Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XI

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XI

Poco dopo la Pasqua dell’anno 1344 Cola di Rienzo, dunque, riassiso al suo banco notarile e ripresa tra le dita la sua penna d’argento, sorrideva sentendo già intorno al capo spirar l’aura popolare; ché assai gli giovava al conspetto del popolo l’aver efficacemente compiuta l’ambasceria, l’aver meritato l’odio degli ottimati, l’esser protetto apertamente dal Pontefice, il ricoprire l’officio più adatto a soprapprendere le soverchierie dei baroni e le baratterie dei giudici.

Da allora, mentre il gran sogno romano ardeva custodito nel profondo petto di Francesco Petrarca, queste furono le dicerie e le gesta del demagogo nella Città.

Una volta, stando nel Consiglio capitolino, levàtosi in piedi all’improvviso, con la movenza ciceroniana della prima catilinaria, pronunziò d’un fiato una orazione veemente contro i giudici i magistrati i rettori i patrizii che invece di por riparo ai mali della patria la subissavano senza ritegno. «Non siete buoni cittadini voi, ma sì perniciosissimi, che struggete il sangue del popolo, che in ogni strada e in ogni casa esercitate la ruberia e la violenza, che sovvertite ogni ordine, profanate ogni culto, usurpate tutti i diritti, vi arrogate tutti i privilegi, vi sottraete a tutte le leggi.» Lo ascoltavano i consiglieri in cerchio, senza ombra di rossore, con orecchio pacato e attento, come se fossero per istimare il gioco scenico di un istrione illustre. Quando il dicitore ebbe finito, si levò un Colonnese per nome Andreozzo di Normanno, allora camerario urbano, si accostò a colui che ancóra era acceso e ansante della fierissima perorazione, e senza far motto gli stampò una ceffata da maestro. Poi sorse lo scribasenato Tomaso Fortifiocca; e, battendo la manca su la piegatura del destro braccio agitato col pugno chiuso a scherno priapèo, diè la giunta all’uomo dalla gota rossa. Per certo durò nel Consiglio, più che l’effetto della diceria, la risonanza del malo schiaffo.

Sgonfiato e sbigottito, Cola rinunziò le catilinarie e tentò le allegorie apocalittiche. I Romani svegliandosi una mattina videro pendere alla parete del palagio senatorio una vasta tavola dipinta di figure e di cartigli; e le figure rappresentavano Roma vedova, le antiche Città flagellate, l’Italia oppressa, le Virtù cardinali, Bestie occhiute pennute cornute, Pietro e Paolo, isole desolate, navi in tempesta, altre cose molte; e ogni cartiglio parlante recava un distico, e la Fede cristiana così favellava:

O sommo patre, duca e signor mio,

Se Roma pere, dove starò io?

I Romani rimirarono e si maravigliarono. Ma nulla accadde.

Allora Cola imaginò una strana pompa. Esploratore di antichità avvedutissimo, egli aveva scoperto in un altare della Basilica Lateranense la tavola di bronzo fatta preziosa quant’altra mai dall’incisa Lex regia, testimonio solenne del senatoconsulto per cui a Vespasiano era stato trasmesso l’imperio. Avendola interpretata, la fece conficcar nel muro dietro il coro, e intórnovi dipingere il Senato nell’atto dell’investitura. Congregò quindi il popolo e i nobili in Laterano a parlamento; e dei nobili vennero Stefano Colonna iuniore e quel figliuol suo Gianni dal Petrarca celebrato «divino giovane pieno dell’antica e vera romana grandezza». Il notaro comparve in guarnacca e cappa alemanna e cappuccio alle gote di fino panno bianco, portando bizzarramente in capo un cappelletto emblematico. Salì sul pergamo e prese a parlare per similitudini. Poi, additando la tavola bronzea, esclamò: «Vedete quanta era la magnificenza del Senato, che conferiva l’autorità all’imperio!» E comandò a uno scriba che leggesse il testo della Legge regia, e lo illustrò delle sue chiose abondanti, riducendosi a memoria i colloquii avignonesi intorno alla perpetuità di quei sovrani diritti. E in fine deplorò la miseria presente, profetò la fame prossima, evocò i campi incolti e deserti, deprecò la guerra e le spade, celebrò la pace e gli aratri. I Romani ascoltarono e plaudirono. Ma nulla accadde.

Allora il demagogo moltiplicò le allegorie, le scritture, le discorse. Una nuova tavola dipinta egli appese al muro di Sant’Agnolo in Pescheria, costrutto entro il Portico di Ottavia; su la porta di San Giorgio in Velabro, presso la Cloaca Massima, conficcò un cartiglio con suvvi scritto: «In breve tempo li Romani torneranno al loro antico buono stato.» Ogni occasione gli fu bella a concionare. E i cittadini savii ridevano del notaro smanioso che intendeva riformare la disfatta città con quel suo spaccio di frottole bubbole e pastocchie quotidiano. Più anche ne ridevano i patrizii, non pensandosi che mordere potesse un tanto abbaiatore. Lo convitavano nei lor palagi, gli davano bere e mangiare grassamente dicendogli: «Chi troppo abbaia empie il corpo di vento; or qui ti conviene far del corpo sacco alla vivanda fina. Hai ganascia, bonissima epa, Sere.» E quei giovani asciutti e ferrigni, come Gianni Colonna, ridotti in muscolo e nerbo al mestiero della guerra, partecipanti della balestra e del verruto, lo tastavano, lo palpavano traverso la guarnacca, per sollazzo e per ispregio, valutavano da comperatori quella floscia carne sedentaria che già si gravava di adipe. E sghignazzavano e dicevano: «Senti già del grassetto, sere. Or noi ti vogliamo ben saginare perché tu esser possa in Norcia almen duca, se non puoi in Roma imperadore.» Non turbavano quelle manomessioni il conviva, ché a confronto della gotata di Andreozzo parevangli carezze e lezii. Egli rideva roco, masticando il boccone amaro; e rispondeva: «Certo che sarò imperadore; e guai alla ladronaglia dei baroni! Appiccherò i Colonna, decollerò gli Orsini, squarterò i Savelli, abbacinerò i Normanni, arderò i Caetani.» Le risa scrosciavano intorno alle mense; era lo schiamazzo, da un capo all’altro, più che tavernario. «Fa tuo sermonegridavano in coro i commensali. E poi che l’avevan costretto a tracannar la tazza colma, lo alzavano su la tavola in piedi come su pergamo. Ed egli sermonava a gran voce vituperandoli; e quanto più crudi erano i vituperii, tanto più alte le risa. Ma talora sùbito grido di allarme interrompeva la gozzoviglia e il sollazzo. Pronti in arme i nobili correvano alle barre e ai serragli, alle uccisioni e alle arsioni. Il sere, vedendo luccicare tanto ferro, pensava che gli bisognasse in fine esser lesto di mano com’era di lingua; e affrettava l’evento.


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