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VII
Egli vagava tutto il giorno fra le terme gli archi i colonnati, lungo le mura di Aureliano, sotto gli acquedotti omai aridi, nei deserti spiazzi ingombri di ruderi, diseppellendo le lapidi, liberando dalla crosta dei secoli le lettere incise, raccozzando i frammenti sparsi, nudando i volti delle statue mascherati dall’edera, interpretando le istorie scolpite nei bassi rilievi, leggendo ad alta voce i nomi dei consoli e degli imperatori, evocando in quel cimitero formidabile i fantasmi augusti, mentre gli pareva udire a quando a quando nel vento funebre gli urli della Lupa e i gridi dell’Aquila presaghi della seconda vita di Roma. Col favore del silenzio e della solitudine quel mondo sotterraneo gli si animò nella fantasia così fieramente, ch’egli credette esser divenuto quasi il consanguineo dei liberatori e dei pacificatori quiriti. Gli si affievolì o gli si sfigurò allora nello spirito ossesso la contezza della torbida e perigliosa materia su cui voleva egli imprimere l’imagine del suo sogno inefficace. Assai più romano delle sue meditazioni erranti era, in verità, quell’implacabile furore di guerra che insanguinava il tufo del Campidoglio ove il palagio del Comune pativa la mala ombra protesa dalla rocca dei Conti, dalla torre delle Milizie, dalla cittadella dei Frangipani emule dell’arce romùlea. Un gran guerriero era necessario alla gran bisogna, non un rètore facondo. Come la folgore favoleggiata profondandosi nel suolo s’indura a guisa di saetta aguzza, così ogni pensier novo apparito tra gli uomini deve convertirsi in spada silenziosa. Ma il deciferatore di lapidi, intento ad ascoltar ripercossi dalla sua intima eco gli accenti della grandezza, non trovò sotto le macerie la larga lama imperatoria, ottima e di punta e di taglio; anzi neppur quella che Stratone tenne ritta contro la mammella dell’usurario Marco Bruto dopo la disfatta. Se un eroe vero fosse stato espulso dal cuor sepolto di Roma, una sola parola questi avrebbe proferito, veramente romana, nunzia velocissima delle azioni: Eccomi. Adsum. Chi deve lottare per la vita e per la salute, solo con la realtà delle cose e con l’ignobilità degli uomini, non ha il tempo di maturarsi in parola eloquente. Egli è inviato dal fondo dell’Infinito non per recar messaggi come un poeta, ma per condurre eventi come un re. Il plebeo, volgendosi dal silenzio venerando verso la plebe clamorosa, sentì la sua lingua contro i suoi denti vani mossa da un bisogno infrenabile di loquacità. Egli doveva così emettere tutto il suo fumo, prima di averlo convertito in fuoco gagliardo e durevole. I suoi atti eran per aver principio e fine in lettere ed in concioni. Si approssimava non il Magister populi ma il Dictator epistolarum.