Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

VIII

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VIII

Il figlio del tavernaio tiberino, apparso a molti eroe da trivio mal travestito in brandelli di porpora, era veramente l’eroe rappresentativo del Trivio medievale, se giovi consacrare ai suoi Mani questo bisticcio in commemorazione di quelli che gli furon cari come ornamenti prescritti dalla Regula dictatoria. Gramatico, retorico, dialettico, egli sembrava quasi incarnare la faticosa aspirazione delle Tre discipline a manifestarsi in un atto di vita e di regno, come se già il presentimento della primavera umanistica ne disciogliesse il rigore e la sterilità. Di quel vano sforzo creativo egli fu l’aborto ventoso battezzato nel culto tradizionale di Roma; e lo tenne a battesimo innanzi al mondo attonito la lirica illusione di quel Poeta laureato il quale s’era sottoposto all’esame triduano del Re da sermone per farsi degno di ascendere il Campidoglio. L’ars notaria e l’ars dictandi furono le due mammelle che lo nutrirono con sovrabbondanza, quando meglio sarebbegli valso a farlo maschio un solo sorso dell’aspro latte lupigno. Ma assai prima della esaltazione al tribunato non aveva egli scelto lo scettro che più gli conveniva e che sembrò non potersi mai più disgiungere dalle sue dita? quella «penna di fino ariento» con cui era uso esercitare il suo officio di tabellione remunerato.

Il biografo antico ci dice che «in sua bocca sempre riso appariva in qualche modo fantastico». E sembra il riso ambiguo dell’àugure apparso a lui medesimo in quello specchio d’acciaio polito in cui si specchiò forse un giorno su l’orlo d’un sarcofago scoperchiato. Ma era un riso rivolto alla faccia del futuro, un riso generato dal sentimento superstizioso della sua predestinazione certa. «Quest’uomo, credetelo, a voi fu mandato dal cielo» doveva i Romani esortare il Petrarca. «Come rarissimo dono di Dio voi veneratelo; e fate di profferire per la salvezza di lui le vite vostre.» Di lui doveva sognare il cantore di Scipione Africano: «Nel mezzo del mondo, e su la cima di una scoscesa montagna parvemi vederti sublime tanto che quasi giungevi a toccare il cielo. Paragonata a quella l’altezza di tutti i monti ch’io vidi, e qualunque altra che descritta lessi o intesi, stata sarebbe profonda e bassa vallèa: l’Olimpo stesso dai poeti nell’una e nell’altra favella tanto esaltato si riduceva a quel confronto umile colle. Basse sotto i piedi a gran distanza avevi le nubi; vicino il Sole ti girava sul capo. Ti circondava uno stuolo d’uomini forti, in mezzo ai quali tu di tutti maggiore sovra uno scoglio luminoso sedevi per sovrumana bellezza così splendente ed augusto, che Febo stesso pareva invidiarti…» L’errante evocatore delle Ombre non incontrò forse il Petrarca quando questi per la prima volta visitava Roma venendo dal castello di Capranica ove lo aveva bene accolto Orso dell’Anguillara sposo di Agnese Colonna e amico delle Camene? Certo lo vide di lontano aggirarsi, in compagnia dei patrizii illustri, pel Gianicolo per l’Aventino pel Monte Sacro, «dove tre volte sdegnosa ai padri si ritrasse la plebe», o assidersi su la volta delle Terme diocleziane a contemplare lo spettacolo delle grandi ruine e a ragionare delle grandi memorie con Giovanni di San Vito. Certo lo acclamò, quattro anni dopo, in quell’inclito aprile che parve illuminare un nuovo e inopinato Natale di Roma, quando il popolo per un giorno scosse da sé l’onta della sua servitù, quando i nobili per un giorno si mondarono del sangue fazioso, e in festante concordia tutta la gente romana sollevò con un sol gesto verso la fronte del Poeta la ghirlanda composta del primo ramo reciso al giovinetto alloro ch’era per divenire l’arbore vittoriosa del Rinascimento.


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