Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
Lettura del testo

La vita di Cola di Rienzo

XIII

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

XIII

Or Messere Stefano Colonna il maggiore, che stava a Corneto per l’incetta del grano, udita la novella, senza indugio cavalcò alla volta di Roma.

Ceppo umano della più dura fibra questo vegliardo omai nonagenario che ancor metteva il piede nella staffa senza aiuto e inforcava saldamente il suo stallone. Tal razza di figliuoli e di nepoti era da lui rampollata negli anni, che pareva egli le avesse dato per cuna la sua targa e per nutrice la sua spada a doppio taglio e per battesimo il sangue orsino. Già Nicolò IV il minorita l’aveva fatto conte di Romagna; ed egli era entrato in Rimino l’anno medesimo in cui Gianciotto Malatesta vi trafiggeva i due cognati. Dalla rudezza del proconsole romano offese le libertà dei Comuni erano insorte; e i figli di Guido da Polenta avevano assalito in Ravenna e imprigionato il rettore. Il reduce in Roma erasi messo al fianco del suo padre Giovanni tratto in Campidoglio dal popolo su carro trionfale e gridato Cesare con grido eguale a quello delle coorti; poi aveva ottenuto la dignità senatoria, combattuto con la parola e con la balestra per l’elezione del nuovo papa, veduto l’anacoreta del Morrone pallido e tremante su l’asina condotta per la capezza da due re, veduto indi a poco Benedetto Caetani cinto di tiara su la chinea bianca pur tra quei due re scarlatti, sostenuto con tutti i suoi la collera taurina del gran prete d’Anagni, opposto alle folgori di Bonifazio l’orgoglio indòmito della colonna eretta, mirato il giullare di Dio Jacopone nella congiura di Lunghezza saltar come capro scagliando la satira pazzesca, udito senza sgomento la furia papale invocare l’universa Cristianità a prender la croce contro il mucchio d’uomini radicato nel sasso inespugnabile di Palestrina, finalmente lasciato dietro di sé nella via dell’esilio la ròcca ciclopica disfatta e rasa come al tempo di Silla, con la corda al collo i due cardinali congiunti, Sciarra errabondo come Caio Mario per macchie e per paludi. Taluno, dopo la ruina delle torri e dei càssari, avevagli domandato: «Or quale fortezza ti rimane, o StefanoRisposto aveva l’eroe sorridendo, con la mano sul gran petto: «Questa.» E anco una volta era dalla sorte dimostro quale stupenda disciplina di virtù fosse per i magnanimi l’esilio. Con atroce perticacia il Caetani avea richiesto per ogni dove la testa dell’esule invitto, posto in opera ogni argomento di promesse di minacce di autorità di ricchezze per artigliarlo, errando quegli di terra in terra, oltremonte, oltremare, ospite di re talvolta, sembianza di re egli medesimo sempre, maggiore di ogni più grande sfortuna. Un giorno, nel tenitorio di Arles, caduto in mano di ricercatori prezzolati e richiesto di suo nome, senza indugio aveva risposto: «Sono Stefano Colonna cittadino romano», con sì alto coraggio che i sicarii non s’erano arditi toccarlo. E finalmente il principe dei nuovi Farisei era morto; e la colonna marmorea s’era rialzata più superba, e Stefano era rientrato in Roma ai combattimenti e alle vittorie: aveva rotto gli Orsini, sostenuto Arrigo VII contro Roberto d’Angiò, osteggiato il Bavaro, patito novamente il bando ma breve, ripreso le armi dentro e fuori le mura, dato ai suoi di continuo l’esempio del massimo ardire nel periglio, del massimo senno nel consiglio, del massimo decoro nell’esilio.

Or questo gran vecchio, udite le novelle, cavalcava a Roma pensandosi di poter leggermente castigare la pazzia del notaro. Giunto nella Piazza di San Marcello, in prossimità della ròcca colonnese fondata sul luogo ove nelle antiche apoteosi erano arse le salme imperiali, egli si fermò e disse «che queste cose non li piaceano». Il seguente, la mattina per tempo, Cola di Rienzo mandò a Messere Stefano comandamento che si partisse da Roma. Il vecchio lacerò la cedola sul viso al messo capitolino, e gridò: «Se questo pazzo mi fa poco d’ira, io lo farò gittare dalle finestre di CampidoglioRiferita la minaccia al Tribuno, costui senza por tempo in mezzo sonò la campana a stormo. Tutto il popolo corse alle armi. D’ora in ora cresceva il tumulto. Considerato il pericolo e il suo scarso guernimento, il Colonna rimontò a cavallo, non seguìto se non da un sol fante da piede, e uscì della città per la Porta di San Lorenzo. Giunto alla Basilica, sostò sotto il portico; si sedette sopra un dei leoni che reggono i pilastri della porta, e masticando un pezzo di pane amaro meditò la vendetta. Un oscuro presentimento non gli gravò il cuore ferreo? presso s’incurvava l’ampio arco di travertino costrutto da Augusto per sorreggere i tre acquedotti, sacro alla prossima strage dei Colonnesi e alla doglia del vegliardo superstite. Ben egli sul tramontare di un giorno, moltanni innanzi, andando per via con Francesco Petrarca, aveva già vaticinato: «Ahi che, sovvertito l’ordine della natura, di tutti i figli miei sarò io l’erede!» E volto aveva altrove gli occhi gonfi di lacrime.


«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL