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VII8.
Sta il gran meriggio su questa di flutti e di piante
verde-azzurrina conca solitaria;
ed io, come il fauno antico in agguato, m’ascondo,
platano sacro, qui fra le chiome tue.
Quando vedrò la ninfa con pavido passo venire,
chiusa ne’ suoi capelli l’agile corpo ignudo?
O di repente, forse, nel cortice duro ch’io premo
la sentirò, soave carne, ripalpitare?
L’ansia mi tiene, mentre il sole a le foglie ed a l’onde
tutti i suoi ori parte innumerabili.
Cademi una pioggia lucente di schegge e di squame
su ’l capo ove nitida ridemi l’imagine.
Sembrano le onde, sotto, cerulee bisce lascive
scherzanti con freschi strepiti su le ghiaie.
M’infondon nel sangue non so quale panica ebrezza
gli odori agresti misti a la salsedine.
Ma chi dunque di passi e di voci e di risa lontano
commuove gli echi de le verdi cupole?
Certo ripalpitan vive le driadi antiche
ne tronchi e una driade or fra le braccia io serro.
— O bella driade, o cara al Menalio, o bionda
di Cintia alunna, fortissima amatrice,
rompi dal cortice, nuda le membra mortali:
agile io sono, è forte la giovinezza mia.
Rompi dal cortice; e fa che le mie mani ardenti
ponga io ne la tua carne come in un fresco rivo;
fa che da la tua pura bocca io con un sorso infinito
beva il respiro de la foresta immensa;
fa che ne’ verdi occhi tuoi, come Narcisso nel fonte,
la mia nova bellezza trasfigurato io miri;
oh fa che anche una volta nel mondo il Giovine viva
come un possente dio ne la sua favola! —