Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XXIX

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XXIX

Cola vestì la lana rozza con la stessa vanità con cui erasi composto nelle guarnacche di sciamito e di vaio. Non dimenticò la regula dictatoria per la regula paupertatis. Si rimpinzò di cipolle per farsi modello degli Spirituali; si ingombrò di dottrine profetiche per improvvisarsi teologo. La Concordia il Decacordo il Comento, il Vangelo eterno di Gioachimo da Fiore, i vaticinii di Cirillo e della Sibilla, le Cronache delle sette tribolazioni, le glosse di Giovanni da Parma e di Pier Giovanni Ulivi, tutte le visioni e tutti i sogni suscitati dal turbine dell’Apocalisse in quanti affaticava l’ansia del Futuro, tutti si rimescolarono confusamente in quello spirito ventoso e caliginoso. Divenuto gioachimita ardentissimo, egli per i due primi stadii del mondo – per il «carnale», compreso tra la creazione di Adamo e la natività di Cristo, per il «sacerdotale» fondato dal divino Figliodiscese al terzo stadio «monacale» che doveva iniziarsi con l’avvento d’un santo uomo eletto a riformar la Chiesa nella povertà. Or chi poteva esser mai questo angelico riformatore se non egli, Cola di Rienzo, lo scavalcato cavaliere del Paràclito? Simulando in fatti la voce di un romito annunziatore dell’èra terza, volle egli persuadere a sé medesimo e ad altrui questa elezione. Non il buon frate Angelo da Monte di Cielo messaggero di Dio lo esortò a dipartirsi dall’eremo e a ridiscendere tra gli uomini per operare i novissimi prodigi, sì bene egli medesimo fu l’esortatore della sua follia ribollita. «O Cola, a che t’indugi? Assai vivesti in solitudine. Or devi ricominciare a vivere per la salute dell’Universo. Il Signore ti ha scelto. Va, rècati all’imperator romano che nell’ordine è il centesimo, e tu assistilo qual precursore col consiglio e con l’opera. E non dubitare che Roma presto s’adorni della papale e imperiale corona, essendo già trascorsi i quarant’anni da che fu tolto a Gerusalemme il tabernacolo del Signore e rimasto per i peccati degli uomini lungi dalla sua vera sede.» E l’industre gonfianùgoli imaginò che il romito per vie più incitarlo gli svolgesse sotto agli occhi i rotoli delle profezie di Merlino e quelli ov’eran trascritti i vaticinii incisi nelle due tavole d’argento offerte dall’Angelo a Cirillo sul Monte Carmelo.

In verità, anche questa volta la paura fu il più efficace stimolo al viaggio; ché egli seppe come l’arcivescovo di Napoli, conosciuto il rifugio, pensasse di prenderlo e di consegnarlo al cardinal legato in Roma dove la memoria del Tribuno era tuttora viva e forse faziosa. Il terziario gittò la tonacella in un botro del Morrone e s’incamminò alla volta della Magna; valicate le Alpi, giunse alla città di Praga nel mese di luglio dell’anno 1350.

XXX

Quivi capitò nella casa di uno speziale fiorentino; e lo pregò che lo presentasse a Messer Carlo eletto imperatore per la Chiesa di Roma, volendo dirgli cosa di suo onore e di sua utilità. Il Boemo ammise al suo conspetto il pellegrino ignoto e gli consentì di esporre il messaggio. Allora Cola disse: «Fa vita santa in Montecelo un romito per nome Frate Angiolo; il quale ha eletto due ambasciatori, e l’uno ha mandato al Papa in Avignone e l’altro a voi Imperatore. Io sono quello.» Il Boemo si chinò verso lo strano messo per iscrutarlo con que’ suoi grossi occhi di cane sagace, premendo il collo e il viso innanzi, com’era suo costume. Gli disse: «Parla, adunque.» Il gioachimita parlò secondo la dottrina dei tre stadii. «Sappiate, messere Imperatore, che Frate Angiolo vi manda a dire che nel principio regnò sul mondo il Padre e dopo gli succedette il Figliuolo nella possanza; ed ora è la volta dello Spirito Santo, il quale deve regnare sul tempo a venire.» Il gobbetto astuto, ch’era rimasto pelato de’ suoi peli per il beveraggio propinatogli dall’amor geloso della regina onesta, cessò dal tagliuzzar le verghette di salcio col coltelluccio, com’era suo costume e suo diletto nelle udienze. Avendo udito quell’uomo separare il Padre e il Figliuolo dallo Spirito Santo e avendo già notizia delle eresie di Cola, disse: «Sei tu colui, il quale io penso?» E l’altro: «Chi pensate voi ch’io sia?» E l’Imperatore: «Io penso che tu sia il Tribuno di Roma.» E questi: «Veramente io sono quel Cola a cui il Signore diè grazia di poter governare in pace in giustizia e in libertà Roma capo del mondo.» E seguitò suo sermone presagendo una prossima strage di principi della Chiesa, la morte del Pontefice, l’avvenimento di un pastore angelico, di un redivivo Francesco, che doveva iniziare la rinnovazione portentosa, edificando alla gloria del Paràclito un duomo assai più splendido del tempio di Salomone. «Questo pastore coronerà voi in Roma con un serto d’oro e me Tribuno con un diadema argenteo, a voi lasciando la signoria dell’Occidente, a me quella dell’Oriente. E saremo noi tre in terra l’imagine della santissima Trinità.» Il Boemo, udendo tante favole, ricominciò a tagliuzzar le verghette di salcio e a movere i grossi occhi intorno; sì che pareva non attendesse alla diceria. Ma, com’ebbe finito Cola di sermonare, mandò Carlo per l’arcivescovo di Treviri e per altri vescovi molti, e per gli ambasciatori del re di Scozia, e per tutto il corpo de’ dottori, affinché udissero i savii e giudicassero. Ed eglino giudicarono infette di eresia quelle dottrine e abominarono il dicitore. Il quale fu preso, costretto a distendere per iscritto il messaggio, e dato in custodia all’arcivescovo finché non giungesse la deliberazione del Pontefice a cui l’Imperatore aveva spedito l’empia scrittura sigillata col suo sigillo.


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