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VI
Ora appunto l’ottavo Bonifacio, che tuttavia copriva della sua grande ombra la natale Anagni, era stato il fondator vero dello Studio romano; e dalla sua terra appunto aveva egli promulgato la bolla statutaria, poco innanzi il tradimento e la prigionia, ai dottori e agli scolari concedendo una giurisdizione lor propria e la esenzione dalle imposte. E già nobili uomini ornati di tutte lettere, come Anibaldo Anibaldi, Romano Orsini, Egidio Colonna, Jacopo Stefaneschi, avevano interrotto con lo splendore di lor dottrina la notte di barbarie addensata su l’Urbe.
Meraviglioso fu l’ardore del giovine plebeo nell’apprendere dalla viva voce, dalla tradizione, dall’autorità, dalla natura, da sé stesso. Imparò gramatica e retorica; studiò i poeti gli storici gli oratori; conobbe Sallustio, Livio, Cicerone, Seneca, Valerio Massimo; in Boezio e in Simmaco venerò la postrema dignità di Roma, l’amoroso uso della sapienza, la norma compiuta del ben vivere; nei Profeti della Bibbia trovò le imagini di fiamma, le sentenze imperiose, le grandi parole di minaccia di esortazione e di promessa.
Ma dalle ruine s’ebbe egli il più strenuo insegnamento: gli antichi marmi furono i suoi più severi maestri; l’acume delle inscrizioni latine, ch’egli dilucidava, forte gli punse l’animo incitandolo.
Bella e singolare questa giovinezza del figlio di Rienzo, in verità, la più nobile parte di sua vita, consacrata alla ricerca assidua e taciturna, ansiosamente china sopra le testimonianze della virtù prisca, perdutissimamente innamorata di un simulacro marmoreo, come quell’imberbe Astrolabio che nella leggenda demoniaca dona l’anello alla Statua in segno di amor perenne.