Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XIX

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XIX

Ma la ròcca resisteva; e il cavaliere dello Spirito Santo chiamava invano a soccorso contro la duplice stecconaia i Fiorentini e gli altri alleati del primo patto. L’esercito popolesco ansava già nella fatica inconsueta, travagliato dalle balestre orsine, con scarsa vettovaglia e scarsissimo soldo. I cavalierotti mandavano lettere segrete a Stefano Colonna invitandolo a venire sotto le mura con la sua gente, ché gli avrebbero aperte le porte. Allora i Colonnesi, col favore del cardinal legato che macchinava in Montefiascone a danno del disobbediente, raunarono nella cittadella di Palestrina da cinquecento cinquanta cavalli e pedoni quattromila, per tentare lo sforzo. La novella della raunata mise grande spavento addosso al Tribuno, che «diventò come fosse infermo e matto». Non prendeva più cibosonno. Smaniava, farneticava, vedeva da per tutto traditori, faceva a ogni tratto sonare la campana patarina, congregava il popolo per raccontargli i suoi sogni e le sue visioni. Il Prefetto, chiamato, mandò innanzi a sé molte carra di frumento e venne di poi con cento lance, seguìto da quindici baronetti di Toscana, accompagnato dal suo figliuolo Francesco, che per la prima volta vestiva l’arme. Cola rinnovò con lui l’insidia conviviale, ma senza pentirsi. Lo invitò a mensa co’ suoi; alle frutta lo fece prigione. Gli arnesi e i cavalli distribuì ai Romani. Radunò il popolo una volta per dirgli d’aver udito in sogno san Martino «lo quale fu figlio di tribuno» assicurare la vittoria su i nemici di Dio; un’altra volta per dirgli d’aver udito il santo papa Bonifacio vaticinare la postuma vendetta sopra gli odiati Colonnesi.

Come costoro s’erano accampati a quattro miglia dalla città presso un luogo detto Monumento, l’interprete gridò esser questo il segno certo che non solamente sarebbero sconfitti, ma morti avrebbero quivi il lor monumento sepolcrale. E sùbito fece dar nelle trombe nelle nacchere e nelle ciaramelle, e ordinò le genti con l’aiuto di certi degli Orsini di Campo di Fiore e di Ponte Sant’Angelo, e di Giordano dal Monte. Diede per parola d’ordine «Spirito Santo cavaliere». Si mosse verso la Porta di San Lorenzo, contro cui s’apparecchiava lo sforzo ostile.

I baroni, sperando di occultare la marcia, s’eran discosti dalla via di Palestrina volgendo a quella di Tivoli e s’erano accampati in vicinanza del Ponte Mammolo. In su la mezzanotte Stefano Colonna iuniore, capitano di tutta l’oste, condusse fanti e cavalli sino al Monastero fuori le mura. Li travagliava la pioggia dirotta e il crudelissimo vento, di tratto in tratto giungendo con le ràffiche lo stormo delle campane di Campidoglio, segno della riscossa. Sotto il portico della basilica, Stefanuccio – che era infermo di vomito e batteva i denti per la terzana ma dominava il malore col grande animoadunò a consiglio i baroni collegati; i quali erano il suo primogenito Gianni, Pietro di Agapito signore di Genazzano, Giordano Orsini, Cola di Buccio Braccia, Sciarretta orfano di quel tremendo Sciarra castigatore di Bonifazio, Petruccio Frangipane e due Caetani di Fondi. Udivasi tuttavia la campana capitolina nello scroscio della pioggia; e Pietro di Agapito, il quale era grassoccio e alquanto più inclinato alle cautele che agli ardimenti per aver lasciato da giovine l’abito di chierico ma non l’indole, cominciò a disanimarsi e a vacillare. Egli aveva veduto in sogno la sua moglie, una degli Anibaldi, scapigliata in gramaglia vedovile; e temeva il presagio. Nel consiglio tenne per l’abbandono dell’impresa e per la rapida ritirata su Palestrina. Ma Stefanuccio gli mozzò le parole in bocca: prese con seco un sol fante, voltò il cavallo, e fu dinanzi alla porta, poiché sperava che taluno dei cavalierotti avrebbe mantenuta la promessa di aprire. Ad alta voce nella notte chiamò la guardia a nome; disse: «Sono cittadino di Roma; voglio a casa mia tornare; vengo pel buono stato». La guardia nominata non faceva motto. Egli batté con la manopola, iterando il grido. E allora un balestriere dall’androne gli rispose la guardia esser mutata, avere egli Paolo Buffa la custodia, non voler tradire la fede. Per segno di sua fermezza, non potendosi la porta aprire se non di dentro, accomandò la chiave a una verretta e con questa la scagliò a forza di balestro di dall’arco di travertino. Cadde la chiave nella melma di un pantano. Disse il patrizio: «Buono balestriere, di te si ricorderà Stefano Colonna.» E spronò verso il monasterio. Ai collegati disse: «Entrare non potiamo per via alcuna, ché fummo tratti in inganno. Serrata è la porta e saldissima; difficile abbatterla, difficile appellare quel pazzo alla battaglia fuori mura. Giova rimettere il colpo ad altro giorno con più di forze, ma ritirarsi con onore passando in ordinanza davanti la porta a suon di trombe e a bandiere levate

Mise fanti e cavalli in tre schiere. Comandò che l’una dopo l’altra movessero verso la porta, quella rasentassero, dessero quindi la volta a man ritta per riprendere la via consolare. La prima, condotta da Sciarretta di Sciarra, si mosse ordinata; giunta sotto la porta sonò le trombe a disfida; voltò senza colpo ferire. Il medesimo fece la seconda, condotta da Petruccio Frangipane. La terza veniva avanti con più baldanza, ché vi s’accoglieva il fiore della cavalleria colonnese, la più animosa gioventù patrizia, la meglio in arme, la meglio in arcione, montata su romani di gran corpo o su giannetti alla leggiera, esercitata a ogni fazione e tanto ardente al combattere che Stefanuccio prima di muoverla aveva messo bando che sotto pena corporale niuno tentasse l’assalto. Precedevano il grosso gli otto primi feditori in antiguardo, tutti nobili; e tra questi Gianni Colonna il leoncello, arditissimo e fiero oltre misura, occhio del vegliardo.


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