Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XVI

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XVI

Il primo di agosto, al conspetto degli ambasciatori magnifici e di tutto il popolo romano, Cola di Rienzo prese l’ordine di cavalleria con la più buffonesca cerimonia che abbia mai accompagnato in terra esaltazione di falso eroe. Preceduto e seguito dalla solita mascherata allegorica, cavalcò al Laterano. Affacciatosi alla bella loggia costrutta da Bonifacio VIII e dipinta da Giotto, in gonnella bianca, parlò: «Sappiate che questa notte mi deggio fare cavaliere. Tornate domani, e udrete cose che piaceranno a Dio in cielo e agli uomini in terra.» Come la moltitudine si fu dispersa, discese nella Basilica ch’era l’Aula di Dio; assistette all’ufficio divino; poi, secondo l’usanza dei cavalieri antiqui, si apprestò al bagno che doveva renderlo puro qual pargolo. Il notaro ignudo che «sentiva già del grassetto» si adagiò con tranquilla impudenza nella conca di paragone overa fama si fosse bagnato l’imperator Costantino sotto gli occhi santi del pontefice Silvestro per mondarsi dalla paganìa e dalla lebbra. Escito del lavacro, involto in drappi candidi, si appressò al letto alzato entro il recinto ottagono del battistero chiuso tra le colonne di porfido che il terzo Sisto avea tolte ai templi dei Gentili e quivi ordinate. Come fece per coricarsi, il letto crollò se bene era nuovo; e il sonno fu turbato dal tristo presagio. Ma al mattino, riapparso su la loggia di Bonifacio innanzi al popolo, tutto vestito di scarlatto e di vaio, ebbe cinta la spada da Vico Scotto, allacciati gli speroni da un Orsini e da un Armanni. Quindi, assunto il titolo di «Candidato dello Spirito Santo Nicolaio Severo Clemente liberatore della Città zelatore d’Italia amatore del mondo Tribuno augusto», fece leggere da un notaro capitolino un decreto che confermava Roma capo dell’orbe e fondamento della Cristianità, donava la libertà perpetua e la cittadinanza romana alle genti di tutta la sacra Italia, dichiarava l’elezione dell’Imperatore e la signoria dell’Impero appartenersi al romano popolo e all’italico, citava a comparire per la prossima Pentecoste Messer Lodovico duca di Baviera e Messer Carlo re di Boemia come quelli che si spacciavano per veri imperatori o già eletti all’impero, citava ancóra tutti i prelati i re i duchi i principi i conti i marchesi i popoli le Comunità, minacciandoli di procedere contro di loro in contumacia «secondo l’inspirazione dello Spirito Santo»! Non lo scoppio fragoroso delle risa e delle beffe coprì la fine di questa incredibile buffoneria, ma sì frastuono di trombe trombette nacchere e ciaramelle levato a coprir la protesta del vicario pontificio. E il ciurmadore, tratta fuor della guaina la spada innocua, ferì il vento tre volte per tre bande a indicare le tre parti del mondo, e a ogni colpo vociò: «Questo è mio, questo è mio, e questo è mio.» E tuttavolta risa non s’udirono, né beffe, se bene tra la gente nuova fosse già per ispandersi taluno degli spiriti che in quell’ora fervevano entro l’anima libera del gran dileggiatore Giovanni Boccaccio. Overa egli, il Certaldese? A Ravenna, presso Ostasio da Polenta? a Forlì, presso Francesco Ordelaffi? Ah, se come il suo giudeo Abraam, si fosse egli ritrovato in Roma «per quivi vedere e considerare i modi e i costumi di quelli che a Roma vivono», non avrebbe egli forse potuto dare un fratello illustre al notaro da Prato ovunque conosciuto per Ser Ciappelletto?


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