Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
Lettura del testo

La vita di Cola di Rienzo

I

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

La vita
di Cola di Rienzo

I

L’uomo comunale viveva incorporato alla sua famiglia alla sua consorteria alla sua maestranza alla sua parte, in quella guisa che la figura sbozzata di basso rilievo aderisce alla vena del sasso, resta prigione della forza compatta onde nasce. Ma già l’acerrima arte dantesca aveva scolpito figure di tutto tondo, girato grandi ossature umane in attitudini di sdegno solitario, staccato d’ogni banda e fissato in piedestallo la prestanza dell’Eretico disceso da Catilina; ed esso l’artiere grifagno dalla gota macra aveva anco gittato di bronzi, nel più tristo fuoco delle passioni civiche, la sua propria statua e sollevàtala di contro alla Città e al Fato, visibile per sempre sul folto dei secoli come le torri di Dite rosse nella notte infernale.

Il Poema per lui composto era il più duro atto di volontà che compiere si potesse in terra da un eroe rimasto solo con gli Elementi e con i suoi Pensieri. Le due mani della creatura terrestre fatta a imagine della Divina Mente non avevano mai operato nel tempo medesimo un prodigio duplice con tal fermezza. Come il venerando restauratore dell’Impero occidentale e liberator della Chiesa, l’alunno di Vergilio reggeva nell’una mano un mondo chiuso e crociato ma nell’altra non la verga dell’oro, sì bene la chiave protesa ad aprir la porta di un mondo caldo di natività urgenti. Quel tirannico spirito, cui fu bello aversi fatta parte per sé stesso, annunciava l’avvento delle volontà singolari, l’esaltazione della virtù soverchiatrice, l’amore effrenato del predominio e della gloria. Come quel suo magnanimo Uberti dalla cintola in su fuor dell’avello roggio, così dalla fornace scoperchiata degli odii cittadini cominciavano a drizzarsi col petto e con la fronte i dominatori.

Pareva che, nel suolo già calpestato dalla Lupa e sorvolato dall’Aquila marzia, imbevute di sangue le radici innumerevoli delle genti fossero per produrre alla ima dell’arbore umana fiori più larghi, frutti più pesanti. Per ovunque apparivano anime spaziose, ardue stature, volti d’aspro risalto. La Tirannide e la Libertà si combattevano con l’unghie e coi rostri, entrambi della razza di Anteo giganteggiando ché, atterrate, ribalzavano con furor novello; e avevano fatto vóto di ricementar torri e palagi l’una col sangue dell’altra come quell’antico di murar suo tempio con cranii d’uomini. Nella vicenda degli insediamenti e degli abbattimenti, delle congiure e dei riscatti, delle cacciate e dei racquisti, le virtù si moltiplicavano, il nerbo del braccio e dell’ingegno s’accresceva ognora più di possa e di destrezza, la gioia selvaggia di vincere o di morire ampliava il torace cui pareva angusto il giaco.

Forme di vita politica variissime si creavano, alternandosi, intricandosi, soprapponendosi. Appetivano la novità i popoli come le greggi il sale. Frequenti come le violenze erano le dedizioni. Uguccione riceveva Pisa in dono, prendeva Lucca per forza. In breve giro di tempo Firenze offeriva sé a Roberto d’Angiò, al duca di Calabria, a Gualtieri di Brenna; poi di sùbito si rivendicava in libertà, traeva i grandi dal palagio, rifermava sopra loro gli ordini di giustizia, dava la signoria alle ventuna capitudini dell’arte, in poco più d’un anno mutava quattro stati di reggimento, per tante rivolture passava dalla saviezza del Re da sermone alla mattezza di Messer Andrea bestia. Ma il cittadino costretto a vivere così tra tirannia e stato franco superava in durizia il ferro battuto tra incudine e martello. E se i serragli e le guernigioni di logge e di torri in piazza in crocicchio e in capo di ponte mettevano a pruova ogni ardire e ogni astuzia, l’esilio esaltava la volontà eroica in supremo: l’esilio che già del provvido Priore di Parte Bianca aveva fatto l’Ulisse cristiano, meravigliosamente avido di conoscenza, solo veleggiante su l’oceano d’Eternità.

Or, costituite le signorie, si riaccendeva l’amor del vivere ornato. I vincitori, detersi dall’eccidio e assisi, accoglievano con umanità la Poesia e l’Eloquenza ospiti in toga aulica o in saio volgare. Pareva che Federico di Svevia risuscitasse ai ghibellini esempio di cortesia cavalleresca. Già il Polentano amico di Dante aveva composto suoi dolci sonetti; or di mordere anco in rima dilettavasi Castruccio dalla rosa capelliera. Già Franceschino Malaspina aveva nominato il fosco fuoruscito procurator di pace al vescovo di Luni; or Giovanni Visconti e il secondo Galeazzo commettevano ambascerie solenni a Francesco Petrarca. E il nato di gente nuova, con la scorta dei cavalieri colonnesi, recando tra le salmerie la porpora regia donatagli da re Roberto, entrava trionfante in Roma vedova.


«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL