Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XX

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XX

Cominciava ad albeggiare tra il nuvolo; meno spessa era la pioggia, ma il terreno tutto melma e pozzanghere, sicché vi s’affondavano i cavalli fino alla grascella. Le genti del Tribuno e del popolo, ond’eran capitani Cola Orsini e Giordano dal Monte, avendo già le due volte udito gli squilli e lo scalpitìo sotto la porta, tumultuavano per appiccar la zuffa; e, come la chiave erasi involata con la verretta di Paolo Buffa e serrame e gangheri erano ben saldi all’urto, incominciarono a maneggiar le scuri contro l’imposta dritta. Udirono i feditori il rimbombo e il tumulto; e Gianni Colonna, credendo che i suoi partigiani sopraggiunti movessero quel romore e fossero a dirompere la porta con i mannaresi e le accette, sùbito imbracciò la rotella, abbassò la lancia su la coscia, prese di terreno alquanto per rincorrere, fu pronto alla spronata e all’impeto. Come l’imposta cadde, fulmineo irruppe nel varco con tanta furia che dinanzi a lui solo tutta la cavalleria avversa diè la volta e tutto il popolo sbigottito s’arretrò per una mezza balestrata alla lunga. Lo stendardo tribunizio cadde a terra di schianto nella belletta sotto le calcagna dei fuggiaschi; e il Tribuno bianco di terrore vide il cavaliere lampeggiante, alzò gli occhi al cielo, credette venuta la sua ultima ora, altra parola non disse se non questa: «Ahi Dio, hammi tu tradito

Ma i compagni non aveano seguìto il temerario; che si ritrovò solo di dalla porta, non guardato alle spalle, con in pugno il troncone, su la bestia impennata. Ripreso animo contro l’assalitore singolare, la pedonaglia romana gli si gettò addosso urlando. Il cavallo al clamore spiccò due gran lanci per costa e ricadde in una buca impantanata sul lato manco della porta travolgendo il suo signore che restò preso nella staffa e confitto nella melma negra. Lo sopraffecero i popolari armati di spiedi e di verruti con rabbia grande come quella lor prima paura; e, avidi dell’arme ricca, presero a dispogliarlo innanzi di finirlo. Si dibatteva il giovinetto terribile, sforzandosi di drizzarsi in piedi per tener testa alla canaglia che lo sopraffaceva sol perché atterrato. Gridava sperando essere udito dai suoi: «Colonna, ColonnaRisonava su lo schiamazzo il grande nome. Strappatogli del capo l’elmetto, di dosso gorzarino spallaccio cosciale, tutto l’arnese pezzo per pezzo, la ferocia ladra lo abbrancava ignudo per dilacerarlo. Fonneraglia di Trevi fu il primo che lo colpì nell’inguinaia, passando il ferro basso tra il viluppo degli abbattitori. Gridava tuttavia l’intrepido: «A me, a me, Colonna

Il suo padre dinanzi alla porta domandava ansioso: «Dov’è Gianni mio?» Risposto gli era: «Noi non sappiamo che aggia fatto, né dove sia gito.» Allora sospettò Stefano che il suo leoncello fosse balzato pel varco. E, come buon sangue chiama buon sangue, anch’egli spronò, solo entrò nell’androne. Udì l’ultima voce del figlio, vide il figlio stramazzato nella buca melmosa, sopra il corpo sanguinante il viluppo degli uccisori. Come la masnada di Cola Orsini gli corse contro, egli voltò il cavallo, ripassò la soglia. Ma l’amore della creatura fu più forte che l’amor della vita. La febbre autunnale gli agghiadava le midolle e gli scoteva le ossa nell’armatura. Egli strinse i denti; silenzioso e disperato, spronò ancóra una volta a rientrar nelle mura per soccorrere il figlio abbattuto. Lo vide morto, lo vide supino e ignudo, riverso il bellissimo capo, lorda la chioma di fango e di sangue, lacerato l’inguine pubescente, squarciato il divino coraggio del petto giovenile. I denti non disserrò; silenzioso si rivolse al varco dove splendeva in quel punto il repentino bagliore dei raggi saettati pel rotto dei nuvoli. Dalla torricella del presidio un macigno gli piombò su le spalle, percosse nella groppa lo stallone che impazzato lo sbalzò di sella contro la muraglia. Tramortito dall’urto, restò in terra. Sùbito fu calpesto; tratto fu dal popolo in mezzo alla sozzura; ebbe tronco il piè destro, aperto il viso tra occhi e naso come fauce belluina. Gittato sul cadavere figliale, mescolò il suo sangue maturo con quel virgineo ancor caldo di speranza fallace.


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