Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La chimera
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Epilogo

A F. P. MICHETTI 98.

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Epilogo

A F. P. MICHETTI 98.

O Francesco, le ninfe de ’l Guercino

seminude accorrenti ne la caccia

ove Diana da le nivee braccia

tende a la strage il grande arco divino;

e la fatale donna de ’l Vecelli,

pallida, a cui ne le perfette mani

risplendono le gemme de li anelli

arcanamente, come talismani;

e il bel violinista Rafaele

a cui si piega sovra il collo puro,

quale un nobile giglio morituro,

esangue il capo d’angelo infedele,

o Francesco, per che virtù profonda

hanno l’anima tua rinnovellata?

Sorge l’anima tua, da la gioconda

communione, fulgida ed alata

a l’Ideale che non ha tramonti,

a la Bellezza che non sa dolori?

Quando grida una voce: — In alto i cuori! —

raggiano de’ poeti erte le fronti.

Oh pomeriggi chiari e dilettosi

in cui fiorì la tua nova fatica

e dentro i versi miei laboriosi

tremò il disìo de la bellezza antica!

Mentre ne l’ampia sala gentilizia

su i quadrati di marmo il sol fluiva

simile ad una lene acqua sorgiva

dilagando con placida letizia,

tu ne la tela, senza alcuna lotta,

l’oro fulvo rapivi a Tiziano,

io derivava in gloria d’Isaotta

i larghi modi de ’l Poliziano.

Una serenità lucida, eguale,

noi tenea. Da la tela a quando a quando,

me d’un fraterno riso illuminando,

tu levavi la faccia gioviale;

o, lento, senza volgere lo sguardo

da l’opra, amavi un tuo pensier felice

ornare, tu che come Leonardo

hai la dolce facondia allettatrice.

Io, ben uso a ’l gentil freno de l’arte,

come un orafo mastro di Fiorenza,

eleggea con acuta pazienza

le gemmate parole in su le carte;

ma, se de ’l mio pacato sofferire

il termine supremo era vicino,

a ’l cuor sentìa l’ebrietà salire

quasi io bevessi un calice di vino.

Fluiva su ’l marmoreo pavimento

un lume biondo come l’idromele;

e il bel violinista Rafaele

parea toccar le corde a ’l suo stromento…

O Francesco, m’è grato rammentare!

Or n’andremo a la patria, ove più molle

per la falcata riva ondeggia il mare

e più mite è l’olivo in cima a ’l colle.

Ne la tua vasta casa, ad ogni stanza

penderanno li arazzi medicèi

e, come ne’ bianchi atri di Pompei,

discenderà la luce in abondanza.

Tu, signor del pennello, io de la rima,

fingeremo beltà meravigliose.

E riderà de’ miei pensieri in cima

quella che il suo d’amor giogo m’impose.

Su ’l vespro converranno a una tenzone,

ne l’orto pien di fonti e di roseti,

donne, scultori, musici, poeti,

principi, come in un decamerone.

E ne ’l convito calici e bicchieri

farà vermigli il dio vin de ’l paese;

andranno in torno i cani ed i coppieri

che amò ne le sue Cene il Veronese;

e i servi porgeranno in vasellami

d’argento frutti il cui vital sapore

da la bocca parrà giungere a ’l cuore

dando piacere per ignoti rami.

Poi sarà dolce insieme ragionare,

lungo i roseti ne la notte bella;

o dormire su l’erbe; o pur vegliare

cantando in coro qualche ballatella.


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