Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'allegoria dell'autunno
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Per la dedicazione dell’antica Loggia fiorentina del grano al novo culto di Dante

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Per la dedicazione dell’antica
Loggia fiorentina del grano
al novo culto di Dante

Per celebrar con più alta parola la rinnovata dedicazione di questa sala, che vediamo restituita finalmente alla libertà e all’austerità della sua antica pietra, doveva oggi da questa tribuna levarsi un’altra voce, cui non senza fremito la patria ha udito ricordatrice di virtù e di grandezza in ore solenni: la voce più nobile e più pura che sia oggi nel parlar materno, quella del maestro che ieri partì dalla città di Dante sanato e rinvigorito e pronto tuttavia al suo fausto lavoro tra i vóti unanimi della riconoscenza nazionale.

È giusto che nel nome, anzi nel conspetto di colui il quale patì l’ingiuria la persecuzione l’esilio e tutte le più crude miserie umane, è giusto ed è bello che noi onoriamo una vita forte e pensosa, libera e devota, tutta quanta vissuta nel culto delle più ferme idealità latine, data tutta quanta allo sforzo di risollevare su gli altari della Patria le virtù geniali consacrate dalla tradizione, e assiduamente intesa a magnificare «l’onnipotenza di questa gloriosa e benedetta lingua d’Italia» che, come il gran padre Allighieri, il poeta della Canzone di Legnano ha amato ed ama di perfettissimo amore.

A qual fine fu constituita questa Società dantesca italiana e riaperto questo tempio cittadino se non al fine di riaffermare la sovrana dignità dello spirito e di significare, in commemorazione dell’Esule che invano sperò di vincere col suo poema sacro la crudeltà ond’era serrato fuor del bell’ovile, di significaredico – che la novissima Italia prepara una miglior sorte a quanti s’affaticano e lottano per farsi degni di aggiungere una qualche pietra armoniosa all’edifizio inalzato dai padri?

Per dare di tal fine una testimonianza, mandiamo in questo primo giorno il nostro augurio al grande poeta risanato cui già due generazioni di studiosi debbono il senso della vita storica, il senso delle profonde forze terrestri da cui si generano in ogni epoca le forme dell’arte, l’animazione possente della materia letteraria che si congela sotto l’arida pazienza degli eruditi ricercatori, l’instrumento magnifico di una lingua attinta alle fonti più larghe e più fresche. Riconoscendo il benefizio che la nazione ha ricevuto da lui e rendendogli grazie e facendogli onore, noi riconosciamo nel tempo medesimo la dignità civile delle lettere, il vero posto che oggi spetta all’artefice della parola, non più considerato come il sottile ornamento di una civiltà laboriosa, ma come il primo dei cittadini, come il più alto esemplare di conscienza prodotto da un popolo, come il testimone l’interprete e il messaggero del suo tempo.

Se Giosue Carducci parlasse oggi da questa cattedra – egli che si sforzò di ricollocare nella propria luce dell’età sua il gran padre Allighieri e di vederlo nelle proporzioni umane e nelle attinenze con gli uomini – certo designerebbe questo luogo di adunanza non come un arringo di comentatori ingegnosi ma come un focolare di vita energica aperto nel centro della città. E io penso che i promotori di queste letture per il popolo non abbiano voluto soltanto dare occasione agli illustri dantisti di esporre le loro dotte ricerche in modo da renderle accessibili alle menti dei più, ma abbiano voluto principalmente instituire una tribuna libera ove gli uomini d’intelletto, al contatto con il terribile spirito di Dante, mostrino la lor potenza vitale, la forza viva del loro pensiero, la sincerità del loro nutrimento, la lor facoltà di risonare nell’anima della moltitudine, e con l’aiuto del Libro portentoso cerchino di ristabilire ne’ suoi lineamenti essenziali l’imagine difformata della Patria.

«Qui si parrà la tua nobilitate» è l’ammonimento che dovrà udire in sé, prima di aprire il Libro del paragone, ognuno che salirà al conspetto dell’adunanza. La vita produca la vita. La virtù di Dante è virtù di fecondazione. Tutte le sue parole sono semenze, ed è una grazia della sorte questa: che l’officio del suo culto occupi la loggia cittadina del grano, la sala destinata alla custodia delle biade, ove possiamo evocare la feracità del solco, il gesto del seminatore e il miracolo del sole. Come il pane, Dante serve a perpetuare l’energia della stirpe.

Io spero che saranno qui chiamati a leggere le eterne pagine molti giovani, perché si sappia se sono vivi o se sono morti. Ponete uno spirito giovenile dinanzi alla foresta, al mare, alla montagna, e dalla novità e dalla profondità della sua commozione conoscerete il pregio della sua anima. Dante è come la montagna, come il mare, come la foresta: ci appare ogni giorno in un aspetto impreveduto, ci rivela ogni giorno una verità subitanea. Noi discopriamo in lui «sempre nuove concordanze con l’imminente edifizio dell’Universo, riscontri inattesi con l’idea che nacque ieri, chiari annunzii di ciò che in noi non è se non un presentimento, aperte risposte a ciò che noi non osiamo chiedere ancóra». Egli vive in tutto il passato e in tutto l’avvenire. Si può dire di lui: «Nel principio fu, nella fine sarà.» Il suo canto enuncia le leggi necessarie a cui la nostra stirpe deve obbedire per ritrovare la sua potenza. Egli soltanto ci aiuterà a rintracciare l’effigie smarrita dell’Italia bella; egli soltanto ci aiuterà a preparare l’avvento degli uomini che attendiamo, capaci di conciliare in una medesima idealità le grandi azioni e i grandi pensieri; egli soltanto infine potrà suscitare nei sinceri e nei forti il sentimento della vita eroica.

Che da questa tribuna qualche vergine forza ignota si riveli, risuoni qualche improvvisa parola di risveglio, lampeggi a un tratto qualche audace speranza!

Non è vero che noi siamo in punto di perire e che tutto il paese non sia se non una immensa palude ove chi più si agita più affonda. La massa vitale della nazione è travagliata da fermenti occulti ond’è per levarsi qualche straordinaria febbre. Vivono qua e uomini sinceri e forti la cui volontà si esercita secondo il bisogno morale dell’ora ch’essi attraversano, le cui azioni si svolgono subordinate a un’idea sorta in loro «al contatto con la terra», intese a riempire d’un’armonia esatta i loro momenti e ad attrarre in quell’armonia i moti discordi che li contrariano. E a quando a quando nella stessa moltitudine si manifestano aspirazioni repentine verso la semplicità e la bellezza, che sono indizio della profonda sete ond’essa è tormentata, cui non valgono ad estinguere né a pervertire gli ignobili beveraggi che le propinano coloro i quali fanno professione di sollazzarla.

Non abbiamo sentito di recente il popolo d’Italia palpitare dinanzi alla figura selvaggia e grandiosa di un suo artefice distesa nell’eternità della morte e della gloria? Quando Giovanni Segantini spirò su la montagna, almeno per un giorno il dolore, la meraviglia e il sogno liberarono l’anima della patria dalle angustie consuete; e, nella brevissima tregua che le davano le virtù della poesia, ella parve ritrovare in sé stessa il segno di qualche sua primitiva attitudine e quasi riconoscere il suo diritto a un antico retaggio di cui fosse stata dispogliata. Forse ella provò l’ansia di chi sia per ripossedere una ricchezza perduta. Col grande cadavere portato giù per la montagna sotto la bufera, discese al piano la bontà dell’esempio. Taluno di noi fu acceso d’amore per la solitudine e si propose una vita più semplice, un’opera più virile; taluno di noi pensò che tutto era ancóra da sperare e da attendere se una razza creduta decrepita, se una nazione creduta esausta e consunta aveva potuto produrre un esemplare umano di così schietta potenza, d’ingenuità così rude. V’è dunque – pensò taluno – nella nostra terra un fondo inesauribile di forza creatrice, un nucleo d’energie latente ove si ristora perpetuamente la vita che si consuma in noi, ove si formano in segreto i corpi gagliardi, i cuori vasti, gli spiriti luminosi che domani c’irradieranno all’improvviso, mentre gli strumenti della nostra opera imperfetta stanno per cadere dalle nostre mani stanche. È vero dunque che la nostra terra «è ancóra tanto ricca da poter nutrire il germe della più alta speranza».

Amava il libro di Dante quel religioso pittore delle cime, quell’anacoreta estatico per cui l’arte fu una preghiera e le forme terrestri nella luce del giorno furono apparizioni dell’Eterno? Mi piace di pensare ch’egli avesse il Libro al suo capezzale e ch’egli vi trovasse ogni mattina e ogni sera la parola eroica che doveva sostenerlo nella sua fede e nel suo amore. Quale altro libro infatti avrebbe potuto esser compagno a colui che era destinato a salire, a salire sempre più in alto, a esser rapito dalla sua estasi verso il sole e verso la morte? I versi di Dante sono i musicali fratelli delle montagne, dei ghiacciai, dei fiumi, delle forze originarie. La medesima verità si esprime in essi e nelle scritture misteriose che fanno aspre le rupi. Ma è assai più facile fendere e abbattere la più ardua rupe che mutare un verso dell’Inferno.

Io non posso pensare senza sbigottimento l’émpito e l’ardore della smisurata anima nel mescolarsi alle potenze elementari per concepire il suo mondo. Le comunioni di questo poeta con la Natura hanno a volta a volta una terribilità e una soavità non conosciute da alcun altro. La sua energia di contemplazione trasmuta la sua mente «in una similitudine di mente divina», come dice Leonardo, nella quale si appaga la perpetua aspirazione della Natura verso i tipi ch’ella non giunge a stampare integri nelle sue impronte. Tutto il suo stile dimostra come profondamente egli conosca la legge per cui ogni cosa naturale esprime all’esterno la sua propria forma interna e comprenda il linguaggio onde ogni cosa rivela la sua essenza, racconta la sua vita. Quante volte, aprendo il poema, non vediamo noi nella materia verbale le forme organarsi colorarsi atteggiarsi con la stessa intensità con cui esse potrebbero apparirci sotto il sole?

Ora imaginate l’Allighieri, pieno già della sua visione oltremondana, su le vie dell’esilio, pellegrino implacabile, cacciato dalla sua passione e dalla sua miseria di terra in terra, di rifugio in rifugio, a traverso le campagne, a traverso le montagne, lungo i fiumi, lungo i mari, in ogni stagione, soffocato dalla dolcezza della primavera, percosso dall’asprezza dell’inverno, sempre vigile, attento, aperto gli occhi voraci, ansioso del travaglio interiore ond’era per formarsi l’opera gigantesca. Imaginate la plenitudine di quell’anima nel contrasto delle necessità comuni e delle infiammate apparizioni che gli si facevano incontro di repente allo svolto di un cammino, sopra un argine, nella cavità di una roccia, pel declivio d’una collina, nel folto di una selva, in una prateria canora di allodole. Per i tramiti dei sensi la vita molteplice e multiforme gli si precipitava nello spirito trasfigurando in viventi imagini le idee astratte ond’esso era ingombro. Ovunque, sotto il passo doloroso, scaturivano sorgenti imprevedute di poesia. Le voci le parvenze e le essenze degli elementi entravano nell’occulto lavoro e lo aumentavano di suoni, di linee, di colori, di movimenti, di misteri innumerabili. Il Fuoco, l’Aria, l’Acqua e la Terra collaboravano al poema sacro, pervadevano la somma della dottrina, la riscaldavano, l’attenuavano, la irrigavano, la coprivano di foglie e di fiori. Veramente, secondo l’espressione di Bacone, l’uomo si aggiungeva alla Natura per continuare l’opera della divina Madre. E da questa congiunzione patetica l’arte traeva la sua sostanza eternale, il poema sorgeva come un mondo in un mondo, durevolmente vivo nei tempi dei tempi. Così le creature tragiche di Eschilo portano in loro il segno dei miti naturali ond’escirono: élleno sono ancor calde del foco etereo, lucide della luce siderale, umide della nuvola fecondante. Così, se imaginiamo aperta la statua di un dio greco, ne vediamo erompere l’acqua o la luce, i baleni o i vènti del cielo. Così, se svolgiamo il Libro di Dante, l’effigie stessa dell’Italia bella ci appare come se la vedessimo da un culmine sublime e c’inebria l’odore del nostro suolo in cui le radici delle memorie sono mescolate alle radici degli allori e delle querci.

Ma l’apparizione centrale della Città di Dite – che è una delle imagini più evidenti, più tragiche e più concise che sieno nell’Infernooscura la persona fangosa di quell’Adimaro che cerchiava d’argento l’ugne de’ suoi palafreni.

Quivi il lasciammo; ché più non ne narro.

Il paese infernale è quivi d’una meravigliosa desolazione, maremma scolorata per ove un confuso clamore soffia come un vento che or sì or no s’afforzi. Il grido di Flegiàs fende il fumo spesso, domina iroso il coro delle ire.

Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a voto…

L’antico nome del Lapite furibondo, che incendiò il tempio del dio obliquo, passa quasi fiammeggiante su la morta gora, annunzia col suo squillo la città vermiglia. Questo vendicatore, che s’armò d’una fiaccola, è divenuto il nocchiere che traghetterà il maestro e l’alunno alle case ardenti. Il fuoco rugge nel destino della sua stirpe come in una fucina sinistra. Se egli bruciò il santuario dèlfico, la sua figlia Coronide perì sul rogo.

Ricordate i colori di Pindaro nella terza Pitia? I parenti hanno alzata la giovine pregante su la pira funebre; già il violento Efesto la divora con le sue splendidissime fiamme; ed ecco, s’ode la voce di Apolline: «Non soffrirò che il mio figliuolo perisca di sì lacrimevole morte e segua la sorte materna!» E con un sol passo giunge alla pira, strappa dalle viscere della madre già combuste il fanciullo, lo affida incolume a quel centauro della gran bocca, al gran Chirone che anche ritroveremo nell’Inferno su la riviera del sangue. Così Flegiàs, uscito da un mito igneo, è posto a vociferare e a minacciare sotto la Città del foco. La mitologia degli Elleni par che prosegua nel poema sacro le sue ultime metamorfosi.

Dal lamento gorgogliante nella belletta alle stizzose imprecazioni dei demoni in su le porte negate, quante voci hanno la collera e la doglia sul putrido pantano e intorno alle mura ferrigne! La stessa voce di Dante passa dall’accento dello sdegno a quello della crudeltà, dall’accento della meraviglia a quello del timore e della supplicazione. La stessa voce di Virgilio passa per le più diverse note, per le melodie più dissimili: insegna, irride, respinge, benedice, ammonisce, consente, rassicura, sospira, annunzia.

Fra tanto contrasto di suoni, fra tanta mobilità di gesti, le linee del paese sono disegnate fermamente. L’ombra e l’uomo, procedendo lungo il fossato dalle buie acque, scendono

Al piè delle maligne piagge grige

insieme con quel tristo ruscello che fa la palude dilagando. Vasta è la palude e in forma d’un cerchio e nebulosa, e le genti ignude vi si dibattono ferocemente

Troncandosi codenti a brano a brano,

e altre son giù fitte nel limo, e per il lor fiatare l’acqua fa le bolle, e il disperato inno sale or sì or no su per l’agitazione della lorda pozza.

Tristi fummo

Nell’aer dolce che dal sol s’allegra!

Ecco un di quei versi, fatti di lume e di freschezza, che a quando a quando si schiudono nella caligine e nell’orrore dell’Inferno come spiracoli della vita serena. Un cristallino cielo di primavera, tutto spirante di soffii odoriferi, si genera dall’impreveduta melodia di quelle sillabe chiare.

Nell’aer dolce che dal sol s’allegra!

Le fangose bocche gorgoglianti al fondo sospirano verso la bontà della vita, esse che furono così acri e mordaci. La memoria dell’aere primaverile fa più grave la loro ambascia.

Or ci attristiam nella belletta negra.

Ma i due pellegrini veggono brillare, alla cima della torre che sta su la secca ripa, due fiammette e un’altra nella fumosa lontananza rispondere «siccome far si suole» nota il Boccaccio «per le contrade nelle quali è guerra». E sembra questo un episodio dell’assedio di Caprona ove il fiorentino vide uscire i fanti patteggiati. La barca di Flegiàs prende l’ombra e l’uomo; e naviga per la morta gora, carica dell’insolito peso, verso la città roggia che è ancor nascosta nelle nebbie della conca.

L’uomo dalle mascelle grandi e dal naso aquilino, che fa affondare la prua nelle sucide onde, sta diritto e vigile, con l’occhio sbarrato innanzi, contratto nell’attesa della immane apparizione. Grida di dolore giungono al suo orecchio, lo percuotono. Egli non rimuove lo sguardo da quella parte ma vi concentra tutta la potenza della sua vista che fra poco gli si muterà in visione terribile.

Ecco l’attitudine perpetua di Dante innanzi all’Universo. Egli è colui che vede e che vuol vedere, egli è una operosa volontà veggente. Nessun occhio umano è comparabile al suo. Le impronte originali delle cose si stampano nel suo spirito integre; e, quando egli le ferma nell’eternità dello stile, esalta il loro essere a un superior grado di vita, cui pel lor intimo ritmo esse non potevano giungere.

Udite come si fa solenne e cupa la musica del verso nell’annunziare il maledetto muro. Due endecasillabi si seguono col medesimo andare misurato dai medesimi accenti, aggravato dal martello delle allitterazioni.

Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,

S’appressa la città che ha nome Dite

Cogravi cittadin, col grande stuolo

Dante scopre per entro al fumo palustre il sinistro rossore. Le rocche dei demoni si disegnano con un contorno violento come le corone dei vulcani nella notte.

Ed io: «Maestro, già le sue meschite

entro certo nella valle cerno

Vermiglie, come se di foco uscite

Fossero.» Ed ei mi disse: «Il foco eterno

Ch’entro l’affoca, le dimostra rosse

Come tu vedi in questo basso inferno

Miracolosa virtù dello stile e della musica! Abbiamo qui il tipo delle rappresentazioni dantesche. Ponete mente alla collocazione delle parole e alla successione dei suoni. Qui tutto è necessario, e tutto converge all’effetto come una serie di moti regolati solleva col minimo sforzo il massimo peso. La struttura delle due terzine sembra aver la fermezza e la possa che sono nel bicipite dell’atleta. Il nerbo della frase vi si tende senza tremito. E l’acume di quel verbo che dall’ultima rima della terzina sembra scagliato come da un arco!

Vermiglie, come se di foco uscite

Fossero.

E la rispondenza quasi simmetrica delle consonanze, nei due tempi della rappresentazione: – effetto musicale istintivo e primitivo, che ritroviamo nelle parti liriche della tragedia greca disciplinato dalla legge dell’equilibrio per mezzo di un’arte segreta e profonda.

« entro certo nella valle cerno»

dice l’alunno. E il maestro:

«Il foco eterno

Ch’entro l’affoca…»

Tutto è qui efficace, conciso, contratto; tutto è semplice e incommutabile come la necessità; una gran somma di vita concentrata in un sol punto, una vasta visione chiusa in un cerchio adamantino che nulla può spezzare o distruggere.

Questo è lo stile. La parola assume qui la dignità del più alto carattere eroico. E la legge di quest’arte è la più ardua legge del mondo spirituale.

Ora pensate al luogo dove questo canto fu composto, a quell’austera e fiera Lunigiana che ha forse le più belle montagne della Terra.

Mi piace di pensare che Dante, ospite dei Malaspina, avesse la visione della Città di Dite guardando le Alpi Apuane affocate dal sole occiduo, vermiglie, veramente, come se di foco escite fossero.

Chi le ha vedute una volta, dal mare, ardere nel deserto dell’etere, non può non consentire alla mia imaginazione.

Degno rifugio di Dante quel castello di Fosdinovo, su l’altura ventosa, con le sue torri rotonde, con i suoi spaldi invasi dall’erbe selvagge, con le sue gradinate, con i suoi androni, con le sue corti di fosca pietra, con tutta quella sua ferrigna ossatura guerresca che i secoli non hanno incurvata. Se l’Esule abitò la stanza, angusta e nuda come una cella, che il custode mostra religiosamente ai visitatori, egli poteva vedere per la sua finestra al termine d’ogni sua giornata le creste formidabili delle Alpi marmifere infiammarsi e dominare la Val di Magra già sommersa nell’ombra e nel silenzio.

Taluno si è chiesto se la storia dei culmini terrestri non possa dirsi intimamente legata alla storia dei culmini ideali, se non si possa attribuire allo spettacolo delle montagne qualche parte della virtù che fece degli Elleni e degli Italiani i conduttori delle nazioni in Europa, i promotori della grande coltura umana nel mondo. Non v’è una contrada, in Grecia e in Italia, d’onde non si scorga una catena montana. Le montagne quasi sempre formano il principal lineamento di lor bellezze illustri. Ad Atene, a Sparta, a Corinto, a Firenze, a Pisa, a Verona, la sembianza delle montagne è d’una nobiltà che eguaglia la perfezione delle più famose statue.

Se io dovessi darvi un’imagine visibile e tangibile dell’energia, della durezza, dell’impeto di Dante, vi additerei quelle Alpi aguzze e nude, patria delle aquile nere e dei pensieri lapidarii, impetuose nella lor solidità come le materie fluide, come le acque, come le fiamme; che sollevano contro il cielo le loro masse travagliate da una muta aspirazione a trasfigurarsi in forme di superiore armonia. Michelangelo penetrò il segreto di quel lor salire furente, comprese la parola del loro appassionato silenzio, sentì nelle loro viscere imprigionata la stessa forza creatrice che in lui si tendeva così dolorosamente verso le forme divine e titaniche. Dante certo contemplandole nella tristezza dell’esilio ebbe dallo spettacolo del lor perpetuo ardimento il conforto alla lotta ch’egli intraprendeva contro la fortuna ostile, e dalle loro punte acuminate e solinghe forse ebbe esempio a que’ suoi grandi versi isolati che stanno come le rupi (o volano come i dardi che il saettatore scaglia traendoli a uno a uno dalla sua faretra); e una sera di meditazione, guardandole da uno degli spaldi erbosi – mentre nell’ombra della valle luccicava il meandro della Magra e il rogo del sole ardeva dietro i monti di Spezia e le acque del Golfo si tingevano di sanguigno sotto i promontorii e intorno alle isole – egli udì, come il profeta biblico, la promessa di Jehovah: Tibi dabo frontem duriorem frontibus eorum: ti darò una fronte più dura delle loro fronti. E l’ebbe.



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