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Ma ancora ancor mi tentan le spire volubili tue,
o alata strofe, coppia di serpentelli alati
cui domava ad Ovidio con aurei freni un fanciullo
di Venere prole, bello feroce nume.
Lottavan essi: ferivali il tristo co’ dardi;
caldo sprizzava il sangue da le ferite fuora;
rideane il piccolo arciero scegliendo altre punte
con un maligno tintinnir, ma — Docili!
— pregava il poeta — Perché con un dio tanta guerra?
Egli è de’ Parti alunno… Docili, o figli miei! —
Non io son Ovidio, non temo io il pargolo armato,
non a te fido vili pianti o lascivi amori,
strofe diletta. Balzami libero vivo ne ’l seno
il cuore, a ’l gran maggio, a ’l gran selvaggio canto
che palpita a ’l bosco, che palpita a ’l mare, che sale
su da la verde messe, su da la vigna in fiore,
che immenso ondeggia pe’ glauchi cieli diffusi,
nembo d’effluvii, turbine di pollini,
ne ’l sole ne ’l sole ne ’l sole, esultante, squillante,
tonante, arcana voce di mille iddii!…
E non il dio è in me? non rinfrangesi il palpito eterno
de la materia ne’ miei nervi, e vibrane
il cérebro, vibrane il sangue, fin l’ima fibrilla
ne vibra, zampillane forte una vita nova?
Ecco, io distendo ne ’l concavo schifo le membra,
do a’ baci de ’l sole questo mio petto e il viso.
Tu cullami, o mare, su l’onda tua fresca d’effluvi;
voi guizzatemi intorno, sì come pesci, o strofe.
Guizzate. Da me inconscio rampollino erbe e virgulti…
Navigherà per l’acque un’isoletta a sera.