Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

II

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II

Roma pativa tutti i mali, quasi che sopra la Donna dei regni si fossero abbattute le desolazioni e abominazioni annunciate dal ruggito dei profeti alle città di Giuda stese nella vergogna. Distrutta la magnificenza della sua forza; cadute a terra le statue della sua gloria; la fame e la strage indizii della vita rimasta nell’immensa ruina. Il lamento che la diserta faceva in sul limo del suo fiume non era udito dal Pontefice nella ventosa Avignone intento a stimar con bilancia d’orafo se ogni fiorini otto gli dessero il peso legittimo di una oncia d’oro.

Miserabile e formidabile l’aspetto dell’Urbe quale si rispecchiò negli occhi ceruli del settimo Arrigo giunto alla Porta del Popolo con sì ricco sogno e sì scarso arnese. Un drama più grande che quello cotidiano delle fazioni furenti vi si svolgeva espresso dalle pietre e dal suolo. La funebre voracità dell’Agro, non placata da tanto pasto secolare, pareva che stesse per inghiottire i Fori i Templi i Teatri gli Archi le Terme, tutti i testimonii venerandi che la Republica e l’Imperio con sì stabile fondamento avevan radicato nel tufo primiero.

La bellezza dell’Urbe si faceva sotterranea, discendendo a poco a poco nel silenzio degli asfodeli verso i Mani degli Scipioni e de’ Cesari che l’avean creata a imagine della magnanimità loro. Gli sterpeti le vigne gli orti le paludi occupavano i luoghi tra ruina e ruina. Ma, come più andavan profondandosi nel lento seppellimento le moli illustri, la superbia dei nuovi ottimati soprapponeva al marmo scolpito la muraglia rozza di cotto e riconquistava il cielo con le torri inespugnabili che parevano i nudi fantasmi dei colossi antichi. Un’orrida città di guerra cresceva, irta di offese, sul composto lineamento di quella che aveva potuto acquietarsi contemplando l’orbe trionfato. Coi ruderi del Teatro di Pompeo costruivano la rocca gli Orsini; i Pierleoni con quelli del Teatro di Marcello. I Margani e gli Stazii si afforzavano nel Circo Flaminio, i Millini ed i Sanguigni nello Stadio di Domiziano.

Poggiata al fulvo travertino del Colosseo la cittadella dei Frangipani comprendeva in una cintura di torri gli Archi di Giano, di Tito, di Costantino, il Septizonio e gli altri palagi imperiali, e le vestigia sante della Roma quadrata, e forse i santuarii dedicati al culto dei primi Eroi indigeti. Tenevano i Colonnesi il Mausoleo d’Augusto e tutta la valle tra il Monte Pincio e il Quirinale; i Savelli tutto l’Aventino; i Caetani parte dell’Isola Tiberina e il battifolle inalzato intorno al sepolcro di Cecilia Metella, ch’ebbe nome Capo-di-bove dai bucranii, ove il saettame era accumulato intorno al sarcofago illeso della sposa di Crasso.

Rivale in potenza all’opere dei Frangipani la cittadella dei Conti abbracciava i Fori d’Augusto di Nerva e di Cesare ergendo incontro al Campidoglio sopra una base di macigni ciclopici la massa tetragona della torre mastra murata di cotto in tre ripiani con guernimento di merli bertesche e piombatoi, l’altissimo dei propugnacoli dominatore di tutta la cerchia, degno d’esser comparato per robustezza austera alle più valide arci della Republica. In tal selva nemica entrava Arrigo, attonito, coi suoi duemila cavalli e coi tre cardinali legati che dovevano incoronarlo. E dal maggio al giugno combatté di torre in torre, di bastita in bastita, di serraglio in serraglio, vanamente, per giungere al Vaticano che Giovanni d’Acaia e gli ottimati guelfi gli contendevano. Per giorni e giorni il sangue arrossò le vie, il fuoco arse le case, i cumuli degli uccisi abbarrarono i ponti: la chiericìa in piastra e maglia con spuntoni e corsesche armeggiò nei crocicchi; il vescovo di Liegi fu fatto prigione, gettato vivo in groppa d’un giannetto come soma, ammazzato dalla ferocia d’un balestriere di Catalogna; i palagi degli Orsini in Campo de’ Fiori furono messi a sacco; i frati francescani diedero il convento di Araceli in potere dei Bavari. Ma il Castel Sant’Angelo resisteva ad ogni assalto, precludendo la via al limitare degli Apostoli. Stanco e scorato, il Re chiese ai cardinali che lo coronassero in Laterano. Quando alfine, dopo la cerimonia non lieta, bianco vestito e in zazzera discese dal caval bianco e sedette a convito su l’Aventino, egli udì gazzarra che le masnade orsine menavano a piè del colle, vide bolzoni e quadrella volar su le mense tratti dalle balestre guelfe. E certo ripensò con mestizia quel globo aureo, insegna dell’Impero, da Benedetto VIII offerto a un altro Arrigo; ch’era pien di cenere.


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