Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Canto novo
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Canto novo

Canto del sole

VII8.

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VII8.

Sta il gran meriggio su questa di flutti e di piante

verde-azzurrina conca solitaria;

ed io, come il fauno antico in agguato, m’ascondo,

platano sacro, qui fra le chiome tue.

Quando vedrò la ninfa con pavido passo venire,

chiusa ne’ suoi capelli l’agile corpo ignudo?

O di repente, forse, nel cortice duro ch’io premo

la sentirò, soave carne, ripalpitare?

L’ansia mi tiene, mentre il sole a le foglie ed a l’onde

tutti i suoi ori parte innumerabili.

Cademi una pioggia lucente di schegge e di squame

su ’l capo ove nitida ridemi l’imagine.

Sembrano le onde, sotto, cerulee bisce lascive

scherzanti con freschi strepiti su le ghiaie.

M’infondon nel sangue non so quale panica ebrezza

gli odori agresti misti a la salsedine.

Ma chi dunque di passi e di voci e di risa lontano

commuove gli echi de le verdi cupole?

Certo ripalpitan vive le driadi antiche

ne tronchi e una driade or fra le braccia io serro.

O bella driade, o cara al Menalio, o bionda

di Cintia alunna, fortissima amatrice,

rompi dal cortice, nuda le membra mortali:

agile io sono, è forte la giovinezza mia.

Rompi dal cortice; e fa che le mie mani ardenti

ponga io ne la tua carne come in un fresco rivo;

fa che da la tua pura bocca io con un sorso infinito

beva il respiro de la foresta immensa;

fa che ne’ verdi occhi tuoi, come Narcisso nel fonte,

la mia nova bellezza trasfigurato io miri;

oh fa che anche una volta nel mondo il Giovine viva

come un possente dio ne la sua favola! —


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