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IX
Una brezza viva di novità inaspriva l’aria. Non era anco sedata l’ultima onda del tumulto che aveva tolto dal Campidoglio i senatori patrizii di parte orsina e di parte colonnese per insediarvi i tredici Priori delle Arti. Il Comune di Firenze, richiesto, aveva mandato suoi ambasciatori con gli ordini della giustizia «contra i grandi e potenti in difensione dei popolani e meno possenti». Si rinnovellava la memoria delle assemblee popolari convocate dal Bavaro per la elezione delle due potestà supreme; e il popolo sentiva sempre più risvegliarsi la coscienza degli antichi diritti maiestatici ond’era spogliato. Morto nel palagio avignonese il dodicesimo Benedetto, le speranze del racquisto si riagitarono. Un’ambasceria solenne fu inviata a Clemente VI in Avignone, composta di grandi di mediani e di minuti, per recargli la potestà civica e per supplicarlo di venire a rioccupare la sedia di Pietro. Ma né gli argomenti degli ambasciatori né il carme di Francesco Petrarca valsero a smuovere il Limosino; che da signor magnifico ricompensò il cantore conferendogli un buon priorato in quel di Pisa e fece intendere che a sollievo della fame romana avrebbe concesso l’anticipazione del giubileo. Moriva decrepito intanto il sommo maestro in teologia e divoto avvocato della Chiesa Roberto di Napoli, lasciando erede Giovanna l’adultera; e il Regno era sovvertito da mutazioni impetuose che si propagavano allo stato finitimo. Il governo dei tredici buoni uomini, rinsediato in luogo dei senatori, spediva oratore al Pontefice il notaro dalla penna d’argento Cola di Rienzo.
Subitamente il popolo ebbe una voce sonora, un ampio gesto, una maschera cospicua. La prima epistola di Cola, scritta pel ragguaglio dell’ambasceria, fa pensare allo scoppio di una abondanza troppo a lungo compressa, ha gli accenti del delirio e dell’ebrezza, la foga di un salmo senz’arpa. «Exultent in circuito vestro montes: induantur colles gaudio et universe planities… Ecce namque coeli aperti sunt…» Egli già conferisce a sé stesso il titolo di console romano e l’officio di legato popolare unico degli orfani, delle vedove, dei poveri. L’infatuazione lirica gli fa precorrere gli eventi. Nella Babilonia provenzale egli già assume l’aspetto dell’inviato dal Cielo, dell’eroe molto atteso. In tale aspetto compare a Francesco Petrarca, movendosi e atteggiandosi a similitudine del redentore ideale che il Poeta s’era foggiato nel fuoco della sua mente; cosicché questi crede offerta per prodigio ai suoi occhi mortali la incarnazione dell’eterna imagine, e si accende di speranze sublimi, e già vede nel prossimo avvenire restaurato l’ordine con la libertà, riposto il vicario di Cristo nel suo soglio verace, ravvivato l’Impero alla fonte originaria del diritto popolare italico, restituita ai due poteri concordi la romana sede e alla madre Roma la supremazia del mondo.
Il mutuo incitamento nei segreti colloquii sollevava il sogno d’entrambi a folle altezza. Eglino ripromettevano all’Urbe la perpetua sovranità che le aveva promesso Enea nel vergiliano: «Imperium sine fine dabit». L’Impero non poteva in nessun modo cessare d’esser romano, ché l’Imperatore – qualunque fosse la sua stirpe e qualunque la sua dimora – non poteva dire che a lui si appartenesse l’autorità venutagli da Roma; né poteva Roma cederla o trasferirla ad altri, avendola ricevuta in retaggio eterno. «Se solo rimanesse nell’Urbe l’ignudo sasso capitolino» diceva il Petrarca «pur quivi durerebbe senza fine l’imperio.» E adduceva la sentenza di Giovanni XXII opposta al suo legato Bertrando del Poggetto che tentava indurlo a togliere di sul Tevere le due potestà per trasferirle in Guascogna: «Vescovi cartucensi noi saremmo allora, e l’imperatore equivarrebbe a un prefetto di Guascogna; mentre sarebbe papa quegli che in Roma esercitasse l’autorità spirituale, imperatore quegli che in Roma temporalmente signoreggiasse. Velimus, nolimus, enim, rerum caput Roma erit.» La fede in questa indissolubile unità di Roma con la Chiesa e con l’Impero accomunava i due spiriti ardenti. «Quanti furono i signori di Roma, se bene ascritti nel novero degli Iddii, chiedevano al Senato e al Popolo licenza di eseguire ciò che volevano intraprendere; e, secondo che fosse o negata o conceduta, le meditate imprese cessavano o proseguivano.» Il tabellione si profferiva al rimatore come l’eroe capace di tradurre in opera l’alto concetto: come colui che voleva restituire al popolo romano tutte le giurisdizioni e tutti gli uffici, tutti i privilegi e tutte le potestà ond’esso in qualunque tempo aveva investito altrui: come colui che voleva risollevare ricommettere e irrobustire di fresco cemento le ruine cagionate dall’orrida barbarie germanica e dalla morbida barbarie avignonese. E il fresco cemento era nel suo pensiero il patto di alleanza tra le città latine, cui non avrebbe egli imposta l’obbedienza, sì bene con la legittima autorità di Roma confermato e assicurato le libertà e i privilegi, largito inoltre il diritto dell’elezione imperiale. E nel suo pensiero più segreto non considerava egli quel patto come uno strumento efficace a scuotere il giogo alemanno, a ristabilir l’Impero italico, a vestire della porpora imperiale il liberatore, l’uomo novo, sé stesso?
Incredibile fervore accendeva l’animo del Petrarca; e l’interna vampa sembrava renderlo cieco: «Quando ripenso» scriveva al notaro della Regola «quando ripenso il gravissimo santo discorso che mi tenesti l’altrieri su la porta di quell’antica chiesa, parmi avere udito un oracolo sacro, un dio, non un uomo. Così divinamente deplorasti lo stato presente, anzi lo scadimento e la ruina della repubblica; così a fondo mettesti il dito della tua eloquenza nelle nostre piaghe; che, ogni qualvolta il suono di quelle tue parole mi ritorna alle orecchie, me ne cresce il dolore all’animo, me ne sale la tristezza agli occhi; e il cuore che, mentre tu parlavi, ardeva, ora, mentre pensa, mentre ricorda, mentre prevede, si scioglie in lacrime, non già feminee ma virili, ma d’uomo che all’occasione oserà qualche cosa di pietoso secondo il potere a difensione della giustizia. E se anche per addietro io era col pensiero teco sovente, dopo quel giorno son teco più che sovente; e ora dispero, ora spero, ora ondeggiando tra speranza e timore dico in me stesso: Oh se fosse mai! oh se avvenisse a’ miei giorni! oh se anch’io fossi a parte di sì grande impresa, di tanta gloria!»
Ma il legato dei tredici buoni uomini non soltanto ragionava in segreto con l’amico del Colonna; anche difendeva in palese al conspetto del Pontefice la causa della plebe miseranda e si scagliava con indignazione copiosa contro le iniquità dei patrizii. Essendo il Limosino ornato di buone lettere e dedito allo studio dell’eloquenza, come quegli che aveva professato teologia in Parigi ed esercitato l’officio di cancelliere presso Filippo di Valos, ascoltava non senza favore le invettive del giovane romano, e la novitas dicendi gli dava gran diletto. Per mala ventura il cardinal Giovanni Colonna, non tollerando le accuse fatte al suo parentado, prese a perseguitar l’imprudente e seppe contro di lui volgere l’animo del Pontefice. Caduto in disgrazia, Cola visse alcun tempo in povertà, quasi mendico.