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L’Albornozzo lo tenne in Perugia, con scarsissima provvigione. Il reduce dalle spelonche francescane, il seguace della Povertà, fu preso allora dalla fame querula dell’oro, si diede tutto alla ricerca astuta, fu il sollecitatore insidioso dei mercatanti perugini, il frequentatore obliquo dei banchi e dei cambii, l’amico e l’emulo dei barattieri e dei truffardi, non ad altro inteso se non a lavorar buona pània da prendere merlotti. Ma i Perugini delle cinque Porte «feroci e d’agro consiglio», di continuo dediti a fare e a disfare leghe, a prendere e smantellar castella, a ricever terre in obbedienza e a venderle per contante, a batter moneta e a fermar leggi, a erigere Studii ed Archivii, a concedere cittadinanze e podesterìe, a rimetter Guelfi in patria e Priori in palagio, a ordire e a scuoprir congiure, a intraversar di catene e di barre i capi delle strade o a condurre in piazza la vena dell’acqua, a vender grano al Papa o a beffarsi dell’interdetto, non aveano tempo né voglia di dare orecchio al cianciere floscio: governavano, guerreggiavano, mercatavano, edificavano: popolo di gran nerbo che pur allora dava consigliere al Legato in Viterbo quel Leggieri di Nicoluccio d’Andreotto forte di senno e di mano che doveva poi farsi capo dei Raspanti contro i Nobili.