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Sperelli, piange ne ’l tuo cor profondo
l’Anima al fine disperata e sola?
Fa che raccolga ogni dolor del mondo.
Come l’oliva sotto la gran mola
geme un olio soave, il tuo cor franto
geme il verso che esalta e che consola.
Apri una vena al tuo già chiuso pianto.
Corra improvviso un caldo flutto umano
per le tue strofe e s’oda alto lo schianto.
Veggasi tutto il sangue tuo mal sano
rompere fuora e fumigar la piaga
incesa ben da la tua stessa mano.
L’Anima trista che non fu mai paga
narri ai poeti la tremenda angoscia
durata in braccio de l’antica Maga.
Come talora la bandiera floscia,
in cima de l’antenna, alto garrire
s’ode repente se il turbine scroscia,
così, tolta a quel suo lungo morire,
or la tua volontà fiammando forte
al soffio del dolor riprenda ardire.
Tu, co ’l tuo pugno, chiuderai le porte
ove lasciasti tante cose morte.
Ucciderai quel Sogno che il riposo
ti tolse ed in balia l’Anima tenne
e bevve il sangue tuo voluttuoso.
Quel Sogno che la tua vita contenne,
quel vivo Sogno cadrà, sanguinando
qual mozzo capo sotto la bipenne.
Cadrà, con un sorriso muto; e quando,
muto, ti guarderà con li occhi fissi,
pieni d’ombra e di lacrime, implorando,
tu sentirai salir su da li abissi
de l’esser tuo un grido non umano;
e sarà peggio che se tu morissi.
O amico, o tu che soffri, ecco la mano!
Io fui già prode. Io son che, senza grida,
feci tutti i miei sogni a brano a brano.
che si nutriva del mio cor possente
non più m’attira ne l’alcova infida.
E anch’ella simigliava oscuramente
l’Essere ambiguo, il prodigioso Mito
che Leonardo amò ne la sua mente.
Ell’era l’ideale Ermafrodito,
era il pensato Andrògine. Lo sguardo
suscitava un affanno indefinito,
mordeva il cuore, acuto come un dardo;
senza mai tregua, né tristi né liete
sorridevan le labbra… O Leonardo,
insonne Prometèo, sottile Ermète,
bel semidio, quali Anime divine
chiudesti ne le tue Forme segrete?
Una di quelle mute anime al fine
un giorno mi parlava d’improvviso;
Anima con le labbra e con un riso,
un riso inestinguibile ed esiguo,
che le labbra effondean per tutto il viso.
Intento mi guardò l’Essere ambiguo.
Dietro il suo capo risplendea lontano
sotto un ciel dolce un bel paese irriguo.
Mi guardò e mi disse: — In vano, in vano,
Giovine, t’affatichi a penetrarmi.
Il mio grande segreto è sovrumano.
Il tuo desire è contro me senz’armi.
Non giunge fino a me la tua preghiera.
Vincermi tu non potrai, né puoi stancarmi.
Io son la Sfinge e sono la Chimera.
O tu che sogni, qui ne le mie dita
la trama del tuo sogno è prigioniera.
O tu che soffri, io so la tua ferita.
Ma nulla più mi turba e più m’accora.
Io conosco le leggi de la Vita.
Io guardo in me. Le tènebre ch’esplora
il mio sguardo profondo, internamente,
m’attraggon più d’ogni più bella aurora.
Che è l’aurora? Che è mai l’ardente
spira de li astri, il mar blando e feroce?
Io guardo in me con le pupille intente.
Sola io contemplo, sola e senza voce,
un mar che non ha fondo e non ha lido.
O tu che soffri, il tuo soffrire è atroce;
ma non saprai giammai perché sorrido. —