Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XIV

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XIV

Il Tribuno confinò tutti i baroni nelle loro terre e castella; occupò tutti i ponti e li sgombrò delle barre e de’ serragli; fece prendere i capi delle masnade che manteneano le ruberie in Roma e d’intorno; mandò editto ai nobili che venissero al suo conspetto in Campidoglio. Vennero i più, e volle egli giurassero sopra il corpo di Cristo obbedienza alle leggi della Republica. Li accoglieva in lunga cotta color di fiamma su l’arme, sforzandosi di parer terribile, tra gran moltitudine di sollecitatori cui egli rendea ragione con parola infaticata. E dopo i nobili vennero i giudici i notari i mercatanti, e giurarono fedeltà al buono stato perpetuo.

Instituì la casa della giustizia e della pace, e piantò in essa il gonfalone di Sire san Paolo, nel quale stava la spada nuda e la palma della vittoria; e vi pose pacieri a comporre inimicizie, giustizieri a punire misfatti. L’ordine fu ristorato, la sicurezza regnò le vie i campi le selve.

Il Dictator epistolarum mandò messi latori di epistole a tutti i Comuni e anco alle Signorie, al doge di Venezia, al marchese di Ferrara, a Luchino Visconti, al Sommo Pontefice, all’imperatore Ludovico, al re di Francia. In quelle epistole «luculentissime» egli narrava il felice evento, pregava che gli mandassero sindici e giureconsulti alla solenne assemblea indetta per ragionar delle cose utili al buono stato, convocava gli inviati delle città italiche a concludere in Roma il patto d’alleanza per una impresa di liberazione universale, e stabiliva al gran convegno il primo d’agosto. I messi correvano le province in lievissimo arnese, inermi, sol portando per insegna del loro officio una verghetta di legname mondo. Le genti accorrevano curiose alla novità di questi Mercurii senza talari e senza serpi; ai quali pareva il Tribuno avesse insufflato il suo spirito e il suo sermone smisuranti, ché al ritorno essi narravano cose oltremirabili come se magico fosse quel lor bastoncello dipinto. Tornati, ripartivano con nuove epistole. Giorno e notte gli scribi seduti ai lunghi banchi scrivevano sotto la dettatura di Nicolaio severo e clemente. Da prima non s’udiva stridere intorno a lui se non la penna d’oca; di poi s’udì stridere qualche ribechino, ché incominciarono venir d’ogni parte verso la grassa mensa tribunizia buffoni sonettatori cantatori e simil gente di corte a celebrare in rima il Camillo il Bruto il Romolo redivivi nell’Urbe. Forniva il Laureato, di lungi, le iperboli sonore. «Romolo fondò Roma; Bruto, che tante volte già nominai, la libertà; Camillo l’una e l’altra ebbe redintegrata. Or quale, o chiarissimo, da loro a te corre differenza se non questa: che Romolo una meschina città di fragile steccato ricinse, tu la città fra quante furono e sono grandissima d’inespugnabili mura hai circondato? Bruto da un solo, tu da molti tiranni usurpata la libertà rivendicasti? Camillo da recenti e ancor fumanti ruine, tu da rovine antichissime e l’una e l’altra, di cui già disperavasi, facesti risorgere? Salve a noi Camillo, a noi Bruto, a noi Romolo o qualunque altro sia nome onde ti piaccia chiamarti, salve, o fondatore della libertà, della pace, della tranquillità di Roma. Per te quelli che or vivono potranno liberi morire, liberi nasceranno per te quei che vivranno in futuro

Vento di lode tanto impetuoso gonfiò smisuratamente il figlio del tavernaio e dell’acquaiuola, immemore omai del giubberello sbrandellato che nei giorni della disgrazia avignonese mal gli ricopriva il fianco scarnito dalla fame insonne. Cavalcò alle feste con grande stormo di cavalieri, bianco vestito su palafreno bianco, a simiglianza degli imperatori nelle coronazioni, preceduto dalla sua guardia di cento giovani scelti nel nativo rione della Regola, mentre un gonfalone regio gli sventolava sul cappelletto di perle. Scavalcò a San Pietro con infinito codazzo di giudici notari camerlenghi cancellieri pacieri sindici marescalchi, con suono di trombe e di nacchere, vestito di velluto mezzo verde e mezzo giallo foderato di vaio, tenendo in pugno una verga di acciaio sormontata da un aureo pomo che nella sua crocetta conteneva una scheggia del Legno santo. Dinanzi a lui Buccio figlio di Giubileo portava la spada nuda in segno di giustizia e Liello Migliaro gittava al popolaccio manate di danari attingendo di continuo alle sacca che due portatori gli sostenevano; dietro a lui Cecco di Alesso palleggiava lo stendardo dal sole d’oro e dalle stelle d’argento in campo cilestro; a destra e a manca gli camminavano cinquanta vassalli da Vitorchiano suoi fedeli, con gli spiedi in mano, irsuti come orsi. Su le scale di San Pietro i canonici con tutta la chiericìa in cotta bianca gli si fecero incontro agitando i turiboli e cantando: Veni creator Spiritus. Tante magnificenze non aveva ostentate il Bavaro.


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