Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

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La fortuna cominciava a giocare col capo di lui il suo gioco ridevole e tremendo. Come i taciti anni vissuti a cercar tra le ruine le testimonianze della gran Madre, così ci sembrano profondi quei mesi d’esilio sul Rodano vorace che, secondo il lagno petrarchesco, «tutti per sé gli onori del Tevere rodeva e ingoiava». Egli patì la miseria e l’infermità. Per giorni e giorni udì il gran vento di Provenza rintronargli nel cranio vacuo o agitargli pazzamente fra tempia e tempia i sogni d’infermo. Mal coperto di vesti logore, si trascinava sotto le muraglie impenetrabili del palagio babilonico; ove, stando egli «al sole come biscia», gli passava dinanzi agli occhi riarsi d’odio e di febbre alcun prelato corpulento «Cupidinis veteranus, Baccho sacer et Veneri, non armatus sed togatus et pileatus». Non sentì egli allora la debolezza del suo braccio imbelle? la vanità della sua ambizione senza ugne e senza rostro? la disparità lacrimevole tra quel violento sogno imperiale e l’animo suo servile dominato dalla paura della morte? Chi mai gli avrebbe data la leva capace di risollevare alla luce del secolo un mondo caduto nell’abisso delle cose irrevocabili come la prora di Enea e l’ancile di Numa? Come quello scudo vermiglio caduto dal cielo, veggente tutto il popolo di Roma, era per cadergli ai piedi la spada fatale? Ma il fantastico riso vagava ancóra su le sue labbra sporgenti quando, addossato a una colonna pagana nel vestibolo della Cattedrale, egli guardava l’imagine di Nostra Donna e del Figliuolo dipinta nella lunetta sopra la porta da quel Maestro Simone sanese cui il Petrarca aveva posto in man lo stile per ritrarre Laura.

E fu Messer Francesco per certo il grazioso intercessore che gli impetrò il perdono da Giovan Colonna, così che esso cardinale lo rimise dinanzi al Papa. E in breve il dimacrato popolano in giubberello, non senza artificiose lusinghe cortigianesche (scaltro e versatile egli era e fra tante volpi inclinato naturalmente a volpeggiare), seppe racquistarsi presso il dottore in camauro il favor perduto; onde gli fu agevole ottenere l’officio di notaro della Camera urbana, remunerato con cinque fiorini al mese, e non soltanto tornarsene a Roma sul vento della lode, ché il breve papale encomiava i suoi costumi la sua devozione e la sua sapienza, ma esser pur anco difeso da Clemente contro i senatori Matteo Orsini e Paolo Conti i quali per vendicare le risapute infamazioni lo avevan sottoposto a processo.


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