Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XII

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XII

Tuttavia concionò pur una volta, prima di dar fiato alla tromba. In un luogo segreto su l’Aventino, sacro per antico alla libertà della plebe, adunò i più maturi de’ suoi partigiani, cavalierotti e mercatanti del popolo grasso, molto desiderosi del «buono stato». A costoro piangendo egli rappresentò anche una volta la miseria, la servitù, il periglio di Roma. Piansero con lui gli adunati, piansero e fremettero. Fu deliberata e giurata l’impresa.

Era il 19 di maggio dell’anno 1347, la vigilia della Pentecoste. Stefano Colonna seniore si trovava con la milizia a Corneto per grano. Cola mandò bando in ogni capo di strada a suon di tromba, che il popolo convenisse in Campidoglio senz’armi al primo tocco della campana. Su l’ora di mezza notte, nella chiesa di Sant’Agnolo in Pescheria, udì trenta messe dello Spirito Santo. Su l’ora di mezza terza uscì dalla chiesa tutto armato ma nudo il capo. Gli era al fianco il vicario del Papa, Raimondo vescovo di Orvieto, ch’egli avea saputo trarre alla sua parte; lo seguiva moltitudine di popolani con grandi clamori; lo precedevano tre gonfaloni: il primo amplissimo, tutto vermiglio con in campo l’imagine di Roma sedente su due leoni, ed era il gonfalone della Libertà e lo portava il buon dicitore Cola Guallato; bianco il secondo, con l’effigie di Sire san Paolo, ed era della Giustizia e lo portava Stefanello Magnacuccia notaro; il terzo era della Pace, con Sire san Pietro dalle chiavi d’oro. Il quarto, quel di Sire san Giorgio, non isventolava dispiegato ma sì, come vecchissimo e logoro, era chiuso in una custodia appesa a un’asta lunga. L’ordinanza inerme avanzava verso il Campidoglio, in aspetto di processione piuttosto che di ribellione, col favore del Paràclito. Misurando il suo passo su quello del vescovo tardo, il liberatore prendeva audacia «benché non senza paura», come dice il candido cronachista che forse lo vide troppo aggravato dal ferro inconsueto. Giunto al palagio, arringò il popolo «con savie e ordinate parole come quegli che era di retorica ordinato maestro» e il tuono della sua voce tanto lo rese animoso ch’egli da ultimo fece sacramento di esporre la sua persona «a ogni pericolo» per l’amore del Papa e per la salute dei Romani. Terminata l’arringa, Conte figlio di Cecco Mancino lesse gli ordinamenti del buono stato, che riformavano la città alla signoria del popolo, affievolivano la forza dei grandi, schiantavano la tracotanza dei malefattori. Con grida di allegrezza il parlamento rimise nelle mani dell’uomo novo ogni potestà. I senatori abbandonarono il seggio: gran parte degli ottimati escì dalle mura. La mirabile mutazione fu compiuta senza colpo ferire. Una candida colomba aleggiò su l’assemblea pacifica, quando l’uomo novo si chiamò «Nicolaio Severo e Clemente, per grazia del clementissimo Signor Nostro Gesù Cristo, di libertà di pace di giustizia Tribuno, della sacra romana Republica liberatore». E il Gracco della Regola si sovvenne della lontana sera su la Via Casilina, di Fra Venturino bergamasco e dei Battuti; e indicò la colomba apparita come un fausto messaggio del Paràclito. Il Cielo consacrava l’eletto con quel battito d’ali.


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