Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XXII

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XXII

Il Tribuno non s’era mai ardito escir fuori della portadistaccarsi dall’ombra dello stendardo bruttato. Sempre la vista e il cozzo del ferro gli davano il tremacuore, perocché assai più familiare ei fosse con gli inchiostri e coi vini che col buon succo delle vene virili. Quando vide Giordano dal Monte ricomparire sotto l’arco ad annunciar col guizzo dello stocco la vittoria piena, egli riprese colore; e rizzatosi dall’arcione fece sonare tutte le sue trombe d’argento a raccolta. Pronta aveva già la corona d’ulivo, e se la pose in capo; pronti già nel suo capo l’ordine e l’apparato del trionfo. Rimise le genti in ischiera e cavalcò a Santa Maria di Araceli con tripudio. Quivi appese in voto alla Vergine la corona d’ulivo e la verga d’acciaio. Rendute le grazie, salì al Campidoglio e si mostrò con la spada in pugno al popolo festante. Non una gocciola rossa interrompeva il nitore della lama imbelle; ma l’eroico mimo fece l’atto di forbirla al lembo della sua cotta cremisina, rotondamente. Disse: «Hai mozzata orecchia di tal capo, che non la poté tagliare PapaImperadore.» E andò a mensa.

Su l’imbrunire i cadaveri spogli di Stefano, di Gianni e del proposto furon trasferiti pietosamente dalla Porta di San Lorenzo alla cappella sepolcrale della casata in Araceli. Coperti furon di coltri d’oro, intorniati di torchietti ardenti. Vennero le gentili donne colonnesi in gramaglia, seguite da una moltitudine di lamentatrici scarmigliata e lacera, per fare la lamentazione e l’ululo sopra i cari morti. Echeggiavano le strida e i pianti per l’erta sacra, e turbavano il convito nel palagio accosto. Montò in furore il Tribuno, e comandò che fossero scacciate le vedove col loro stuolo urlante, e negate le esequie agli uccisi. Parve nella minaccia rammemorar le parole da Stefano il Vecchio proferite quando in San Marcello aveva spregiato l’editto; perché gridò: «Se quei tre mi fanno poco d’ira, io li farò gittare nella fossa degli appesi, come maledetti spergiuri ch’ei sono.» Allora i cadaveri nottetempo, senza pompa e senza ploro, furono portati nella chiesa di San Silvestro in Càpite ove i Colonnesi aveano fondato un monasterio per le figliuole di lor sangue. In segreto quivi, tra il virtuosissimo padre e il pusillanime congiunto, ebbe sepoltura e requie dalle pie donne l’imberbe eroe domatore di cavalli, che il Petrarca paragonava a Marcello diletto da Giove Ferètrio.


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