Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XXIV

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XXIV

Che taluno ripetesse al Tribuno, dopo il fatto d’arme compiuto dai due Orsini, l’ammonimento di Maharbale al Cartaginese dopo la battaglia di Canne, non è certo. Certo è bensì, che il dettatoresapeva vinceresapeva usare la vittoria. Invece di fare oste senza indugi sopra Marino e Palestrina per quivi sradicar di colpo ogni resistenza e ribellione di nobili, egli adunò la sua cavalleria di cavalierotti da lui chiamata sacra milizia e si credette satisfare all’importuna pretesa del soldo con una nuova facezia. Parlò: «Vògliovi dar paga doppia oggi. Venite meco.» Ordinò le schiere. Vestì di drappi bianchi il figliuol suo Lorenzo, lo pose a cavallo, e lo menò seco a suon di nacchere e di trombette. Dov’ei volesse andar a parare con quella mostra, non sapeva alcuno. Cavalcò verso la Porta tiburtina, al luogo della zuffa; overa rimasta nel terreno la pozza atroce con la melma e con l’acqua arrossate dal sangue magnifico di Stefanuccio Colonna e del feditore adolescente. Dinanzi la pozza smontò, fece smontare il figliuolo; inginocchiare lo fece su l’orlo tristo, attinse di quell’acqua sanguigna, ne asperse il prostrato dicendogli impronto: «Sarai Cavaliere della Vittoria.» E gli astanti stupirono e inorridirono. Ed egli volle che i conestabili percotessero col piatto delle spade, secondo l’usanza, l’ignobile battezzato col fango suo pari più che col sangue degli eroi.

grande fu il disgusto, allo spettacolo, che i baroni di parte popolare si vergognarono di vestire arme in pro di tal cialtrone. E i cavalierotti e l’altra soldatesca, omai ristucchi di attendere la paga doppia e pur la mezza paga, mormoravano e si sbandavano; mentre il dannato Giordano Orsini, con le ferite ancóra aperte, rinnovava la guerra minuta portando il guasto fin sotto le mura, mentre Sciarretta Colonna collegatosi con Luca Savelli operava senza tregua, sovvenuto di danari e di uomini dal cardinal legato che ne traeva dalle città guelfe d’Umbria e di Toscana.

Roma era affamata. I guerreggiatori chiudevano il passo alle vettovaglie. Rubbio di frumento valeva sette libre di moneta. La plebe dal mormorìo passava al tumulto. Lo spocchione, tutto dato alla crapula e al fasto, non vedevaudiva. e notte era ai conviti, vestito come un satrapo, grasso e rubicondo, esercitando la ganascia che aveva potentissima, inzeppando la ventresca che già diveniva badiale. Alle badìe in fatti toglieva per impinguarsi; sequestrava le entrate delle chiese, le aziende dei mercanti, i beni delle comunità; prendeva l’oro a chi l’aveva, senza ritegno, ammutolendo con le minacce gli spolpati. Il tutto andava in ghiotteria e in scialo, in mantener buffoni e masnadieri.

Così, mentre l’Orsino derubava e angariava di fuori, il medesimo egli faceva di dentro. Intollerabile era divenuto anche al popolo il giogo del villano. Costui non più si ardiva tener parlamento, per paura del furore improvviso. Il cardinal legato da Montefiascone minacciava la scomunica e il bando, il Papa da Avignone esortava i cittadini che abbandonassero ai suoi errori l’uomo abominevole «la cui malizia strisciava qual serpe, mordeva qual scorpione, diffondevasi qual tossico». E il Petrarca, riconosciuta non senza rossore la vanità del suo lirico sogno, scriveva moltiplicando nella obiurgazione epistolare le figure e le sentenze: «Oh! che dirti potrei se non quello che Bruto diceva scrivendo a Cicerone? Sento vergogna di coteste vicende, di cotesta fortuna. Te dunque, che ammirò duca de’ buoni, oggi il mondo vedrà fatto satellite de’ ribaldi? Così per noi si mutaron le stelle, così nemico si fece il cielo? Dove n’andò quel Genio tuo salutare, col quale era fama che avessi tu continui convegni? Tanto eran grandi e incredibili le imprese tue. Ma a che m’affanno?… Io verso te correva, or volgo strada. Addio Roma, a te pure addio


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