Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Canto novo
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Canto novo

Canto del sole

XII13.

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XII13.

Ma ancòra ancor mi tentan le spire volubili tue,

o alata strofe, coppia di serpentelli alati

cui domava ad Ovidio con aurei freni un fanciullo

di Venere prole, bello feroce nume.

Lottavan essi: ferivali il tristo codardi;

caldo sprizzava il sangue da le ferite fuora.

Rideane il piccolo arciero scegliendo altre punte

con un maligno tintinnir, ma — Docili!

pregava il poeta. — Perché con un dio tanta guerra?

Egli è de’ Parti alunno. Docili, o figli miei! —

Non io son Ovidio, non temo io il pargolo armato,

non a te fido vili pianti o lascivi amori,

strofe diletta. Balzami libero vivo nel seno

il cuore, al gran maggio, al gran selvaggio canto

che palpita al bosco, che palpita al mare, che sale

su da la verde mèsse, su da la vigna in fiore,

che immenso ondeggia peglauchi cieli diffusi,

nembo d’effluvii, turbine di pollini,

nel sole nel sole nel sole, esultante squillante

tonante immensa voce di mille iddii.

E non il dio è in me? Il palpito eterno del Mondo

questo non è, che il mio cuore mortale muove?

Non vivono forse i germi di tutte le vite

ne la mia vita umana? Sento il prodigio instare.

Ecco, io distendo nel concavo schifo le membra,

offro al paterno sole tutto il mio corpo ignudo.

Tu cullami, o mare, nel tuo infinito respiro;

compi tu, sole, l’alta metamorfosi.

Da le mie membra, fatte giganti, rampolli una selva.

Scorgeranno l’ignota isola i nauti a sera.



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