Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
Lettura del testo

La vita di Cola di Rienzo

XVII

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

XVII

Ma la cerimonia della coronazione, annunciata per mezz’agosto, superò in gagliofferia stomachevole la precedente. Il rètore fatuo aveva composto le sei corone tribunizie con ramoscelli colti su per l’Arco di Costantino, e il simbolo di ciascuna aveva illustrato con passi scelti a vànvera in antichi scrittori. Durante la messa, il priore lateranense si fece innanzi e gli offerì la corona di quercia dicendo: «Ricevila, perocché liberasti i cittadini da morte.» Il priore vaticano similmente gli offerì quella di edera dicendo: «Ricevila, perocché della religione fosti zelante.» Il decano di San Paolo gli porse quella di mirto dicendo: «Ricevila, perocché onorasti l’officio e la sapienza e aborristi l’avarizia.» Altri sacerdoti lo cinsero d’altre corone con altri detti. E frattanto un uomo in abito di mendico, con una spada in mano, gli ritoglieva del capo i serti a uno a uno, sogghignando, in ricordanza degli scherni e degli ammonimenti che accompagnavano un tempo i trionfatori quiriti; ma ritogliergli non poté l’ultima, d’argento, offertagli dal priore di Santo Spirito, ché l’arcivescovo di Napoli glie la dovette cerimonialmente ricalcare in capo. La burlesca rappresentazione ebbe termine con un’arringa in cui il Tribuno si paragonò al Nazzareno che nell’età di trentatre anni era salito vittorioso al Cielo com’egli ora, avendo senza spada liberato il popolo, saliva al culmine della gloria. Incredibile a dirsi: non scoppiò a ridere se non l’uomo vestito da mendico, per obbligo d’istrione ammaestrato; ma un monaco in odore di santità, Frate Guglielmo, proruppe in lagrime.

Con diadema d’argento e speroni d’oro, Cola sedette a conviti senza fine. Ebbe il guidapopolo così gozzovigliando il sùbito pensiero di mettere in opera contro i baroni, come un buon tirannello di Romagna o della Marca trivigiana, la trappola consueta. Li invitò a cena. Cinque Orsini e due Colonnesi furono i commensali. Stefano Colonna il vecchio, sempre disdegnoso e amaro, mosse disputa se convenisse a rettor popolesco meglio la parsimonia che la prodigalità. A mezzo della contesa, con un gesto rude il potente scosse al Tribuno un lembo della guarnacca e disse: «Meglio ti converrebbe portar vestimenta da bizzocco che queste da principeCola fino a quel punto aveva titubato dinanzi alla perfidia troppo per lui audace. La vanità ferita ebbe tal sussulto che vinse la paura. Egli ritenne prigioni i suoi ospiti. Messere Stefano fu rinchiuso nella sala del Consiglio. Le guardie udirono tutta la notte ansare il suo cruccio leonino e risonare nel passo agitato le sue calcagna di bronzo. Di tratto in tratto egli scrollava col pugno la porta e comandava a gran voce che gli fosse aperta. Venne l’alba. In suo tenace orgoglio il vegliardo non poteva credere che quel plebeo si ardisse di mandare a ceppo o a laccio il capo della Grande Casata. Increduli eran certo anco gli altri, poiché Giordano e Rainaldo Orsini non poterono comunicarsi per aver mangiato di buon mattino i fichi freschi, essendo il dolce settembre. Ma il Tribuno aveva già disposto che fosse parato di bianco e di vermiglio il parlatorio, in segno di sangue, e che un frate minore ricevesse da ciascun patrizio la confessione e a ciascuno amministrasse il corpo di Cristo. Messer Stefano respinse il conforto, non volle apparecchiarsi alla morte ignobile, non prestò fede al rintocco della campana funebre: coperto della sua canizie eroica come da un’arme inviolabile, stette ad aspettare in silenzio l’evento. Quegli che più a dentro tremava d’incertezza, in verità, era il condannatore; cui la natura non avea dato la tempra di Ezzelino o di Castruccio. Vacillando egli, vennero alcuni cittadini prudenti a consigliargli la clemenza. Di sùbito accolse il consiglio, mutò il proposito. Era ora di terza: i baroni furono condotti al parlatorio, squillarono le trombe, il popolo attese avido e trepido il supplizio. Cola salì alla ringhiera e anche questa volta fece «uno bello sermone» di pace e di perdonanza. Non soltanto scusò i nobili dinanzi agli aspettanti, ma li colmò di officii e di beneficii, li nominò consoli capitani e prefetti, li regalò di ricche robe e di bei gonfaloni, li tenne a mensa senz’altra perfidia, se li trasse dietro a cavallo per le vie, in fine li accomiatò onestamente.

Rare volte al mondo tanta rapidità di fortuna nell’acquistar lo Stato si accompagnò con tanta inettitudine nel mantenerlo, e tanta prosunzione di parole con tanta impotenza di fatti. Tra quanti al mondo pervennero d’abietta origine in signoria nuova non vi fu mai alcuno, forse, che men di costui sapesse conoscere e usare la bestia e l’uomo, la frode e la fede, l’arme e la virtù, la crudeltà e la clemenza, il sopruso e la legge. Sùbito che furon liberati, i baroni escirono dalle mura, si ritrassero nella Campagna, afforzarono le ròcche e incominciarono la guerra.


«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL