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IV79.
Là, come uno spettro, inchiodato ne l’angolo buio
de ’l vico, a notte, Lazzaro ascolta il vento.
Spietatamente gelida e pura la notte d’inverno
sta su le case, sta su le vie deserte,
sogni dona a i felici covanti ne’ tepidi letti,
a la canaglia lividi e bestemmie.
Bestemmie e lividi a Lazzaro, o notte. Egli ascolta.
A tratti a tratti giungon su la raffica
larghe onde di balli, folate di suoni. Egli ascolta;
dolci le note narrano ebrezze a lui:
— Noi veniam da le stanze tepenti lucenti fragranti
ove l’amor sorride, ove il piacere impera,
noi veniamo da un vortice gaio di seriche vesti,
da un barbaglio di gemme, da una follia di fiori! —
— A me picchia ne ’l ventre la fame da più di due giorni:
ho addosso la febbre, m’è morto già un figliolo;
a me il vento mi sferza la faccia, ho qui l’unghie gelate,
sento giù ne la gola grume di sangue e fiele…
Ecco, sento che muoio; ma a casa, perdio, non ci torno:
noi si muore a la strada, peggio che cani, noi! —
risponde il pezzente; e stramazza. Ma il gelido vento,
disceso a valle da la montagna, bieco
urla: — Godete, godetevi i balli e le cene,
o felici; sognate entro a’ ben caldi letti!
Fuori, ne le strade fangose, ne’ sozzi angiporti,
ne le soffitte, ne le stamberghe, a ’l buio,
là dov’è fame, dov’è freddo; là dove si muore,
a notte un sordo fremito propagasi.