Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La chimera
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Imagini dell’Amore e della Morte

DONNA FRANCESCA

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DONNA FRANCESCA

I 9.

O vernimm, Jupiter Xenius, mich!

römische elegien

Forse improvvisa a ’l limitar de ’l cielo

la Primavera giovine s’affaccia,

pronta rompendo con le fiere braccia

le vitree compagini de ’l gelo?

(Acuto fende il riso de l’amante

giovine que’ silenzii perfetti,

come rapido stride il diamante

in man d’artiere su cristalli schietti).

O forse il Titan Sole, il re de ’l coro,

s’invaghì della pia donzella Neve,

e lei persegue e infóndele con lieve

bocca non so qual mite anima d’oro?

Non so. Ma ben cosogni le viole

una donna su ’l capo mio versò

da le prodighe mani. — O lieto Sole,

risplendigli in su ’l cuore! — anche pregò.

Ond’io mi levo, perocché da ’l fondo

rompano fuor de l’antica ferita

li spirti che da lei ricevon vita,

e cantando si spargano su ’l mondo.

Io mi sento passar in fin ne l’ossa

ogni accento ogni nota ogni parola;

e par che tutto il mondo di sua possa

empia il disìo che sopra lei mi vola.

Quale una selva ismisurata e nuda,

se virtù piova in terra la imminente

Luna, albeggia così che veramente

d’un gran fiorire il viator s’illuda,

tal d’improvviso tutta quanta Roma,

a ’l lume di quel gran desire, già

ridemi; e in fior la scintillante chioma

de le sue fonti a ’l puro azzurro .

È questo un sogno? Le tue case, o Giove,

d’ambrosia, aprire a ’l triste ospite godi?

Ecco, io mi prostro. O Giove Xenio, m’odi!

Qual mai virtude per quest’aure nuove

trassemi? La donzella Ebe mi trasse,

cui giglio è il volto in tra la chioma flava?

Tu le dicesti ben che ti recasse

un buono eroe. La giovinetta errava.

Fa che l’error sia gioia a me! L’antico

non sei tu dunque iddio Giove ospitale?

Soffri che ne l’Olimpo un uom mortale

sieda a le mense de gli iddei!… Che dico?

Alto il capitolino monte eretto,

Olimpo tuo secondo, a’ cieli sta.

È questo un sogno? Ne ’l profondo petto,

ecco, mi scende una serenità

nova e m’inonda il sol la fronte. Oh voi,

lunghe trecce di Roma, or m’allacciate! —

cantava un Wolfango Goethe. Alate

sorgean, viventi de’ più schietti suoi

spiriti, l’Elegie per la solenne

conca de’ cieli. E Faustina intese

il trepidar de l’amorose penne;

e le bacchiche braccia a ’l dio protese.

Le bianche braccia ella protese. — Ardete,

o lampade cui nutre olio d’Amore!

Giova il letto goder cui scalda Amore,

anzi che i tuoi piè bagni il fatal Lete. —

Ed in quel sen, ridendo egli a la morte,

la marmorea fronte reclinò.

Talor su le falcate reni il forte

numero de l’esametro contò.

II 10.

Per l’antico viale de l’Aurora,

mentre i cipressi dormono a ’l mattino,

o nova principessa di Piombino,

tu passi; e a te d’in torno il vento odora.

Vive d’in torno a te la grande flora

ludovisia crescendo a ’l sol latino,

bionda Napea di Rafael d’Urbino,

ne la beatitudine de l’ora.

E le fontane vivono; e l’intensa

voluttà de la vita, a ’l tuo passare,

urge fino i cipressi alti e quieti;

e te brama ed a te canta l’immensa

anima de la villa secolare,

o diletta ne’ sogni dei poeti.

III 11.

Se dentro i favolosi orti vermigli

adunava la Luna i suoi misteri

(per lei presi d’amore, alti e leggeri

tremolavano in doppio ordine i Gigli),

il capo ergeano su da li origlieri

le Belle, a tesser rai: lungo i giacigli

di rose, propagavansi i bisbigli

richiamanti a l’agguato i Cavalieri.

In quelle notti, o Bella, de ’l lunare

argento una fatal rete voi forse

tesseste con le vostre dolci dita?

Sentendomi da voi tutto legare,

questo ne ’l mio pensier dùbito sorse;

e ancor ne trema l’anima smarrita.

IV 12.

Odor di rose, forse da i giardini

chiusi del Re, venìa confusamente;

e splendea ne la fredda ora, imminente,

la Luna, su ’l palazzo Barberini.

Mormoravan con voci roche e lente

le fontane invisibili tra i pini:

or sì or no li stocchi adamantini

oltre i rami balzavan di repente.

Noi, chinati da l’alta loggia, soli,

(ella rabbrividìa) de le fontane

ascoltavamo i languidi racconti.

Non così dolce cantan li usignuoli!

Vago ne l’alba suono di campane

giungeva da la Trinità de’ Monti.

V 13.

Più chiara su ’l palazzo Lorenzana

la Luna risplendea, Donna Francesca,

quella vostra beltà raffaellesca

guardando con dolcezza quasi umana.

La fontana di Giacomo, a la fresca

serenità, con voce roca e piana

mettea parole, come una fontana

magica de l’età cavalleresca.

Scintillavano l’acque; le figure

prendean vive attitudini, a l’albore

danzando in tondo con rapide fughe.

Per tale ausilio, al fin le vostre pure

labbra io baciai; così vinsevi amore…

Oh fontanella de le Tartarughe!

VI 14.

Dorme, poggiata il capo a ’l davanzale

de ’l balcon fiorentino,

la Titania di Shakespeare; e un divino

sogno da ’l cuor lunatico le sale.

Una rete d’argento siderale

i suoi capelli accoglie,

e luminose fasciano le spoglie

dei colùbri la sua forma ideale.

Per lei tramano i ragni, su l’opale

de l’aria, le sottili

opere in tra li stipiti; ed i fili

aurei tremano a l’alito immortale.

Così, Donna Francesca, entro il natale

albore di Selene,

ora dormite; e, in torno a le serene

bellezze, io vo tramando il madrigale,

mentre spiran le rose l’aromale

anima ne’ roseti

e li usignuoli i fiumi ed i poeti

cantan la notte augusta e nuziale.

VII 15.

Una notte, com’io l’alta portiera

sollevai piano co’ la man tremante

presso il gran letto la mia dolce amante

scorsi a ginocchi in atto di preghiera.

Ricorrean ne la stanza ampia e severa,

intessute con rara arte, le sante

Allegorìe che l’anima pregante

traevan forse a più gioconda sfera.

Muto io ristetti, come a ’l limitare

d’un tempio; ma il disìo tutto s’immerse,

stridendo, in quel misterioso aroma.

Ben, quando (oh notte!) la divina chioma

io le disciolsi e vinta ella m’aperse

le braccia, il letto parvemi un altare.

VIII 16.

Entra l’albore gelido, pe’ i vetri,

ne l’ombra di quel letto ov’ella dorme

stanca di voluttà con semichiuse

le dolci labbra in cui trema il sorriso.

Or la Luna, ferendo ne l’aperto

cofano i bei gioielli, gloriate

opere di sottili orafi, illustra

diamanti, camei, perle e smeraldi.

Splendono le collane, come spire

d’un favoloso rettile sopito;

e paiono viventi occhi i rubini.

Langue, da presso, entro la coppa un giglio

in sua verginità, nobile e puro

quale un vaso liturgico d’argento.

IX 17.

O amica dolce, non sapeste mai

la verace dottrina che ne ’l mondo

il figliuol di Gesù, bello e giocondo

adolescente, a l’ombra de ’l Sinài,

predicava, ne ’l nome d’Adonài,

a le spose ed alli uomini ascoltanti

ed ai compagni efèbi, in tra’ rosai,

mentre scendean dal monte i greggi erranti?

E come Ciro figlio di Cambise,

destro era e forte, generoso e parco,

non superato in trarre lancia od arco;

e molte fiere la sua mano uccise,

la sua man degna d’un regale sire,

ben usa a profumar la chioma bionda

di rare essenze che facean languire

le femmine in soavità profonda.

Divino era il suo nome: Eleabani.

Ed era come un olio di viola,

sereno, che ne ’l suon de la parola

si spandesse a lenire i petti umani.

In fondo a l’occhio suo puro e crudele

eran segrete fascinazioni.

Come il santo profeta Daniele,

avrebbe ei vinto a ’l suo giogo i leoni;

e con la voce, cantico di lire,

mansuefatti avrebbe aspidi in guerra.

Or prima, a soggiogar l’anime in terra,

trasse i cuor de le donne a ’l suo desire.

Tutte, da’ bei palagi ove risplende

l’oro, e da’ templi ove la pace dorme,

e da l’umili case, e da le tende

nomadi, e da’ tuguri, a torme a torme,

venivano a ’l figliuol de ’l Nazareno,

a ’l bene amato eroe de la fortuna.

Lui proseguìano a ’l sole ed a la luna;

lui chiedeano, in morir de ’l suo veleno;

lui, ne l’alba, torcendosi le braccia,

invocavan su ’l tepido origliere,

o sognavano, pallide la faccia

tra l’ampia chioma, sfatte da ’l piacere.

Per l’errore de’ portici silenti

a la fonte, assetata, una Maria,

come il cervo simbolico, venìa;

e ne l’acqua immergea le mani ardenti.

Quindi, protesa le stillanti mani,

e il ventre, bianco qual coppa d’avòro,

nudata, mormorava: «Eleabani!

Eleabani da la chioma d’oro,

o tu per le cui membra i rai de ’l sole

una veste han tessuta, Eleabani,

o tu cui ne la bocca come grani

di puro incenso odoran le parole,

o tu che de ’l tuo corpo hai fatto vase

a’ balsami celesti ed a’ profani,

o tu che scendi ne le nostre case

qual ne’ campi rugiada, Eleabani,

m’odi: li astri de ’l ciel com’aurei pomi

tremano in tra le foglie a’ melograni;

io son ebra e languisco, Eleabani,

come la damma a ’l colle de li aromi.

Come a ’l vento tra le àrbori la damma,

io trasalgo e sobbalzo ai romor vani.

Ad ora ad ora, in ciel vedo una fiamma.

Non tu sei che lampeggi, Eleabani

Ed egli, avendo ereditato il Verbo,

amò, come Gesù, peregrinare.

Le parabole sue, rapide e chiare,

pungean le menti con lor senso acerbo.

Predilesse i conviti, poi che aperto

ne la fraternità conviviale

è l’animo de li uomini ed un serto

di chiarissima luce il vin spirtale

cinge a le fronti; e predilesse i petti

feminei, de’ lunati òmeri il giro,

a segnar come in nitido papiro

evangelicamente i suoi versetti.

Quale un fiume, cui gonfia d’acque il maggio,

da le sedi natali alto discende

e più cresce in sua gioia e con selvaggio

fremito ride e a ’l sol pieno s’accende:

odono i boschi giugner la ruina,

vasti su le pacifiche pendici;

in van lottano; e, presi a le radici,

piomban ne ’l gorgo; tal la sua dottrina

volgea, passando, le credenze e i culti

e risplendea di libertà ne ’l sole.

Come il fiume in sua via reca virgulti,

pur recava d’amor nuove parole.

Egli ammoniva: «O giusto, è breve l’ora.

Ne la tua servitù sii paziente.

La pazienza è l’immortal nepente

che afforza i nervi e l’anima ristora.

Come in un tempio, ne ’l tuo cor ricevi

l’alto Ideale che de l’uomo è figlio.

E sappi in quel che mangi e in quel che bevi

trovar l’ambrosia e il nettare vermiglio

Ed ammoniva: «O donna, o Vaso insigne

de la dolcezza ed Arca de l’oblìo,

versa a li uomini il vin che già il Desìo

cantando ricogliea ne le tue vigne.

Fa che soave il tuo spirito ceda

a l’alitare d’ogni passione,

come la tibia d’oro ove un’auleda

prova a diletto sua lene canzone.

Ama il tuo sposo ed ama il tuo figliuolo

ma fa che il beneficio tuo si spanda

pur su colui che in carità dimanda

una stilla d’amore, umile e solo.

E tutto diverrà per t’onorare

Mirra, Olibano, Incenso e Belzuino;

e saliranno come ad un altare

i cuori a te, con giubilo divino.

La carne è santa. È l’immortale rosa

che palpita di suo sangue vermiglia.

È la madre de l’uomo ed è la figlia.

Ed è quella che sta sopra ogni cosa.

Ella racchiude, come un’urna aromi,

tutte le voluttà, tutti i dolori.

Ha l’ardente opulenza ella de’ pomi,

ha la soavità casta de’ fiori.

Quale a notte in un tempio una fontana

mormora ascosa e voci di lire,

fa il sangue in lei pel ritmico fluire

una musica assai dolce e lontana.

La carne è santa. Guai a chi non piega

l’anima innanzi a lei; però che tristo

egli l’essere suo nega, e rinnega

il suo divin maestro Gesù Cristo:

Gesù che, fatto carne, in su la croce

morì ne la montagna solitaria,

Gesù che, fatto carne, ebbe in Samaria

verso la donna così mite voce,

Gesù che, fatto carne, arse d’amore

vedendo un giorno in su la via fiorita

la Magdalena, e lei pregò d’amore

e me condusse a questa dolce vita

Tali cose ammonìa, tra la comune

giocondità de ’l vino, in su la chiara

mensa. E le perle de la sua tiara

splendeano vagamente come lune.

Il cenacolo avea forma di lira.

Quattro colombe d’or con ali tese,

in alto, tra le frange di Palmira,

a invisibili fili eran sospese.

Due dromedari, avendo in su la schiena

otri forati ed una campanella

di fino argento sotto la mascella,

spargean su’ marmi essenza di verbena.

In torno, i domitori-di-cavalli

efèbi, sollevando in tra le mani

vasi che rendean suon come timballi,

beveano salutando Eleabani.

Bevean, coperti di carbonchi, in torno

satrapi enormi da la barba d’oro

il chalibon, rarissimo tesoro,

in un corno sottil di liocorno.

I dottori, i grammatici, i salmisti,

ed i leviti, i giudici, li scribi,

e i mercatanti, e i musici, commisti,

disperdean su la mensa i rari cibi.

Le vestimenta lor, tinte di fuchi

preziosi, brillavan di lontano.

Alcuni, taciturni, aveano strano

aspetto di carnefici o d’eunuchi.

Ma le femmine cinte di ghirlande,

con denti bianchi come il gelsomino,

rideano tra ’l vapor de le vivande,

suggean da coppe di smeraldo il vino.

Il lor nitido riso giungea grato

ai cuori, come un verso numeroso.

Stendean le braccia, con un grazioso

gesto, a mostrare il cùbito rosato;

e prendean su la mensa i cedri, i fichi,

e le mandorle, i datteri, le olive.

Ne ’l bacio offrian, con belli atti impudichi,

la molle polpa su le lor gengive.

«Or mangiate e bevete, e di piacere

inebriate il vostro cuor mortale;

ché da l’ebrezza a Dio l’inno risale,

grato come l’odor de l’incensiere»

diceva Eleabani. Ed era immune

il suo cuor da l’ebrezza ed era chiara

la sua voce; e splendeano come lune

ferme le perle de la sua tiara.

X 18.

Francesca, o amica, o trepida colomba,

perché piegate voi su ’l sen la testa,

pallida udendo il tuon de la tempesta,

che improvviso ne l’anima rimbomba?

Perché torcete ne ’l dolor le mani,

le care mani, i fior gracili e snelli,

che pur ieri sapevan, con sì piani

blandimenti, solcare i miei capelli?

Francesca, o amica mia, perché piangete?

Le vostre membra treman così forte,

e così roca su le labbra smorte

vi muor la voce, ch’io non ho quiete. —

Ed ella: — Io guardo nel cuor mio; che, ardente

come una lampa, è tutto avviluppato

da una spoglia di serpe, transparente,

su cui l’orrido Inferno è figurato. —

XI 19.

Come a notte in un tempio una fontana

mormora ascosa e voci di lire,

fa il sangue in noi pel ritmico fluire

una musica assai dolce e lontana.

Veramente io non so quali parole

il buon sangue ne ’l capo mi favelli

volgendo sue misteriose ambagi;

ma ben io so che mai gighe o viuole

ornaron di più vaghi ritornelli

serenate d’amor sotto i palagi.

Canta, o buon sangue! Ed i pensier malvagi,

tutti, qual vin, da l’anima discaccia.

Nel mezzo del mio cor ride una faccia,

guardando la vendemmia allegra e sana.

XII 20.

Se pure il verso mio, Francesca, è reo

d’aver la vostra natural piacenza

ritratta intiera, in un lavacro, senza

la casta zona e senza il conopeo,

fu tempo già che Fra Bartolomeo,

pingendo i Protettori di Fiorenza,

la Nostra Donna in sua gentil movenza

ritrasse ignuda in mezzo a ’l gran corteo.

Or dunque se il buon frate di San Marco,

il quale è assunto ne le eterne stelle,

ebbe per l’opra sua cotale ardire,

non io potrò ne ’l verso mio scoprire

de ’l vostro sen le due beltà gemelle

e de le late spalle il candidarco?

XIII 21.

Quando su per le scale ampie d’argento

la Reina salìa verso l’altare,

levata li umidi occhi a ’l Sacramento,

pallida e fredda, se volea pregare,

dava il bianco metallo un vibramento

sonoro in ritmo a li urti de ’l calzare:

tutte le scale come uno stromento

si mettevano in gloria a risonare.

O Francesca, così la vostra bionda

bellezza dal disìo chiamata ascende

or de’ miei versi il mistico edifizio.

Fremono a i vostri piedi, con un’onda

di suoni, i versi, e a ’l culmine vi attende

tra i profumi de l’urne il sacrifizio.

XIV 22.

Aveva un tempo il cardinal Grimani

ne ’l breviale suo, fino tesoro,

un’imagine ove molti angeli in coro,

ceruli e biondi, da’ bei volti umani,

su li òmeri o su le agili ale d’oro

o su l’èsili palme de le mani

offrìan cinte de’ nimbi cristiani

l’anime de li Eletti al Signor loro.

Ignude erano l’anime: più bella

tra l’altre una figura feminina,

ne la sua dolce nudità, salìa.

Amo io così raffigurarti, o pia

Sposa, lungo l’azzurra erta divina,

su l’ali d’una candida angelella.

O del Signore ancella,

soffuso di pudore il vivo giglio

de le tue membra apparirà vermiglio

e per tutte le anella

fiammeggerà la celebrata chioma

simile ad una gran face d’aroma.



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