Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XXXVII

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XXXVII

Chiamati all’obbedienza, i baroni non risposero. Dei Colonnesi l’orfano Stefanello, germano di quel Gianni che in un punto aveva lanciato il cavallo e l’animo oltre il limitare di Roma e dell’Eternità, non tralignava dalla sua progenie. Avendo composto nel sepolcro le terribili ossa dell’avo quasi centenni, unico superstite del suo ceppo egli si sforzava di tener ritta sul sasso di Palestrina la gran marmorea colonna contro il secolo procelloso. Come seppe il ritorno del villano battezzatore, si preparò a vendicare il sangue della pozza. Avendogli mandato il beone i cittadini Buccio di Giubileo e Gianni Caffarello per ingiungergli di venire all’omaggio, l’orfano ritenne i due messi, li imprigionò, fece a uno strappare un dente per ispregio, all’altro impose taglia di quattrocento fiorini d’oro. Con guardinga rapidità, condusse fuori della ròcca le sue bande di arcieri, corse la campagna fin sotto le mura, menò gran preda di bestiame, si ritrasse, ricomparve, alternò la beffa e il danno, giocò d’astuzia e di destrezza, combattitore espeditissimo. Costretto dal mormorìo dei Romani, tirato su in arcione con gli argani, attorniato da una banda di famigli e di mercenarii Cola cavalcò fuor della Porta Maggiore, in ambio, ché il peso e l’ànsima non gli consentivano altra andatura. Per la Via Prenestina la sua gente sciamannata faceva vista di cercare tra i ruderi dei sepolcri. Tutta la campagna era muta e deserta, senza traccia di uomini e di bestie. La via tagliata nel tufo discendeva alla bassura del bulicame, risaliva pel dorso di Tor de’ Schiavi. E nulla era più miserevole di quella pinguedine pusillanime dondoloni in groppa a quella chinea grossa (sotto gli zòccoli ambianti risonava il lastrico antichissimo battuto un dalle coorti di Quinzio Cincinnato) mentre declinava il sole sul silenzio dell’Agro alla cui selvaggia grandezza s’erano talvolta agguagliati i nuovi sangui almeno per la tenacità degli odii per la ferocia delle oppressure per il dispregio della vita e della morte. Mormorava il tardo persecutore: «Che giova gire qua e per lòcora senza vie?» E aveva paura del silenzio. Ma il buon mastro di guerra Stefanello co’ suoi lesti arcieri già traversava il taglio della rupe Sabina, passava innanzi alla cella del tempio di Giunone spingendosi innanzi la preda: ricoverava e le bande e le mandre di dalle ruine dell’acquedotto, nella selva chiamata Pantano, presso il confluente; poi, fatta la notte, traeva il tutto alla ròcca in salvo.

Cola volse per Tivoli; sostò; seppe, il giorno di poi, che la preda romana era già in Palestrina; furente, sfogò in millanterie, giurò l’ultima distruzione dei Colonnesi, scrisse gran numero di lettere, chiamò a sé le masnade mercenarie, rialzò il suo vecchio stendardo azzurro col sole e le stelle. Vennero i soldati pochi con bandiere trombe cornamuse e nacchere molte; vennero Messer Brettone e Messere Arimbaldo capitani generali che avevano appresa l’arte della guerra dai giureconsulti dello Studio perugino per gareggiare col maggior fratello. Ma le barbute e i conestabili, come furono in conspetto del senatore, gli domandarono a gran voce le paghe; gli gridarono che combattere non poteano, avendo lasciato in pegno l’arnese. Prestamente il litteratissimo con una citazione dell’antiche storie foggiò una ciurmeria e per quella fu buono di trarre dalle borse dei due Narbonesi ancora un migliaio di fiorini. «Trovo nelle antiche storie scritto che in diffalta di pecunia il console adunò i baroni di Roma e disse: – Noi, che teniamo le dignità e gli offici, esser dobbiamo i primi a donare secondo le forze di ciascuno. – Tanta moneta sùbito fu raccolta, che la milizia ebbe tutte le sue paghe. Così voi due cominciate a donare; seguiranno gli altri l’esempio, e avremo denari a furore.» I due impaniati nicchiarono ma non si ardirono contraddire alla dotta citazione; sciolsero di mala voglia le borse, e ciascuno diede cinquecento fiorini. La somma fu distribuita a tutta l’oste. Fatta la ragunata, Cola mosse all’assedio di Palestrina.

Dinanzi alla cittadella ciclopica l’espugnatore atellano si diede a «capezzare» come dinanzi al chiuso cardinale Albornozzo. Levava dunque il capo, considerava le torri e il càssaro eccelso, rammemorava i più ingegnosi stratagemmi storici; poi diceva: «Questo è quel monte, lo quale mi conviene appianare.» Ma le sue genti operavano fiaccamente, a quella calura d’agosto; non tagliavano gli alberi perché si piacevano di meriggiarvi all’ombra sazii di frutta. L’espugnatore seguitava a guatare il monte: vedeva entrar per le porte munite mandre di bestiame, lunghe file di giumenti carichi di salmerie; e domandava: «Quelli somarieri che vonno dicere?» Gli rispondevano: «Portano vettovaglie alla ròcca.» Ed egli: «Non si poterìa fare che non le portassero?» Gli rispondevano che troppo era aspra la fortezza del monte. Egli giurava allora, senza distogliere lo sguardo: «Mai non ti lento finché non ti consumo, o Palestrina.» Una sera giunse al campo una femminetta e chiese udienza. Era la fante di Fra Moriale sopraggiunto in Roma con quaranta conestabili per mantener la promessa ai suoi fratelli e per vedere se fosse il caso di «far le cose magnifiche» secondo il suo costume. La fante, con l’animo di vendicare i mali trattamenti avuti dal suo padrone, riferì avere udito più volte il Narbonese far proposito di riscuoter suoi crediti pigliandosi la pelle lustra del senatore. D’improvviso il senatore levò l’assedio (era l’ottavo giorno) e di buon portante ritornò a Roma, pensandosi essere a lui più facile ordire la frode che condurre la guerra, e la cassa piena del malvagio friere giovargli assai meglio che il saettame del Colonnese scarno.


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