Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XXXV

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XXXV

Il suo primo comparire dinanzi al cardinale Egidio, all’ossuto Spagnuolo domatore di tirannelli institutore di leggi e costruttor d’acquedotti, fu di paone tronfio che spieghi la coda e rimiri sue penne e dica crai-crai. Eccolo, il gesticolatore, figurato nella prosa dell’antico biografo come in una rozza pitturetta che su una parete della Suburra illustri la scena di un’atellana. «Mostravasi grosso, con suo cappuccio in canna di scarlatto e con cappa di scarlatto fodrata di panze di vari; stava superbo, capezzava, menava lo capo nanti e retro, come dicesse: Chi sono io? io chi sono? Poi rizzavasi ne le punte de li piedi, mo si alzava, mo si abbassava.» Allora parlò e disse: «Legato, fammi senatore di Roma. Io vado e pàroti la via.» Il volto ulivigno del Conchese, forte disciplinato nel dissimulare il pensier suo finché non fosse convertito in atto veloce, non mostrò forse né il disdegno né la pietà. Egli era ben l’uomo che, più tardi, richiesto di rendere i conti, doveva rispondere a Urbano V caricando un carro con le chiavi delle recuperate città e inviandoglielo senza motto. Considerò con l’occhio aguzzo il corpulento plebeo e, fattolo senatore, lo mandò volentieri ad bestias ma senza dargli pur un tornese di viatico.

Cola spedì un messo ad assoldare coi fiorini di Messere Arimbaldo duecento cinquanta barbute che, licenziate da Malatesta di Rimino, oziavano in Perugia. Con questi cavalli, con una masnada di fanti toscani e con alquanti perugini egli si mosse per alla volta di Roma. La fama lo precedeva. Il popolo si apparecchiava a festeggiarlo; la nobiltà stavasi in disparte, col piede nella staffa della balestra. Era il ferragosto dell’anno 1354, era il settimo anniversario dal giorno del lavacro nella conca di Costantino.


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