Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Vita di Cola di Rienzo
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La vita di Cola di Rienzo

XXXIX

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XXXIX

Se Cola di Rienzo avesse avuto cuore di assistere allo spettacolo, avrebbe dal malvagio friere imparato almeno a ben morire. Aveva fatto appiccare Martino di Porto, il marito idropico di Monna Masia, per aver derubato la galèa di Provenza alla bocca del Tevere; e il giovane di Narba scampato al naufragio doveva in quel medesimo spiazzo ridursi sotto la mannaia del medesimo giustiziere!

Percossi dalla magnanimità del guerreggiatore dinanzi al supplizio, i Romani mormoravano di rammarico e di corruccio. I più arditi già accusavano d’ingratitudine e d’avarizia colui che rimeritava con le catene il beneficio di Arimbaldo e publicava a sé il tesoro di Fra Moriale. Quegli adunò e arringò il popolo per acquietarlo, proponendo nella dicerìa una parabola impudente. «Faremo come fa lo trescatore: la pula manda al vento, il grano serba tutto per sé. Così noi avemo dannato questo falso uomo; e la moneta sua li suoi cavalli le sue armi terremo per far nostra briga.» Dei centomila fiorini d’oro ebbe egli gran parte, il resto arraffò Messer Gianni di Castello; il Papa ne sequestrò sessantamila nei banchi di Padova per incamerarli; i Fiorentini abbrancarono i depositi ch’eran nei banchi di Perugia. L’Albornozzo volle che Arimbaldo gli fosse mandato sano, e così fu fatto. Brettone rimase nella carcere capitolina, incatenato.

Cola tra demenza e paura precipitava alla sua ultima onta. Levò nuove milizie contro i Colonnesi; creò capitano Riccardo Imprendente degli Anibaldi, buon mastro di guerra, poi a mezzo della ben condotta impresa lo cassò dalla capitanìa; pose nuove gabelle sul vino, sul sale, su altre derrate; mercanti e popolani grassi imprigionò per esigere riscatti; ultimamente, dandogli ombra il savio uomo Pandolfo de’ Pandolfucci antico cittadino e di grande autorità nel cospetto del popolo, senza colpa il fece pigliare e decapitare. Perduto ogni ritegno, sempre pieno di vino e di vivanda, attorniato da parassiti e da cagnotti di vilissima sorta, assunse apertamente abito e modi tiranneschi ma senza il nerbo della tirannia. A guardia della sua persona levò cinquanta uomini per rione pronti allo stormo ma non li pagò. La mobilità dell’opinione e del sospetto travagliava la sua corpulenza pigra, come nuvolo d’estri affatica vacca da macello. Sermonando nel Consiglio, dava in crosci di risa in scoppi di singulti. Rideva e lacrimava a un tempo; traballava nelle vertigini, s’arrovesciava nelle sincopi. Sobbalzando nel letto, tendeva l’orecchio alle strida degli uccelli notturni.


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