia, al colpo secco del medesimo martello. Con che acerbo e profondo segno era da imprimerlo nella mia materia, quel prete di Corneto che da scrivano del Tartaglia capo di bande s’era fatto despoto irresistibile e «terzo padre» di Roma! L’impresa borgiana delle Marche, l’eccidio di Pietro Gentile in Recanati, l’espugnazione di Vetralla, la grande e radicata schiatta dei Vico quivi tronca di netto, il tagliamento dei Savelli e dei Colonnesi, l’abbattimento delle ròcche in tutto il Lazio fumante, la statua equestre decretata al trionfatore in Campidoglio, Palestrina rasa di terra e lasciata come stoppia in cenere, Foligno occupata nell’oro e nel sangue dei Trinci, il crollo repentino di tanta potenza al ponte di Sant’Angelo sopra la gialla fiumana ineluttabile come la sorte, l’ultima spronata senza galoppo, l’agonia squallida nella prigione, il cadavere portato alla Minerva di notte «in giupetto, scalzo, e senza brache», la spoliazione e l’infamazione postuma: quanti scorci profili contorni gagliardi per i miei cartoni, quanta convenienza alla maniera secca cruda e tagliente! Ma era alcuna grazia in alcuna di quelle figure, in altra era non so che rispondenza con certi miei sogni e ricordi; sicché le une e le altre avrei potuto amare o ammirare, essendo traboccante d’amore e disposto a donarmi. Per ciò me ne distolsi; e so che la cagione non può esserti chiara, né a qualtivogli.

Ecco per qual vicenda, o amico, mi costrinsi al lavoro improbo che richiedevano una mia arcana disciplina voluntatis e la comunanza assidua con i miei artieri. Stabilito il cómpito, temperata la penna, composta con tutta pulitezza la prima pagina, mi sembrò far parte del loro corpo e in me raccogliere l’armonia di ognuno.

Non ne serbi memoria tu che per me facesti qualche allogazione stando sul tirato più che tu potevi, sicché tu sembrasti «un po’ durettino» al mio buon Romanelli? Di lui non ti rammenti?

Aveva un viso di melacotogna che di lanuginosa si fosse fatta setolosa, ché il rasoio non ci poteva, tanto la barba gli si rinfittiva in una notte, anche a luna calante. Ingoiava di continuo la saliva, ragionando e tacendo, quasi quel suo gran pomo d’Adamo gli si riseccasse di continuo nell’andar su e giù per quel collo che non pareva appiccarsi alle spalle ma nascere dal tallone riducendo a sé la lunga magrezza dinoccolata di tutto il corpo. E aveva un sorriso dolce che mi faceva pena, per quell’ingoiare che l’interrompeva sempre in su lo schiudersi; e due occhi umidi innocenti inquieti come quelli d’un lepratto, se bene egli mostrasse amare il Carmignano infiascato più che la rugiada su’ brocchi. Maestro di cazzuola ottimo, sol nel prendere la calcina dal vassoio con la punta della mestola e nello schiacciarla su la commettitura rivelava una mano sapiente nervosa e istintiva come quella d’un violinista; e starlo a guardare nell’opra m’era un diletto quasi musicale che m’arieggiava il mito ritmico delle mura tebane, sicché per baia io lo chiamavo Maestro Anfione da Feliceto e gli promettevo una martellina d’oro massiccio.

E il Contri fabbro? Certo egli era stato a bottega col Caparra e, come per me aveva contraffatto a miracolo il famoso alare che mi mancava al paio, così aveva certo lavorato a quel che mandarono a prendere per il donzello i signori Capitani di Parte Guelfa costretti di contare prima i danari sopra l’incudine. Or un giorno, considerando un singolare oriuolo a polvere comperato in Colonia, il quale portava otto ampolle racchiuse nella sua bella custodia di ferro battuto, mi percossi la fronte come Galileo dinanzi al lampadario del Duomo pisano. Due, quattro, sei, otto e più lampadine legate a coppia per il picciuolo potevan sostituire nella cassa le ampolle da sabbia e ingannare il vecchio Barba. Che alzata d’ingegno e che beffa luminosa! Corsi dal Contri che mi stava appunto racconciando una torciera lombarda, a cui era ancóra attaccato il cerume in colature. Fece: «Questa è bona.» E, messo da parte l’altro arnese, sùbito ci accingemmo a costruire il primo polverino senza polvere. In breve, su per gli stalli del refettorio, su per gli scaffali della libreria, intorno alle cappe dei camini, lungo le cornici degli armadii, da per tutto erano disposti gli emblemi dell’inesorabile Tempo, gli oriuoli d’arena dai vetri offuscati, dalle custodie arrugginite; ché avevamo perfin ritolto l’arte al guastatore. D’improvviso, a vespro, si rivelava il dolo. Il granello funebre non iscorreva più dall’ampolla nell’ampolla. Fermata era la fuga dell’attimo. La tacita misura era abolita. Tutti gli oriuoli risplendevano e illuminavano. Tu alzavi i tuoi occhi di chiosatore e dicevi in tuo latino: «Tempus lucescit

Ma posso io non mentovare Maestro Annibale legnaiuolo, del quale ho tuttavia nell’orecchio quel suo peritoso e perpetuo «Io dirrei…» e nel cuore quel suo mite aspetto di Giuseppe nazareno temente di calpestare i trucioli? Mi forniva un banco di canile e mi ristaurava un cassone del Quattrocento, mi componeva un gentil graticolato per sostenere una spalliera di rose e mi rabberciava un tramezzo sfondato dal calcio d’un cavallo. Lo vedo ancóra davanti a me, un poco sgomento, con la matita turchina su la bocca dove le parole gli s’ingarbugliavano, quando volle domandarmi se una certa ruota misteriosa, che io e un suo molto sveglio figliuolo detto il Morino andavamo ingegnando, fosse veramente per doventare la ruota della Fortuna o la quinta del carro.

Te ne ricordi? Era di così raro e segreto pregio che l’avevo messa nel penetrale, in un angolo della libreria, dietro a un mappamondo; e tu le passavi accanto in sospetto come se, macchina infernale, dovesse scoppiare da un momento all’altro facendo scempio de’ Testi sacrosanti. Era l’ordegno costrutto con acume leonardesco, munito di molle nascoste che rendevano mobili e agevoli i quarti liberati dal cerchione rigido; e doveva su le vie attonite della terra sottentrare a quella tronfiona della gomma che non si salva dall’insidia dell’astuto chiodo e della vendichevole selce. Nel giorno della prova, cigolava con un suono tanto inaudito che perfino i cani più petulanti e i più tardi paperi fuggivano al passaggio. Sul primo virare, si sconquassò come un vecchio ombrello investito dalla raffica.

Il Betti tagliapietra disse giudiziosamente: «To’, gli era meglio una macine.» Io credo che anche a questo mio scarpellatore tu paressi un poco duretto. Te ne ricordi? Aveva una testa risentita, alla maniera di Masaccio; che gli diveniva focosa per lo stare chinato come quella di Piero che cava i danari dal ventre del pesce nella cappella de’ Brancacci. E la sua testa ei l’aveva sopra un paio di brache che gli cascavano infino alle ginocchia; e non riusciva mai a tirarle su bene, in modo che restassero. E, standomi dinanzi bracalone su quelle gambe corte vestite di rigatino grinzo, mi ragionava della sua pietra bigia o serena e della sua cava di Maiano con tanta possa che pareva egli fosse il fratello minore di Monte Ceceri e che tutte le colonne della fabbrica degli Uffizii e altre innumerevoli di chiese e di palagi in Firenze fossero il suo parentado.

Ricevuta l’allogazione, eseguiva coi gesti issofatto il lavoro. Tagliava facile nell’aria il sasso come il pattonaio una targa di pattona: ecco una soglia, ecco due stipiti, ecco un architrave. Ma bisognava vederlo quando alfine giungeva su lo spiazzo precedendo i barocci carichi che s’impuntavano nella carreggiata. Andava pur sempre bracalone; portava seco nondimeno la grana il peso e il polimento della pietra concia, come l’annunziatore porta l’annunzio. E tanto un giorno mi piacque che sorridendo incominciai per lui una Canzone pietrosa nello stile di Dante aspro.

Caro il mio Betti, quanto mi aiutò egli a comprendere per che virtù la grande generazione fiorentina degli scultori nascesse dalle cave di macigni e come Michelagnolo sentir potesse d’aver tirato dal latte della sua balia settignanese gli scarpelli e il mazzuolo!

Questo lapicida mero, della generazione dei Gamberelli, dei Fancelli, dei Cioli, dei Lorenzi, dei Caprina, era certo l’uomo della sua materia, se altri mai. Ma io ebbi meco anche l’uomo della mia materia inviatomi dalla benignità di San Zanobi Spirito protettore Genio custode Nume conservadore dell’Academia della Crusca; e tu sai con che cirimonia mi fosse condotto dal più grazioso dei linguai e dal più serviziato degli amici, dal nostro Giuseppe Lando Passerini dei patrizii di Cortona litteratissimi.

Subitamente parve che un odore di farina e di virtù si spandesse nella casa sospetta. «A gloria adunque di Dio servendo l’Academia serviamo San Zanobi, e insieme con la favella i pensieri e l’opre affinando, e purificando, l’amicizia di lui procuriamo; e se ella il più bel fiore ne coglie di nostra lingua, colga ancora a imitazione di San Zanobi, per meritare l’alta sua protezione, il più bel fiore delle virtù Tu sai come io, candidato perpetuo, osservassi e l’una e l’altra regola.

Era l’uomo un assistente al Frullone o, come dire, bidello; ovvero, come detto avrebbe con arguzia peregrina il segretario Bastiano de’ Rossi, Sergente del Castaldo, incaricato di trarre il sacco, di versarlo e scoterlo nella Tramoggia, dopo averne registrato la misura il peso e la bulletta al Campione. notai che inchinandosi verso me alzava un piede e lo teneva così in aria alquanto. Da allora non seppi imaginarlo se non in quell’atto, su le soglie dei librai, immobile nel presentimento del testo raro, come il can da fermo dinanzi alla beccaccia; e, nell’imagine, non tenevo più conto delle lenti e dell’ombrello.

Non ammetteva si potesse attribuire una qualche importanza ad altri libri che non fossero gli allegati dal Vocabolario. Credo che le più famose Biblioteche del mondo avrebber potuto ardere senza suo rammarico, purché salva rimanesse la raccolta dell’Academia o quella del Tortoli venerato arciconsolo. Se gli accadeva di dover rimettere nel suo luogo un libro vano ch’egli trovasse su la tavola, non mancava mai di capovolgerlo in segno di condanna. Quando con un inimitabile suono diceva «e’ Citati», tre secoli di stacciature biancheggiavano in lui; e veramente pareva ch’egli avesse in corpo un burattello.

Non credo che alcun mio libro gli fosse familiare. Tuttavia mi dimostrava una qualche ammirazione per non conoscere pur tra i virtuosissimi Academici un linguaio più ghiotto di me.

Certi giorni, in fatti, quando era per mantenere qualche promessa di cosa eccellente o esquisita, lo aspettavo non senza impazienza. Sorridevo in me di quel sorriso indistinto che dentro mi nasce quando la grazia della mia vita converte una nota inclinazione dell’intelletto in un sentimento di novità inebriante. Quale uomo ignaro mostrava all’ospite frutti di così duro guscio che la sua gente non sapeva usarli se non in luogo di selci per le lapidazioni? Or questi li apriva facile con la lieve unghia, conoscendo e il punto e il modo; e la polpa virginea gli era un nutrimento quasi divino. Anche si racconta di non so qual tribù che non sapeva usare delle sue donne floride e chiuse, palpandole e scrutandole invano. Or avvenne che l’ospite improvviso, nell’ombra della tenda, rivelasse a taluna il piacere e la rendesse ferace; onde tutte poi si partirono in traccia del giacitore.

La stanza dei libri dava sul lastrico d’una corticella inverdita dallo scolo delle docce; dove piante dalla fronda lustra, magnolie e camelie, ingrassavano nel terriccio dei larghi vasi di terra invetriati. Un delicatissimo cancellino, del secolo di Giannozzo Manetti, ne’ cui scompartimenti il ferraio aveva imitato a martello la figura del ragnatelo, riferiva a sé tutte le cose naturali con la seduzione dell’arte. Per la sua stessa tenuità pareva rendere più difficile l’adito e affinare il colore verdiccio della luce sino alla chiarezza di quella specie di berillo onde si dice fossero fatti gli occhi della Minerva nel tempio di Vulcano ad Atene.

Se ne veniva col fardelletto il mio procacciante; e si soffermava sul limitare alzando un pochettino quel piede. Tentando io di togliergli il tesoro per impazienza, egli si schermiva aggirandosi, secondo il Testo, «al modo della trottola, ovvero ancóra dello stornello, ovvero palèo».

E la fragranza del beato Trecento si diffondeva fra gli scaffali. Ed egli mi spiava di sotto alle lenti, mentre io riscontravo i capitoli, mentre qua e prelibavo le pagine; oppure si sedeva, si toglieva gli occhiali di sul naso e si metteva a nettarli con un de’ capi di quella pezzuola, restando fisso ma con l’orecchio teso, quasi ad ascoltare il battito del mio cervello. Ed era come se si fosse tolto una mascheretta; tanto quel suo viso, immiserito dal rinchiuso, dallo stantìo, e dal regime del lesso academico, si faceva più nobile e più dolce, da poterlo assomigliare con qualche indulgenza a una figura della vecchiezza di Giotto, a una di quelle che nella cappella dei Bardi o dei Peruzzi sopravvivono pur sì maltrattate.

Credeva quel semplice del farinaiuolo che l’officio mio fosse simile a quello dell’assaggiatore il quale scioglie la bocca del sacchetto, soppesa nella sua palma il fior della farina, lo fiuta, lo lecca, lo gusta, lo trova ottimo e gli mette il prezzo! Io dentro di me in quel tempo, o amico, ero giunto al sommo dell’arte magica, in ogni ora e su ogni caso o creatura pronto sempre a fare incantamento nascosto. Contenevo in me la mia poesia, corrente come il mio sangue, affinché non mi divenisse pel metro una forma compiuta e duratura ma mi fosse nei miei giorni una forza della mia vita libera, mi fosse il ritmo stesso della mia libertà e della mia intrepidezza. In ogni occasione tutto avventurare era non soltanto nel mio istinto ma nel mio proposito. Distruggermi e accrescermi a vicenda, talvolta quasi nel tempo medesimo, talvolta nel medesimo atto, era il mio gioco assiduo. Avevo ottenuto nel mio mondo interiore una sì maravigliosa instabilità che non soltanto il più lieve urto ma il soffio più lieve bastava a smuovere e scrollare immensi strati di coscienza, di cultura e di sogno con rivolgimenti mutamenti scioglimenti pari a quelli delle più rapide catastrofi. Professavo e interpretavo per me nel più alto senso quell’eresia che Valentino tentò di propagare nell’isola di Cipri: «Tutto è lecito a chi una volta ha ricevuto la grazia.» La grazia mi si manifestava in un succedersi quasi ininterrotto di epifanie. Ogni pensiero, ogni sentimento rilevati prendevano il carattere delle apparizioni. Certe sere, spiavo dentro me il levarsi della stella Espero, che doveva rendermi visibile il mio cuore. Certe notti, tutto in me era musica; e, come nell’orchestra il motivo passa per le famiglie degli strumenti sviluppandosi e trasformandosi, così mi pareva udir passare il mio tema fugace nell’infinita sinfonia dei secoli e delle genti. Il presagio della possibilità d’una vita divina, dopo tante vite da me vissute e distrutte, mi faceva ansare come su la soglia della morte. Io potevo forse volgere al mio significato umano la parola terribile: «Dai morti giacenti sul mio cammino, riconoscerete che io sono il signore.» Anche, negli alti silenzii fermi che sono i meriggi dello spirito, intendevo l’altra parola: «Non alia sed haec vita sempiterna. Questa tua vita è la tua vita eterna.» Poi sopravveniva l’allegrezza temeraria, quando il poeta gioca a dadi col demone e non sa s’egli creda più nel suo corpo o più nella sua anima, ché l’una è la verità o la menzogna dell’altro. Poi ritrovavo il mio buio; e della mia coscienza non mi rimaneva se non un aspetto misterioso e pauroso, simile a quei muri dei cimiteri monumentali, onde si veggono sopravvanzare soltanto le teste bianche delle statue funerarie.

O amatore di libri, un certo mio modo di amarli e di possederli ti sarà sempre sconosciuto; né io saprò mai rendertelo chiaro. Niun d’essi viveva intiero; ma in tutti era un punto sensibile che sapevo cercare e premere, con la stessa perizia di quel medico di piaghe che in un capitoletto di questa Vita sùbito ritrova l’osso nel collo di Fra Moriale. Allora, per virtù d’intenzione, come già gli asceti seppero ottenere le stimmate, quel punto sensibile si trasponeva in me. E, come da una fitta in un fianco o all’apice d’una scapula nasce una febbre che invade tutto il corpo ed esalta il tono di tutto il sangue, da quello nasceva una potenza impreveduta operante in tutti i cerchi del mio spirito con un tumulto creatore. E forse quella rapida e splendida imagine dell’opera somigliava a quella che lo scrittore aveva avuta prima di comporla. E, dopo, come oggi, pensavo esser vero che l’arte di scrivere libri non fu ancóra scoperta. E consideravo gran parte de’ miei come quei nemici mortali che Ferdinando d’Aragona si piaceva di tener presso di sé bene imbalsamati a guisa di mummie, dopo averli fatti morire con le invenzioni più crudeli.

«O Filotete, figliuolo di Pean, tu non saresti nell’isola di Lennos, col nostro peccato

Coglievo con l’occhio scorrente a piè d’una pagina questo grido e, non so perché, il cuore mi balzava come se a un tratto avessi udito gridare una voce eroica sul mio capo: mentre l’uomo dabbene con le sue dita nocchiute radunava le schede.

Ed ecco s’alzava un compianto sublime. «O Cillaro, la tua bellezza non ricomperò te combattente

Ed ecco, più oltre, qualche parola s’adeguava al limite del silenzio. «La figliuola di Saturno aperse una porta, e non fece stridore volgendosi il ganghero

E alcun’altra, ecco, si scioglieva al confine dell’aria. «Finalmente, piagnendo si disfece in fino alle tenere midolle; e a poco a poco diventò vana ne’ lievi venti

E in queste la voce della profonda saggezza pareva salire come per una vena tortuosa e alfine compirsi in una sentenza tonante. «Tutte le cose si mutano: niuna cosa muore. Lo spirito erra, e non muore in alcuno tempo. E sì come l’agevole cera si segna in nuove figure e non sta ferma com’ella era, e non osserva quelle medesime forme, ma pure ella è una medesima; così ammaestro io che l’anima è sempre una medesima, ma ch’ella va in isvariate figure. Adunque, acciò che la pietà non sia vinta dal desiderio del ventre, non vogliate turbare l’anime, che sono vostre parenti, con crudele morte: e ’l sangue non sia notricato col sangue. E però ch’io tratto di grande materia, e ho date le vele piene a’ venti; niuna cosa è in tutto il mondo che stia ferma

Ma altrove, in un dialogo più breve del vagito e del rantolo, tra un savio e un eroe entrambi innominati, la crudele morte era impeto di libertà e certezza di vittoria. «Onde venisti? – Del ventre. – Come ci venisti? – Piagnendo e nudo. – Dove se’? – Nel mondo. – Perché ci se’? – Per combattere. – Ove vai? – Alla morte. – Perché vai? – A vincere alfine

Forse il dabben uomo, in punto di sonnecchiare per la fatica dell’erta vecchia di Settignano, traudiva nel sopore i sussulti e gli intoppi del Frullone; ché di tratto in tratto si riscoteva. Io udivo nel silenzio il rombo dell’Arno gonfio alle Mulina, lo scalpitar d’un cavallo, l’uggiolar d’un cane, lo strillo d’un bimbo ai campi, il rodìo prossimo d’un tarlo, il polso del mio vigore; e divinavo, di dalla parola impressa, i rapporti musicali della malinconia. Mezzo insonnito, col labbro di sotto un poco penzoloni, imbambolendo come se si ritrovasse su le ginocchia della reina Belisea, il cruscaio biasciava a quando a quando: «Ci si bei, ci si bei

Or come il divoto del Santo Venerando Fiorentino Pastore Zanobi, quasi fosse untato col zibetto del Demonio, poté egli fare la fine di Messer Pietro divoto del suo Monichio e divotissimo della Zaffetta, della Nanna, della Pippa, della Riccia o di Matrema-non-vuole?

Un giorno mi giunse più saltabellante del consueto, con gli occhi vispi, con i pomelli rossi, con un ventoso zimarrino tanè tutto grinze e svolazzi, con un non so che d’insolitamente arzillo nel passo e nei modi, come se venisse dall’annuale Stravizzo academico, mezzo cotticcio e invaso dalle veneri della Cicalata.

La lettura del Milione m’aveva già empito d’un diletto e d’una maraviglia non dissimili a quelli che provai sfogliando per la prima volta la raccolta dei disegni di Pisanello e di Iacopo Bellini, lassù, nella stanza del Conservatore, entro il vano d’una finestra a’ cui vetri fumigava la nebbia della Senna grassa di cloache. Avevo cercato avidamente altri Viaggi d’oltremare, quello di Frate Nicolao da Poggibonizzi, quel di Frate Riccoldo da Monte di Croce, quel del Beato Oderico da Pordenone, e quelli del Frescobaldi, del Gucci, di Ser Mariano, prose più saporite assai che le «pomora di paradiso» ivi laudate.

Apersi il volume come si apre una mela rosa, misi la stecca nelle pagine intonse come il coltello negli spicchi. «Al nome di Dio amen. Qui appresso faremo menzione delle nobiltà delle Terre d’oltremare quando si va al Santo Sepolcro di Cristo e de’ loro costumi e modi, e appresso quante giornate si fa da una Terra a un’altra e quello si truova in quel mezzo; e tutte le dette cose e condizioni e modi, personalmente le voglio dire io Simone Sigoli negli anni Domini 1384, quando andai a Santa Caterina al Monte Sinai e al Santo Sepolcro e nell’altre sante luogora con questa compagnia cioè Lionardo di Niccolò Frescobaldi, e Andrea di M. Francesco Rinuccini, e Giorgio di Guccio di Dino Gucci, Bartolommeo di Castel Focognano e Antonio di Pagolo Mei lanaiuolo, e Santi del Ricco vinattiere con sei nostri famigli. Partimoci di Firenze a 13 d’Agosto…»

Il cruscaio s’era seduto, non senza una certa inconvenienza; e mi teneva mente, con i pollici in quelle incavature del panciotto che stanno sotto le ascelle. Io scorrevo le pagine con una curiosità simigliante alla «disordinata vaghezza» che i Padri tacciano di peccato; e mi soffermavo a ogni tratto, ritenuto dai capiversi come da quei freschi tralci che ti s’avvolgono quando entri nel vitalbaio. Mosso dalla delizia, leggevo qua e ad alta voce. «Poi la sera quando appare il cielo stellato ciascuno comincia a mangiare carne e ogni cosa che a loro piace e manucano tutta la notte. E ciascuno prete d’ogni popolo va la notte tre volte con uno tamburello sonando per lo popolo suo, chiamando i suoi popolani per nome, dicendo: Manucate e non dormite, e fate la tal cosa scolpitamente, cioè di lussuria, acciocché la legge di Macometto si accresca…»

A questo punto udii un suono di natura indistinta, che in sul primo mi fece pensare a Barbariccia in Malebolge, poi al primo cigolare di certi congegni vocali nascosti nel corpo di certi autòmati e messi in movimento dalla chiave, poi a un organetto a manovella sconquassato dove qualche canna strida, qualche altra soffii, qualche altra sibili. Ed era uno scoppio di risa! E, come il cruscaio si sforzava di contenere la non decente ilarità, il suo stomaco ne pareva intimpanito.

«Ora racconteremo della giraffa che bestia ella è» io lessi, contraffacendo ad arte la mia voce, per una bizzarria subitanea di mettermi al gioco. «La giraffa è fatta quasi come lo struzzolo, salvo che lo ’mbusto suo non ha penne anzi ha lana…»

Non avevo più dinanzi a me l’uomo del Buratto ma, sia venia al bisticcio, un vero burattino di cenci e di stecchi agevolissimo i cui fili erano tutti nella mia mano. Il sentimento della realtà m’abbandonava, una vita fantastica palpitando fra quelle tre pareti fitte di libri che sembravano a poco a poco inarcare e gonfiare i dossi come i gatti quando fanno le fusa. Ma, non so perché, udendo quello strano riso meccanico che pareva dislogare e disarticolare l’armatura del fantoccio su la seggiola scricchiolante, ridendo io medesimo, ben sapevo d’avere dinanzi a me la mia vittima prefissa.

«Ancóra diremo del leofante che bestia ella è e come egli è fatto

Quel pio Simone misurava tutto a braccia, come tutto fosse drappi di seta o pannilani: villate, castella, granai, giardini, torri tonde, gambe code corna di animali, cappelli bàtoli maniche barbe di saraini, cadì turcimanni e preti di moschette: cento braccia, braccia due e mezzo, braccia tre, e due bisanti d’oro al braccio, e il bisanto fiorini uno d’oro e un quarto, e la carne di castrone danari sedici la libbra di nostra moneta, e le quaglie vive denari sei l’una di nostra moneta, e anco pelate dal pollaiuolo. La sua beata goffaggine mi rammentava quella dei miei cucciolotti, più graziosa della grazia stessa. Il riso irrompendo dai precordii mi travolgeva le sillabe nella lettura. Con la coda dell’occhio sorvegliavo il mazzamurello dal muso di furetto, temendo ch’egli fosse per trascinarmi in una delle sue gighe vertiginose.

«Del nìffolo gli esce uno budello quasi fatto a modo d’uno corno da sonare, e quando vuole egli il dilunga bene otto braccia e più quantunque egli vuole; e con questo budello piglia l’acqua che vuole bere; et io il vidi co’ miei occhi che mise questo budello in una bigoncia, e in uno punto con questo budello trasse più d’uno barile d’acqua in meno che tu non avresti bevuto un mezzo bicchiere di vino; e con questo budello piglia ogni cibo e metteselo in bocca. E quando vanno per cammino e trovassono alberi, non è sì grosso albero ovvero ramo, che se il leofante vi gitta suso il budello, incontanente lo schianta e tiralo a terra, tant’è la forza ch’egli ha in questo budello: e se niuno gli s’appressasse per modo ch’egli potesse aggiugnere con questo budello, darebbegli con esso a traverso e gitterebbelo in alto ben venti braccia e più, e poi il riceve sulle sanne, e si è morto

Il cruscaio, sollevato di su la seggiola e agitato da una ilarità irresistibile da quanto il ballo di San Vito, si sbatteva qua e fra tavola e scaffali, ora sfondando nell’urto una fila di vocabolarii, ora rovesciando una cassetta di schede, ora roteando e rimbalzando dalla spera celeste al mappamondo terrestre, senza poter più fermare il calcagno, senza poter più serrare le mascelle, mezzo uomo, mezzo autòmato, convulsione umana in carcassa di legno, stridore meccanico in ossatura viva, stravagantissima fra tutte le stravaganze da me imaginate mai. E il mazzamurello ruzzante e beffardo, aggraffate le falde dello zimarrino, me lo spingeva addosso o lo tirava nel canto con tanta facilità che io lo vedevo a vicenda appressarsi e allontanarsi indefinitamente come le figure labili dei sogni. E, appressandosi, il fantoccio levava il suo braccio di stoppa fin sotto al mio naso e barbugliava: «Con questo budello…» E poi si divincolava e quasi pareva spezzarzi in due, a una nuova stretta di riso che lo pigliava pefianchi, gli torceva il bellìco, gli chiudeva lo stomaco. «Se vi gitta suso il budello…»

Come schiantato, si riabbandonò di colpo su la seggiola rovesciandosi in dietro; rimase per un attimo in bilico, con quel gorgoglio arido nella gola aperta. Un golino del mazzamurello gli diede il tracollo. Seguì egli nella caduta la spalliera greve, levando all’aria per l’ultima volta il piede cionco; squittì, strise; batté la capata nel duro, non si mosse più. «E si è morto

Or a chi dunque ero io per confidare i miei quaderni da mettere nella tramoggia? Di quegli spiriti ilari che, come vuole Galeno, «o per titillazione o per allegrezza» diffondendosi riempiono il cervello e storcono la bocca, ahimè, non mi rimaneva se non una inquietudine simile al rimorso. Il lavoro mi diveniva increscioso e vano. Avevo lasciato in mezzo alla vigna impantanata, fuori di Porta San Lorenzo, il proposto di Marsiglia Pietro di Agapito Colonna, con la pappagorgia segata dalla sguerruccia di Sgariglia beccaio, supino in una pozza d’acqua piovana e di sangue imbelle. e domandato avrei mille piastre per pagina e una cogna d’acqua rosa. «Di fuori di Domasco ha di bellissimi giardini ben pomati d’ogni ragione frutti che tu sai divisare,» mi diceva Simone «e quando sono fronzuti è tanta la quantità, che ’l sole non vi può; e per questo gli uomini e le donne vi pigliano grandissimi piaceri. Ancora ne’ detti giardini ha grandissima quantità di rose per tale che vi si fa l’anno molte migliaia di cogna d’acqua rosa, ed è della buona del mondo; e veramente egli è un gran piacere a vedere quella pianura con quelli bellissimi giardini

Ignava era la luce autunnale che ingiallivano i vetri tondi ne’ piombi. Di tratto in tratto, essendo in amore Piuchebella dagli occhi citrini, tutte le mute ululavano insieme di spasimo come i cinquemila cani di Bernabò Visconti. Un sol pensiero di bellezza lontana bastava perché il cervello costretto mi si sfaldasse come galestro. Non rifioriva in quel tempo il sanguine per i boschi e per le siepi della Versilia? E anche in un luogo dell’Apennino pistoiese ch’io so, lungo la fiumana che muove le cartiere; e anche laggiù, tra Ravi e Tirli, nella Maremma dove in quel tempo cominciavano certo ad arrivare le prime greggi, e i cinghiali abbandonavano i piani per rifugiarsi nei forteti, e tutti i laschi biancicavano di brina, e la beccaccia frullava d’improvviso uscendo dai capannoni di roghi, dai macchioni di sondro e di mortella, dalle felci infoltite sotto le sughere. Che avrei dato per ricamminare nella viottola di sabbia, a Bocca d’Arno, stretta tra ciuffi d’erbe e cannucce pieghevoli, quasi rosea, come una scriminatura!

Nulla è tristo quanto questi tedii e disgusti inattesi. La materia ingrata si vendicava contro il rigido artiere. Un flutto errante di poesia pareva a un tratto cancellare tutti i miei rilievi. Quasi iroso, opponevo la resistenza dell’arte volontaria. Per ciò, amico, tu troverai nella Vita di Cola più d’una locuzione risentita e netta come la spica di Metaponto nella moneta incusa.

Ti sovviene di quella mia cupa stanza da studio, attigua alla biblioteca? Aveva l’aspetto d’una sacrestia; somigliava, benché tanto minore, nella pàtina dei legni e nel sentimento del silenzio a quella sacrestia di San Giovanni in Parma, che m’è sì cara. Un’alta spalliera di noce ricorreva intorno, con le sue panche da sedere e con le sue tavole lunghe occupate dai leggìi. Un solenne leggìo da coro era nel mezzo; e due altri, d’altra forma, erano addossati a una parete, i quali provenivano da Santa Maria Novella; e ognuno reggeva, secondo la sua grandezza, un Antifonario, un Breviario, un Rituale, un Messale o un Ufiziòlo. E, nelle pagine aperte, le quattro linee parallele in rubrica tagliate dai neumi mi ricordavano di continuo che, dov’è l’arte, quivi è il canto, e che questo mondo non è se non il mondo della Forma misurata.

Or dov’è, or a chi serve e a quale uso, quella semplice e massiccia tavola francescana trovata nel refettorio d’un monastero perugino? E quella gentile scrivania, anche monacale, ad uso di scrivere in piedi, che pareva fatta alla mia statura, con tutte le sue comodità per ricevere il calamaio, le penne, la lampada e ogni altro arnese, con i suoi ripostigli per riporvi le carte, gli inchiostri, i libri utili e ogni altra cosa gelosa? Quivi tutta in piedi ardentemente fu scritta la Laus Vitae, con una lena ininterrotta, mentre su l’altra tavola era disteso il ròtolo che recava la figurazione della Sistina, simile per me a quel medesimo che svolge la Sibilla Delfica, simile al

ròtolo santo

che come vela quadra

s’inarca alla banda contraria.

E io composi L’Otre, con sì fermo polso; e , con manocasta, le sette ballate del Fanciullo, e l’ode Lungo l’Affrico, e quel trasparente Ulivo, e quella fresca Sera fiesolana cinta tre volte col salce come «il fien che odora».

Non si fenderà un giorno e non renderà sangue o succhio, quel mio buon legname, se tenuto è schiavo da qualche giudìo? E per quante crazie venduto fu dai miei scorticatori

Debbo, o amico, a tal presenza l’aver descritto con sì strenua sobrietà la fine di Fra Moriale. Il discorso che il Priore tiene ai fratelli per confortarli e per accomiatarli prima d’esser condotto al supplizio, ora che lo rileggo e posso giudicarlo come cosa a me straniera, mi piace quanto l’orazion piccola del Conte di Poppi, abbandonato da Dio e dagli uomini, disceso sopra il ponte di Arno al conspetto di Neri Capponi. «Io morrò, e di mia morte non dubito. Mura di città non istimai se non quando erano da prendere; così la vita mia se non per dovermela conquistare ogni giorno. Ora penso che meglio m’è non avere potuto ricomperarla in contante, ché sempre di poi l’avrei avuta in dispregio come cosa rivendutami da un matto villano…» È ben questa una maschia parola, se altra mai.

Ma spensi alfine il figlio del taverniere, per il fendente di Treio notaro, e lo diedi al rogo ignominioso nel campo dell’Austa.

Ero sospeso in quella delusa tristezza che sempre accompagna il termine d’ogni mia fatica, quando riconobbi il passo del cruscaio claudicante sul lastrico della corticella, e poco dopo udii picchiare con le nocca alla vetrata della libreria. Balzai in piedi, titubai per qualche attimo, accorsi: travidi pevetri il zimarrino tanè floscio come se fosse appeso a una conocchia: apersi risoluto.

Egli entrò, si soffermò alzando un poco quel piede; e mi guardò di sopra alle lenti sbieche con due occhi che volgendosi in su avevan l’aria di due bocce di porcellana bilicate. Più che mai mi parve un fantoccio fatto di panni e di stecchi. Sbirciai la cimasa dello scaffale per vedere se il mio mazzamurello non si fosse arrampicato lassù a tirare i fili. Non so che vita fantastica ripalpitò fra quelle tre pareti fitte di libri che sembravan di nuovo inarcare e gonfiare i dossi come i gatti quando fanno le fusa.

«Mi manda l’Arciconsolo» scilinguò «caso mai La me la volesse dare per la stacciatura

Su l’ultima sillaba la bazza restò aderente al pomo d’Adamo, come se la mascella dislogata non si potesse più chiudere; e la lingua, carnosa come quella d’un pappagallo, s’agitò senza suono.

Mosso da non so che sentimento di necessità, mi volsi; andai verso la tavola, raccolsi tutti i quaderni, ne feci un fascio; tornai con esso verso il cruscaio. «Ecco.»

Egli aveva aperto sul burattello del suo cuore con le due mani ossute il zimarrino, a quel modo che s’apre un tabernacoletto di due usciuoli.

«Ecco il Componimento» dissi, forzando la voce come per farmi intendere da un sordo, giacché egli era doventato mutolo.

E, dopo avergli introdotto in corpo il manoscritto caldo, sul quale il zimarrino si chiuse e abbottonò, volli dargli un leggero sorgozzone per rimettergli al posto la mascella. Sùbito la lingua, che si moveva a vuoto, rifavellò con un rumore di frullone, a salti, a intoppi. «Tre sono i luoghi, o libri, ne’ quali può essere il Componimento registrato; tratti i nomi sempre dal frumento che si macina, l’uno detto lo Stacciato, l’altro il Farina, il terzo il Fiore. Quando il Componimento non passa, si pone nello Stacciato, ove, come nell’infimo luogo, vien condannato. Quando ha ottenuto la maggior parte de’ vóti favorevoli, si pone nella Farina, per di quindi, quando che sia, dopo un’altra stacciatura, salire nel Fiore

Su l’ultima sillaba la bazza ricascò, si ricongiunse al pomo d’Adamo.

«Salir nel Fiore, salir nel Fioresospirai dal profondo. E gli diedi un secondo sorgozzone più netto, per rincastrarlo ricongegnarlo e riarticolarlo meglio.

«La non disperi, sa, La non disperi» squittì dileguandosi come lo spaventacchio d’un orto portato via da un colpo di vento. E mi parve che il mio mazzamurello si desse a inseguirlo, di sotto alle magnolie e alle camelie, passando a traverso il ragnatelo di ferro battuto.

Eccoti dunque, o amico, questa mia bene stacciata prosa. La mando, per testimonianza d’una maniera d’amore che non si può rompere, a te che mi fosti sempre congiunto di compagnia da non potere dividere, come direbbe il Beato. Pur quando ero a comporla, mi sembrava da me distante; e nondimeno ogni frase così polita, se la rileggevo attento, mi ammaestrava su la conoscenza di me medesimo; ché sempre lo stile non è se non una incarnazione illuminante, ed ogni pittura non è se non l’imagine del pittore. Sentirai qui più d’una volta, sin nell’ordine sintattico, la stessa mano che stropicciava e soffregava con arte i muscoli del sensibile levriere.

Ora, ahimè, per questa mano comprendo come quel nostro antico sonatore di liuto smanioso di superarsi fosse disperato di non somigliare le due figliuole di Marco Volcatio, ciascuna delle quali aveva sei e sei dita! Chi troverà la nuova intavolatura?

Giunto al colmo degli anni, avendo già vissuto tante vite, io mi preparo tuttavia a novellamente vivere e a conoscere nuove deità, se la forza m’assista. Ogni notte sento con un brivido l’ora della rugiada, quando l’anima non è contaminata da alcuna grassezza di carne, come direbbe il Beato.

Se Lapo di Castiglionchio mandò in dono al Petrarca un buon manoscritto, tu a me hai mandato un raro volgarizzamento della Vita solitaria ricordandomi come esso Poeta fosse solito dire, secondo Leonardo Aretino, che solo il tempo della sua vita solitaria poteva chiamar vita, perché l’altro non gli era stato vita ma pena ed affanno.

Forse un discepolo potente e discosto mi rivolgerà domani il detto che gli parrà avere io meritato meglio di Servilio Vatia. «Solus scis vivere Intanto una vecchia canzone a ballo della Grande Landa mi ripete nel suo metro barbarico la medesima cosa.

«Iou ’n sréy tustém lou méste

Menoun,

Iou ’n sréy tustém lou méste

Addio, amico mio lene e invitto. Assai mi son piaciuto di teco rivivere al tempo di già. Ecco, anche stanotte, l’ora della rugiada; che forse non è se non quella «ottima tenebria» o quel «lucente tenebrore» del povero gesuato in cui riecheggiava per le vie d’Italia il canto del tuo Iacopone.

Ognissanti, 1912.

G. d’A.



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