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II77.
Violacee l’onde ne ’l vespero fosco d’autunno
irrompono mugghiando per le deserte rive,
irrompon con feroce sguizzare di dorsi e di code,
simili ad immenso nembo d’alligatori.
Vanisce il Gran Sasso da lungi, titan soffocato
entro il torpore de la fumèa sanguigna;
per le solitudini de ’l piano s’internano in fila,
qual caravana di dromedari, i colli;
surgono li alberi qua e là, morituri, a cui pugna
ancor la vita ne le supreme cime,
surgono: con sibili lunghi il vapor li saluta
fuggendo e tacito io ne la triste fuga
guardo… Oh immemori scheletri d’alberi, un giorno
pugnaci a l’aura come virenti atleti!
oh malvage acque, di sole e d’azzurro esultanti
un giorno, di canti larghe ad amori umani!
Me per questo tedio angoscioso d’autunno, me porta
lungi da ’l mare, lungi da la patria,
il mostro: su ’l volto io l’estrema carezza, l’estremo
bacio sentomi tepido di lacrime,
e i materni aneliti; ancora ne l’anima suonan
le rotte voci ch’ella mettea piangendo,
ancor l’immagine cara protendere io veggo
le braccia in ultimo impeto disperato.
O madre, mi chiama un intenso desio di battaglie
a genti ignote, lungi, ad ignoto cielo!
Pur, dolce l’incanto de’ tuoi sereni occhi e il consiglio
dolce m’era; una pace nova fluir pe ’l sangue
io sentivami quando, riarso la faccia, sfinito
le membra a le corse folli, ai galoppi, a ’l nuoto,
su le ginocchia il capo selvaggio posavati e lene
la tua man scorreami entro le calde chiome.
Entravan ne le chiome libere i venti ed il petto
ai venti libero gl’inni di gioia dava.
Oh inni squillanti da ’l petto per l’ima boscaglia
tra l’alenare di mille verdi vite,
belli inni sonanti, ne l’albe di maggio, a ’l galoppo
de ’l mio poledro, lungo le fratte in fiore!
Sotto la coscia serrata il palpito de’ fianchi
tiepidi io sentiva, ne le narici l’aspro
effluvio de’ crini: tendeansi i muscoli, i nervi
de ’l garretto sì come archi di acciaio; e, tutte
date le briglie, andavam tra la polve… — Salute,
dicean cortesi li alberi — o centauro!
Salute! — dicean frementi a la guazza li atleti,
tutti di germini vivi a l’amor de ’l sole.
Ma non gl’inni, ma non gl’inni valeano un tuo sguardo,
o Lalla, o candida suora di Beatrice;
non gl’inni valeano il sì de la bocca tua, d’onde
fluiva limpida la melodia di Cino.
Bella bella bella veniva ella giù pe’ declivi,
sotto la gloria de le fiorite estive;
dinanzi, l’Adriatico glauco apriva occhi d’oro
a miriadi tremuli su le selvagge rive;
ed ella protesa le braccia, pe’ gli omeri il crine,
sì come una iddia giovine, — O mare, o mare! —
invocava scendendo: tingeanle il candido viso,
tripudiando, que’ miei più fieri soli…
Addio, mare! Tu li ultimi ululi a ’l convoglio fuggiasco
dài; a te io tutte do le mie strofe. Andate,
andate, figlie de l’anima, simili a torma
di procellarie ne la burrasca, andate!
Me attende una torva battaglia, me forte recluta
un fratel ritto sovra gli spaldi chiama:
ode ei cupi rantoli di strozze fameliche, a ’l fondo
come un brulichìo turpe di vermi umani;
ode ei singulti di laceri petti, infantili
gemiti, aneliti, misere bestemmie…
Non più sogni, non ozii. L’azza sfavilli ne ’l pugno
salda; guardi l’occhio vigile a l’avvenire.