Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La chimera
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HYLA! HYLA! 32.

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HYLA! HYLA! 32.

De la placida selva entro li abissi,

ove s’odon gli egìpani bramire,

Ila di Misia, il giovinetto sire

a cui cingon la fronte i bei narcissi,

prono su la cerulea sorgente

tutte le membra, in atto di ristoro,

v’immerge una sua grande anfora d’oro

con tardo gesto, dilettosamente.

Piegano a ’l peso de ’l metallo cavo

i calici de ’l loto; e treman l’acque

poi che l’efèbo, ignudo come nacque,

in chinarsi v’intinge il suo crin flavo.

Ma da la man ch’è presa di languore

sfugge l’anfora e lenta si sprofonda:

ne ’l glauco vel la sua forma rotonda

appare qual meraviglioso fiore.

L’Asiatico già tende le braccia

trepidamente verso l’imo ignoto:

attonito, fra i calici de ’l loto

ei vede arguta ridere una faccia.

Insidiose, in lunghi allacciamenti,

ondeggiano le naiadi lascive:

balenano di riso ne le vive

bocche le chiostre nivee dei denti.

Sogguardan elle con languida brama

Ila, si torcon elle in fra le piante.

O figliuolo del re Teodamante,

non così dolce mai Ercole t’ama! —

O tu, de li Argonäuti diletto,

a cui cingon la fronte i bei narcissi! —

Discopron elle in tra’ capei prolissi,

ridendo a sommo, il ventre bianco e il petto.

Or, prono a la soave riva, il lene

Ila sente vanir sua conoscenza,

quasi di bocca la divina essenza

d’un frutto gli si strugge per le vene.

E le naiadi in lunga teorìa

sorgon, gli avvincon de le braccia il collo.

Ila chiomato, oh simile ad Apollo! —

Ei beve, ei beve; e il caro Ercole oblìa.



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