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Stette Cola alcun tempo in Praga, trattato umanamente, passando i giorni a disputare con maestri di teologia. La sua facondia «faceva stordire quelli tedeschi, quelli boemi, quelli schiavoni». L’amico dei conviti, mal disposto alla frugalità francescana, si contentava di mangiare e bere all’alemanna; ché «assai vino, assai vivanda li era data». Per ingraziarsi il Boemo, gli disse: «Io sono del vostro sangue. Come Santo Alessio che, dopo il suo ritorno dal pellegrinaggio e sino alla morte sua visse sconosciuto nella casa paterna vituperato dai servi, io ben voleva tacermi. Ora parlo. Sono figliuolo bastardo di Enrico imperatore; sono del vostro sangue.» E gli raccontò la favola della taverna, e magnificò anche una volta le sue imprese romane perché il Boemo non avesse a vergognarsi del parentado. Il gobbetto astuto aggrinzò nel sorriso le gote rilevate in colmo, e seguitò a tagliuzzare le verghette di salcio.
Cola fu condotto in un triste castello su l’Elba; ove, afflitto dalla inclemenza dell’aria e dall’incertezza della sua sorte, passò lunghi mesi di prigionia confortandosi con la scrittura d’innumerevoli epistole, finché giunsero in Praga gli atti della inquisizione diretta contro di lui dal legato papale Giovanni vescovo di Spoleto. Il Boemo allora mandò l’eretico ad Avignone con buona scorta; e il Papa lo ebbe finalmente nelle mani.
Come Giovanna di Napoli, egli comparve dinanzi al collegio dei cardinali; ma non fu, come l’adultera, assolto. Fu rinchiuso nella più massiccia torre del palagio, con la catena al piede; e la catena era murata nella volta incrollabile! Narrava il Petrarca a Francesco dei SS. Apostoli avere il Romano evitato il supplizio per l’opinione che si era sparsa nel volgo esser egli un famoso poeta e come tale e da sì nobile studio santificata non potersi senza sacrilegio offendere la sua persona. Dell’antico laudatore aveva chiesto notizia il prigioniero sul primo entrare nella città, forse sperandone qualche soccorso, o perché la calda amicizia in quegli stessi luoghi nata gli tornasse alla mente; ma erasi ritratto nella solitudine di Valchiusa ad ascoltare la melodia del suo cuore doglioso colui che mirato aveva bella nel bel viso di Laura la morte.
«Poteva egli aver compiuto in gloria i suoi giorni sul Campidoglio, e si ridusse invece con onta immensa della Republica e del nome romano ad essere prima da un Boemo e poi da un Limosino in carcere sostenuto!» deplorava colui che un giorno aveva anelato di avvolgere le mani entro i capegli dell’Italia sonnolenta per isvegliarla. Ma il Limosino, con improvvisa fortuna del catenato che pur riceveva «vitto assai sufficiente dalla scodella del Papa» e poteva leggere Tito Livio, si partì dal dolce mondo tralasciando la pompa decenne dispiegata con larghezza di re. E prese l’ammanto di Pietro il vescovo d’Ostia, sotto il nome d’Innocenzo VI, col proposito di ammendare la disonestà della Curia e di purgarla da ogni vituperio. S’adempiva la profezia di Frate Angiolo? Il nuovo Pastore disposava la Povertà?
Così scaltramente seppe maneggiarsi Cola con questo uomo di buona vita e di non grande scienza, che assoluto perdonato benedetto fu posto a fianco del gran cardinale Egidio Albornozzo cui era commesso l’officio di pacificare l’Italia e di restaurare in Roma i diritti della Chiesa.