Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XXXIV

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XXXIV

Non essendogli riescito di sedurre «con la dolcezza delle parole» i Signori Priori delle Arti che appunto nel giorno della Pentecoste sotto il Magistrato di Leggieri avevano incominciato ad abitare il palagio novellamente fatto, Cola pensò d’introdurre il suo miele e il suo vischio in quello Studio illustre che tra l’imperversare delle passioni civiche fioriva maravigliosamente. Nella scola di Giurisprudenza, già quivi illuminata dall’insegnamento di Cino ed ora dal divino ingegno di Bartolo, egli trovò infatti Messere Arimbaldo dottore di legge e Messere Brettone cavaliero di Narba fratelli carnali di Fra Moriale. L’uccellatore fu in gran giubilo, ché non poteva la sorte mandargli più bella presa. Ben sapeva egli come il friere di San Giovanni avesse dato in deposito ai mercanti di Perugia la molta moneta acquistata con le ruberie e con le taglie. Gli bisognava dunque trovar il modo di spillarne una parte. Se bene il Trivio e il Quadrivio figurati da Nicola Pisano fosser posti a bevere acqua continua intorno la fonte di Fra Bevignate, il notaro teologo si accomandò alla virtù del vin mero. Avviluppando il giovane e litterato Arimbaldo, volle sùbito con lui sedere a cena, trincare con lui. Tra l’una e l’altra coppa, versò la sua liquida eloquenza, rimescolò il latino di Tito Livio e quel dell’Apocalisse nelle celebrazioni della forza romana ripetute omai sì gran numero di volte che perfino il vecchio leone serrato nella gabbia capitolina avrebbe potuto ruggirle a mente. L’effetto su l’animo giovenile fu prontissimo. Arimbaldo credette avere già in pugno la signoria di Roma, vide sé già in vetta al Monte Tarpèo, vestito di porpora. Scrisse al devastatore della Marca: «Onorato fratello, più aggio guadagnato io in uno die, che voi in tutto lo tempo di vostra vita.» E gli domandò licenza di togliere dal banco quattromila fiorini, perché Cola poneva a ogni sua cantafavola un medesimo ritornello: «A ciò fare bisogna moneta. In ciò moneta per cominciare bisogna, messere.» Fra Moriale, uomo solito di far la misura rasa col fil della spada alle moggia dell’oro, tentennò alla richiesta. Egli odorava la follia nell’avventura. Nondimeno, per amor del fratello, consentì; e il consenso accompagnò con l’ammonimento: «In primamente aggiate guardia che li quattro mila fiorini non si perdano.» E anco promise che, in caso di malanno, verrebbe di persona al soccorso e farebbe le cose alla grande, secondo il suo costume.

Intascati i fiorini, Cola non capiva nelle cuoia e nei panni per l’allegrezza, per ciò panni mutò senza indugio, ma le cuoia serbò ai giudei dell’Austa. Il terziario del Morrone, pomposamente rivestito di guarnacca e cappa scarlatta foderata di vaio, su palafreno con sella alla gianetta e gualdrappa messa a oro, tra il dottore Arimbaldo e il cavalier di Narba, seguìto da una turba di fanti e di donzelli, si partì per quella via che il figlio di Bernardone aveva stampata delle sue sante vestigia andandosene coi compagni verso Roma – al tempo di un altro guidapopolo chiamato Giovan Capoccio – per proporre al terzo Innocenzo la parabola della Povertà.


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