Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XV

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XV

Ma il villan rifatto andò sempre più oltre. Da buon demagogo egli peccava nel ventre. Già erasi acconciato a rallegrare i conviti dei nobili; ora, per vendicarsi della patita temperanza, si dava a spropositato bere e mangiare. Tutto crapulava, rinzeppandosi delle vivande più preziose, delle confetture più ricche, tra buffoni e giullari fràdici che berciavano canzoni e vomivano piacenterie ininterrottamente. Sotto pretesto di riedificare il palagio del Campidoglio, condannò in cento fiorini ciascun barone che per addietro avesse coperto l’officio di senatore. Ricevette l’oro, ma per iscialacquarlo in cene mal digeste e in apparati goffi. Volle che la sua moglie andasse per le vie con una corte di giovincelli adorni, seguita dalle patrizie umiliate, assistita dalle fantesche che le facevano vento, la spruzzavano di essenze, la difendevano dalle mosche. Un suo zio barbiere e cerusico di mezza matricola lasciò rasoio e lanciuola, ranno e mignatte, rizzò la cresta, si chiamò Gianni Rosso, e andò burbanzoso cavalcando a gambe larghe con iscorta d’onore. Una sua sorella vedova si maritò a barone di castella. Simili altri suoi parenti entrarono in grandezze; e scialavano senza pudicizia a spese del buono stato.

Romanamente volle egli anche alternare la crapula con la crudeltà; ma la crudeltà sua fu della peggior sorta, come quella che nasceva dalla paura e usava bilance bugiarde. Per dar terrore ai nobili, dannò all’impiccagione un infermo di morbo mortale e accumulò intorno al supplizio le atrocità; ché costui, chiamato Martino di Porto, nepote del cardinale di Ceccano, era idropico: secco il viso, esile il collo, riarso il labbro, enfiato a dismisura il corpo, «liuto da sonare parea». E stavasi in casa rinchiuso con la sua grandissima sete e con la sua molto leggiadra donna, chiamata Amasia degli Alberteschi, supplicando i fisici che lo medicassero. E il Tribuno lo fece pigliare nella propria casa, strappare di tra le mani della moglie, trascinare al Campidoglio come ladrone, spogliare della sua cappa al conspetto della plebaglia, impiccare senza indugio. E una notte e due lo lasciò pendere dalle forche, sì che la vedova dal balcone potesse scorgere quel tristo sacco pien d’acqua morta.

Così resse Roma in odio ai potenti. Però dei potenti si giovava per mandarli a oste in sua vece, ché egli alle durezze del campo preferiva il suo «onesto e trionfal letto» ove dal solo strepito delle nari era accompagnato il sogno della vittoria. Cola e Giordano Orsini guerreggiarono per lui contro Gianni di Vico prefetto di Viterbo; egli s’addossò il carico di contare la pecunia prodotta dai tributi, la quale in verità era tanta che dava «increscimento e fatica» a noverarla. Avuta per tal modo la ròcca di Respampano, avuti i càssari i passi e i ponti di Roma in tutto, e Ceri e Vitorchiano e Civitavecchia, «fece core» e ordinò Gianni Colonna capitano contro i ribelli della Campagna. Frattanto egli edificava una cappella, e dentrovi faceva cantare messe solenni con moltitudine di cantori e di luminarie; si poneva a sedere, e faceva stare dinanzi a sé i baroni in piedi e in zucca.

Perché un tal giuntatore riuscisse a ciurmare per alcun tempo il mondo era pur necessario il soccorso del malo spirito che dal cerchio polito dello specchio etrusco balzando entrava nella mela d’oro fitta a sommo della verga. Da città e castella veniva gente credula al Campidoglio per giustizia. I Comuni le Signorie i reami rispondevano con ambasciate illustri al dettator di lettere. Un buono bolognese avventuroso, ch’era divenuto schiavo in terra saracina, sùbito dopo il riscatto corse a Roma e raccontò come il Soldano, udito che sul Tevere cresceva in gloria l’uomo novo, gridato avesse con sbigottimento grandissimo: «Sire Maometto aiuti la Saracinia!» La regina Giovanna, già sposa del suo drudo Aloisi, temendo le vendette del re ungaro per l’abominevole uccisione di Andreasso, si raccomandò alla grazia del Liberatore e donò cinquecento fiorini con giunta di gioie alla Tribunessa. Il principe di Taranto richiese d’amicizia il Severo e Clemente, con una legazione condotta da un arcivescovo. Perfino il Bavaro gli mandòsecondo fu bucinatosegreti messi, perché lo riconciliasse con la Chiesa. L’antico ciarlone schernito dal Fortifiocca, ora tronfio in seggio, atteggiato di maestà, col globo crociato in palma di mano, usurpava solennemente il versetto del Salmo: «Giudicherò la rotondità delle terre nella giustizia, e i popoli nell’equità


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