Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XXVIII

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XXVIII

Dove lo condussero il rammarico smanioso della signoria renunziata così stolidamente, il terrore delle persecuzioni papali indette contro l’eretico, la confusa angoscia del peccato, della penitenza, dei castighi celesti? Si bucinò ch’egli entrasse nel Reame per chiedere soccorso al re Lodovico che vi aveva già vendicato Andreasso e riformata la terra. E chi disse che andò per mare sconosciuto su un legno; e chi disse che trattò col Nemico di Dio per cavalcar con lui sopra Roma e che, raccolto il denaro occorrente, il patto non ebbe séguito, perché il fratello di Cola si fuggì con la cassa; e chi disse perfino averlo visto in Roma aggirarsi ignoto tra i pellegrini accorsi alla perdonanza del Giubileo ed essere egli medesimo l’instigator segreto del verruto balestrato contro il cardinale Anibaldo.

Il bandito pellegrinava ben più lontano, pei valichi dell’Apennino, verso quel Morrone petroso ove s’erano inerpicati i tre vescovi per recare al fraticello scalzo l’annuncio terribile della sua assunzione. Certo, un numero sublime regola i passi dell’eroe colpito dal fato iniquo allorché, dopo avere stampata la sua più dura impronta su l’anima della stirpe, si rivolge verso il deserto, verso la rupe, verso la palude, verso la fiumana, tratto dalla necessità di rientrare nel silenzio originario ov’egli rimarrà solo co’ suoi pensieri inespressi che s’appiglieranno alla terra per infinite radici, solo con la sua verità disconosciuta che profondamente custodita nella terra si risolleverà domani fra gli uomini operosa quando il suo primo portatore si sarà disciolto e riconfuso nella malinconia del mondo. Ma l’appressarsi di quell’istrione stracco e rauco dall’aver troppe volte con bocca rotonda gittato al vento e alla plebe il nome ineffabile di Roma, l’appressarsi di quel rètore sgonfio a quell’aspra montagna tutta piena di anelito divino è senza alcuna bellezza, senza alcuna grandezza, in vero.

Altare di sacrificio e d’implorazione tra i più venerandi, sollevato dall’ansia dello spirito sotterraneo verso i cieli troppo remoti, quella mole di sasso pareva nei secoli il fulcro dell’estasi umana. Nelle cavità polite e adorne dall’arte dell’acqua umile e casta, viveva un popolo di asceti perpetuamente rivolto verso l’oriental bagliore dell’Eletto ch’era per venire a purificare e rinnovellare il regno profanato. Il loro culto era di aspettazione vigile e trepida. Lo sposo novello della Povertà, il pastore angelico, sarebb’egli apparso nell’alba dell’ultimo orrizzonte? o subitamente illuminato da un mattino paradisiaco sarebbe egli sorto di su la stuoia nella spelonca, risplenduto agli attoniti sul limitare, indi sceso dal monte alla pianura per compiere l’alta profezia? Essi vivevano aspettando, affrettavano con la preghiera la venuta, con la macerazione assottigliavano l’ingombro carnale perché l’anima potesse più facilmente ricevere il lume. E tuttavia talun dei più semplici dal vertice della rupe aprendo le braccia verso l’aurora ripeteva con bocca fedele il Cantico delle creature, o lo cantava a gran voce di giubilo simulando con due legni il gioco del liuto; e forse a vespro vedeva giungere per le vie dell’aria il Serafico e chinarsi con benigna letizia su la scodelletta di scorza a condirgli con l’olio dell’oliva umbra l’odorata erba alpestre o il legume farinoso.


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