Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XXXVIII

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XXXVIII

Sotto colore d’amicizia mandò egli a chiamare il fresco ospite, che venisse in Campidoglio co’ suoi fratelli e conestabili. Adoprato aveva la pània per invescare i due merli implumi; preparò la tagliuola per prendere il lupo rapace. Andò Fra Moriale, senza alcun sospetto, alla lieta accoglienza. Come fu giunto, si accorse d’esser incappato nell’ordigno e bestemmiò la sua balordaggine; ma non ebbe neppur tempo di mordersi le dita ché fu stretto in manette e in ceppi, legato inferrato imprigionato prestissimamente insieme con Brettone e con Arimbaldo. Cola ritrovava la celerità cesàrea. Dissimulando la cupidigia sotto la toga della giustizia, processò senza impaccio e indugio di procedura il friere di San Giovanni «come publico principe di ladroni, il quale aveva assalite le città della Marca, e di Romagna, e le città di Firenze, di Siena e di Arezzo in Toscana, e fatte arsioni e violenze e ruberie senza cagione in catuna parte, e molte uccisioni di uomini innocenti». Conobbe il friere come quello sbracato plebeo avesse più sete dell’oro che del sangue, e cercò maniera di fargli intendere che avrebbe comperata la libertà a qualunque prezzo. Consolava i fratelli con la speranza del riscatto. Rispondevano egli sospirando: «Deh faccialo per DioDiscesa la notte, il condottiero si addormentò raccolto in tondo alla guisa dei veltri, come era uso nel campo sotto la tenda, facendo alla gota sostegno del braccio nerbuto; ché il manigoldo lo aveva alleggerito dei ferri infami. Scosso fu di sùbito nel primo sonno, condotto al tormento. Come vide la corda, si sdegnò contro l’audacia dei villani, attestò a gran voce la sua qualità di cavaliere spron d’oro, drizzò contro l’oltraggio il corpo e l’anima; né li curvò più mai fino al trapasso. Fece il novero delle sue imprese. «Capo della Grande Compagnia fui; e, perché cavaliere, venir volli ad onore. Prendere seppi e rivendere città, mettere taglie, terre guastare, uomini uccidere, femmine priemere. Quanto pesi mia spada sanno la Puglia la Toscana e la Marca.» Dinanzi alla morte, la pervicacia del predone si accendeva di magnanimità. Ricondotto nel carcere, il priore dei Gioanniti domandò penitenza; e gli fu dato un confessore per acconciarsi con Domeneddio. Brettone e Arimbaldo nell’ombra si sforzavano di soffocare il singulto e il gemito, ma non tanto che non l’udisse il primogenito. «Cari fratelli, non vi dolete» parlò a conforto pacata e grave quella vocepotente in levare e infrenare l’impeto dell’assalto e del saccheggio. «Voi siete anco in sul fiore come io era quando con la galèa di Provenza me ne andava in Levante, e la fortuna cacciò il legno arrenato nella bocca di questo antico Tevere ov’ella oggi m’ha pur ricondotto a perire. Predata e rotta fu la galèa, roba e arnese perdetti, ignudo scampai per la piaggia; dopo cinquanni fui vicario del Re d’Ungheria, tenni la città d’Aversa e il tesoro accolto. Di prima barba siete anco, dolci fratelli, e non conoscete ciò che è fortuna: i forti aiuta sebbene è fallace. Pregovi dunque che siate forti e savii e animosi al mondo come io fui, e che vi amiate e vi onoriate. Non temete, ché voi non morirete ora. Io morrò, e di mia morte non dubito. Mura di città non istimai se non quando erano da prendere; così la vita mia se non per dovermela conquistare ogni giorno. Ora penso che meglio m’è non avere potuto ricomperarla in contante, ché sempre di poi l’avrei avuta in dispregio come cosa rivendutami da un matto villano. Sono contento morire in quella terra dove transirono i beati Pietro e Paolo, nella misericordia di Dio avere pace, sul santo petto di Sire santo Giovanni posare. Su, fratelli, su, sangue mio buono! Per tua colpa, Arimbaldo, io uomo fui condotto in questo inganno come fantolino. Ma non ti dolere di me, non lacrimare. Sì bene vi sovvenga che non v’era pur ieri sopra me, o fratelli, meglio ammaestrato guerrieromeglio in armemeglio a cavallo né di più sano consiglio né più ridottato.» In questi conforti, la notte si avvicinava al e cominciava l’alba ad apparire. Il friere sorse e volle udir messa. Ci stette scalzo, a gambe nude.

Su l’ora di mezza terza sonò la campana, fu congregato il popolo. Condotto alla scalea del Campidoglio overa la gabbia del leone, il Provenzale ebbe pietà della fiera e fu allegro di morire. S’inginocchiò dinanzi all’imagine di Nostra Donna. Tre fraticelli lo assistevano. Il popolo silenzioso mirava la gentilesca grandigia del cavaliere vestito d’una roba di velluto fosco a liste d’oro. In piedi egli ascoltò la sentenza. Interruppe il lettore gridando: «Ahi Romani, e come consentite alla mia morte? Quale ingiuria da me aveste? E chi mai potrebbe oggi riformare a buono stato la città vostra miserabile, se non io che ridussi all’obbedienza col senno e col ferro Puglia, Marca e Toscana? Per la vostra miseria e per la mia ricchezza debbo oggi morire; ma trist’a voi, trist’a quel sozzo can traditore che m’ha fatto frodeSentì fremito del popolo intorno; placato s’inginocchiò novamente innanzi alla Vergine. Come parvegli udire nella sentenza mentovar le forche, balzò di sùbito in piedi, pallido di corruccio, ergendosi di tutta la statura come per respingere l’infamia. Quelli che intorno gli stavano lo confortarono, che non dubitasse, che condannato era certo nel capo. Si acquetò allora; camminò con passo fermissimo al supplizio, verso la spianata del Monte Tarpèo. Il luogo era tristo e selvaggio, aduggiato dall’ombra delle alte forche, pascolo di capre, scalo di cordai, sparso di colonne infrante e d’oleastri contorti; onde scorgevasi la faccia travagliata dell’Urbe con le sue basiliche e i suoi chiostri, con le sue terme e i suoi circhi, con i suoi archi imbertescati e i suoi fòri trincerati, col biancicore dei suoi marmi mezzo sepolti su cui le opere di mattone rosseggiavano quasi fossero costrutte di grumo impietrato. Egli volse in giro gli occhi grifagni; poi li affisò nella torre caetana delle Milizie fondata con possa ciclopica sopra il Fòro di Traiano. Il suo sogno di dominazione ripalpitò per un attimo su la cima del propugnacolo formidabile. Egli vide la sua Grande Compagnia, condotta dal conte Lardo, cavalcare verso le terre lombarde a nuove prede, ignara della iniqua sorte. Disse: «Risollevare io voleva questa città vostra, o Romani. Ingiustamente muoio.» Si accostò al ceppo, s’inginocchiò in terra, posò il capo a prova sul legno; poi si levò e disse: «Non sto bene.» Si volse verso oriente, a Dio si accomandò; di nuovo pose in terra i ginocchi; baciò il ceppo, e disse: «Dio ti salvi, santa Giustizia.» Fece con la mano il segno della croce dov’era per lasciar la vita, il segno baciò; si tolse il cappuccio bruno listato d’oro e lo gittò. Come la mannaia gli fu aggiustata sul collo, disse: «Non sto bene.» E chiamò il suo medico di piaghe, ch’eragli presso con altri familiari. Il cerusico gli ritrovò la giuntura dell’osso e la indicò al carnefice. Tutto il popolo era intorno sospeso, rattenendo il respiro; i pastori guatavano da lungi attoniti; i mazzi della canapa risplendevano al sole d’agosto in cima delle aste tenute dai cordai; sì alto era il silenzio che si udiva il brucar delle capre negli sterpi. Al primo colpo mozza, la testa sbalzò. Al getto veemente del sangue si conobbe la potenza di quella vita. Pochi peli della barba rimasero nel ceppo. Sì netto fu il taglio che quando i frati minori rappiccarono al busto il teschio, parve la grande spoglia avere intorno al collo un fil vermiglio. Tumulata fu in Araceli.


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