Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

IV

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IV

Di questa favola si valse Cola negli anni della vanagloria quando mirava a rendere perpetua la sua signoria; ma, in verità, egli nacque d’infima plebe né mai poté cancellare da sé il marchio plebeo, ché anzi ne restò impresso ogni suo atto insino alla morte. E, mentre vagiva nella culla quegli che doveva esperimentar poi così crudamente la volubilità delle sorti e la fugacità dei sogni, l’Imperatore mòssosi di Pisa per andare a oste contro l’Angioino scendeva da cavallo a Buonconvento e coricato sul suo letto da campo rendeva lo spirito grave di grandi disegni e di più grandi speranze, nelle lugubri maremme fumide di febbre sotto l’ardore d’agosto, veleggiando invano sul mare etrusco le settanta galee di Lamba Doria.

Visse Cola l’infanzia triste nella casa tiberina, su i ginocchi della madre che sfioriva in lento male, tra i vapori del fiume limoso, sbigottendo egli allo strepito delle risse e al baccano delle gozzoviglie onde risonava la taverna di Rienzo. E, quando la madre passò di vita, fu egli mandato a stare in Anagni con un suo parente contadino; dove rimase fino al ventesimo anno, incolto e solitario ma già agitato dal flutto delle sue passioni e delle sue imaginazioni, in quella terra che serbava il ricordo dell’oltraggio di Sciarra e del cruccio di Bonifacio. Qual fuoco ardeva dentro dalla cerchia, laggiù, in fondo alla pianura deserta che chiudevano i Monti Prenestini e i Laziali accesi dal vespro? Sciarra Colonna, colui che aveva osato trascinar pel braccio il Caetani vacillante sotto il peso della tiara, non era stato eletto Capitano del Popolo e condottiero delle milizie? Di tratto in tratto giungevano le novelle. I Romani avevano cacciato i grandi, riformato la città, chiamato Sciarra che la reggesse col consiglio di cinquantadue popolani, mandato ambasciatori a papa Giovanni in Avignone minacciandolo che, s’ei non fosse tornato con la corte, avrebber ricevuto a signore il Bavaro. Tornava dunque dall’esilio il Papa? Non tornava. Cinque galèe di Genovesi per mandato del re Roberto erano alla foce del Tevere acciocché non entrasse vettovaglia in città per la via del mare. Rotti erano i trattati? Il principe Giovanni e il cardinal degli Orsini con Messer Napoleone avevano rotto le mura del giardino di San Pietro nella Città Leonina, per entrare con fanti e cavalli. Il popolo aveva sonato a stormo la campana di Campidoglio, e alle sbarre fatte gran battaglia s’era combattuta, e il principe e il legato s’eran posti in salvo con danno e disonore. E il Bavaro non veniva? Volevano dargli la signoria senza patti? Sciarra Colonna l’aveva chiamato. Ora passava la Maremma con grande affanno e tempo crudo e scarsità di grasce. Giungeva a Viterbo, si moveva per alla volta di Roma, aveva seco Castruccio duca di Lucca con molta moneta. Oh popolo semplice! I cinquantadue buoni uomini disputavano su i patti; e Sciarra in segreto ordinava e trattava la venuta di Ludovico, che lasciasse ogni indugio e si mettesse in cammino. E, quando gli ambasciatori furono giunti a Viterbo, commise il Bavaro la risposta dell’ambasciata a Castruccio; il quale fece sonare tutte le trombe nel campo e mandò bando che ogni uomo cavalcasse verso Roma; e questa disse agli ambasciatori di Romaè la risposta del signore Imperadore. Qual prezzo del negozio aveva egli avuto, Sciarra il capitano? E Jacopo Savelli? e Tebaldo?

Giungevano così a quando a quando le faville del fuoco civico fin su i massi di travertino tagliati e commessi dall’antichissima forza degli Ernici. E il giovinetto Cola interrogava il suo parente canuto, ricercava i luoghi segnati dal sacrilegio, ritrovava le tracce dell’incendio. Di quivi il Colonna una mattina per tempo era entrato in Anagni a cavallo con le insegne e le bandiere del re di Francia gridando: «Muoia papa BonifazioQuivi il magnanimo vecchio, sentendo il rumore e vedendosi abbandonato da tutti i cardinali e i familiari, aveva detto: «Dacché per tradimento mi conviene morire, almeno voglio morire come papa.» E s’era posto a sedere su la sedia papale parato dell’ammanto di Pietro, cinto della corona di Costantino, con in pugno le chiavi e la croce. E Sciarra lo aveva schernito, minacciato, manomesso, nel palagio dato alle fiamme e alla cupidigia dei saccheggiatori. Il sacrilego non era quegli che, in nome del popolo di Roma, ora incoronava il Bavaro e la sua donna, con rinnovata temerità? Per la prima volta un imperatore cristiano si faceva consacrare non dal Papa o dal Legato ma da un deputato del popolo: evento memorabile. E tutta la città levava grido: «Viva il nostro signore e re dei Romani!» E s’era piena di cherici e prelati e frati di tutti gli ordini, ribelli e scismatici di Santa Chiesa; e si spandeva nell’aria gran lezzo di eresia, e non più si cantava officio sacrosonava campana, e il sudario di Cristo era stato nascosto da un canonico di San Pietro perché non fosse offeso dallo sguardo degli scomunicati. Quali tempi si approssimavano? Il bello e avventuroso Castruccio nominato senatore di Roma, nel prendere l’officio con grandissima pompa, s’era messa indosso una toga di sciamito cremisi con lettere dinanzi che dicevano: «Egli è quel che Dio vuole», e di dietro: «E’ sarà quel che Dio vorrà.»


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